Enrico Cornelio Agrippa von Nettesheim (1478-1535) e Teofrasto Paracelso (1493-1541) percorsero entrambi la via indicata dalla concezione di Nicolò Cusano. Essi si sprofondano nella natura, cercando, con tutti i mezzi che i tempi offrivano, d’indagarne da ogni lato possibile le leggi. In questo sapere naturale essi vedono al tempo stesso la base vera d’ogni conoscenza superiore, e cercano di sviluppare tale conoscenza superiore dalla scienza naturale stessa, facendo sì che questa rinasca nello spirito.
Agrippa von Nettesheim ebbe una vita assai movimentata. Nato a Colonia, da nobile famiglia, studiò medicina e diritto, cercando d’istruirsi intorno ai processi naturali, come allora usava, in determinati circoli e società, o anche presso singoli studiosi che tenevano accuratamente celato quanto si era loro dischiuso in fatto di conoscenza della natura. A questo scopo egli si recò più volte a Parigi, in Italia e in Inghilterra, e visitò pure a Wiirzburg il celebre abate Tritheim von Sponheim. Agrippa insegnò a più riprese in istituti scientifici e fu qua e là al servizio di ricchi e di potenti, mettendo a loro disposizione le proprie capacità di uomo di stato e di scienziato. Se i servigi da lui resi non vengono sempre qualificati come irreprensibili dai suoi biografi, (si narra ch’egli guadagnasse denaro col pretesto d’intendersi di arti segrete atte a procurare vantaggi agli uomini), a ciò si contrappone il suo indiscutibile ardore nell’appropriarsi onestamente tutto il sapere del suo tempo e nell’approfondirlo verso una conoscenza superiore del mondo. Si manifesta in lui chiaramente l’aspirazione a prendere posizione rispetto alla scienza naturale da un lato, e alla conoscenza superiore dall’altro. A una tale presa di posizione si eleva soltanto chi conosce esattamente le vie per le quali si giunge all’una e all’altra. Come é vero che la scienza naturale debba, alla fine, essere innalzata alla regione dello spirito, se ha da giungere alla conoscenza superiore, così é vero che, in un primo tempo, la scienza naturale stessa deve limitarsi al campo che le é proprio, se ha da fornire la base adatta per un grado di conoscenza più alto. Lo « spirito della natura » non esiste che per lo spirito: come é vero che, in questo senso, la natura é spirituale, così è vero che in natura nulla di quanto è percepito con organi fisici é spirituale in senso immediato. Non c’é nulla di spirituale che possa mostrarsi come tale al mio occhio, e non debbo cercare lo spirito, come tale, nella natura. Faccio questo, se interpreto in modo direttamente spirituale un processo del mondo esterno, se ad es. attribuisco alla pianta un’anima anche solo approssimativamente analoga all’anima umana; e se attribuisco allo spirito stesso un’esistenza spaziale o temporale, affermando ad es. che l’anima umana sopravviva nel tempo, senza il corpo, ma pur sempre alla maniera di un corpo. O se addirittura credo che lo spirito di un defunto possa manifestarsi attraverso un qualsiasi mezzo percepibile ai sensi. Lo spiritismo, che commette l’errore in questione, dimostra con ciò di non essersi spinto sino ad una vera rappresentazione dello spirito, ma di volerlo vedere direttamente in cose grossolanamente sensibili. Lo spiritismo disconosce così l’essenza del sensibile, come quella dello spirituale: esso spoglia di spirito il solito mondo sensibile che si svolge continuamente sotto i nostri occhi, per poi dare il nome di spirito a qualsiasi cosa rara, sorprendente, inconsueta gli si presenti. Esso non comprende come ciò che vive quale « spirito nella natura » si manifesti, ad esempio, per chi sia in grado di percepire lo spirito, già nell’urto di due palle elastiche, senza bisogno di aspettare fatti straordinari per la loro rarità, non controllabili senz’altro nelle loro connessioni naturali. Lo spiritista, inoltre, abbassa lo spirito: invece di spiegare processi che si svolgono nello spazio e ch’egli percepisce coi sensi, per mezzo di forze e di entità a loro volta spaziali e percepibili ai sensi, egli ricorre a « spiriti », equiparandoli così totalmente a ciò che é sensibilmente percepibile. A base di una concezione spirituale siffatta sta un’incapacità di comprensione: non si é in grado di contemplare lo spirito in modo spirituale, perciò si soddisfa con esseri puramente sensibili il proprio bisogno dell’esistenza dello spirito. A questa gente lo spirito non mostra nulla che sia veramente spirito: perciò lo cercano coi sensi. Come vedono volare per l’aria le nuvole, così vorrebbero veder volare anche gli spiriti.
Agrippa von Nettesheim lotta per una vera scienza naturale che spieghi i fenomeni della natura non per mezzo di esseri spirituali misteriosamente aleggianti nel mondo dei sensi, ma vedendo nella natura solo l’elemento naturale, e nello spirito solo quello spirituale. Naturalmente non si comprenderà Agrippa se si confronta la sua scienza naturale con quella dei secoli successivi, la quale dispone di tutt’altre esperienze. Da un tale confronto potrebbe facilmente apparire ch’egli ancora attribuisca a una diretta azione di spiriti ciò che dipende solo da rapporti naturali o da un’esperienza errata. Un torto simile gli fa Moriz Carriere, quando dice di lui, pur senza malanimo: « Agrippa dà un lungo elenco di cose che spettano al sole, alla luna, ai pianeti e alle stelle fisse, e che da quelli ricevono influssi: per esempio, sono affini al sole il fuoco, il sangue, l’alloro, l’oro, il crisolito; essi conferiscono i doni del sole: coraggio, letizia, luce... Gli animali possiedono un senso naturale che, più elevato dell’intelletto umano, si avvicina allo spirito della profezia... È possibile obbligare uomini per via d’incantesimo all’amore e all’odio, alla malattia e alla salute. Si può così impedire ai ladri di commettere un dato furto, ai mercanti di trafficare, alle navi di navigare o ai mulini di macinare, ai fulmini di colpire. Ciò avviene per mezzo di filtri, pomate, immagini, anelli, incantesimi; a quest’uso si presta il sangue di iene o di basilischi...- Viene in mente il calderone delle streghe di Shakespeare ». No, se si comprende bene Agrippa, non si trovano somiglianze con le streghe di Shakespeare. Naturalmente, Agrippa crede a fatti che ai suoi tempi non era possibile mettere in dubbio. Ma così facciamo tuttora anche noi. Siamo forse convinti che i secoli fu-turi non relegheranno nel ripostiglio della « cieca superstizione » molti anche di quelli che noi consideriamo come fatti indiscutibili? Io sono persuaso che nel nostro sapere positivo avvenga un progresso reale. Una volta scoperto il « fatto » della sfericità dela terra, tutte le precedenti supposizioni furono assegnate al dominio della « superstizione ». Lo stesso accade per certe verità astronomiche, biologiche, ecc. La dottrina della discendenza naturale rappresenta un progresso in confronto a tutte le precedenti « ipotesi sulla creazione », come la conoscenza della sfericità della terra in confronto a tutte le precedenti ipotesi sulla sua forma. Ciò nonostante mi rendo perfettamente conto che nei nostri scritti scientifici attuali si trovano molti « fatti » che a’ secoli futuri non appariranno tali, come non appaiono a noi talune affermazioni di Agrippa o di Paracelso. Ma quel che importa non é ciò ch’essi considerarono come « fatti », bensì lo spie rito secondo cui li interpretarono.
Ai tempi di Agrippa, la sua « magia naturale », che cercava nella natura solo l’ elemento naturale, e quello spirituale solo nello spirito, incontrava ben poca comprensione: gli uomini si attaccavano alla « magia soprannaturale » che cercava lo spirito nel regno del sensibile, e che Agrippa combatteva. Perciò l’abate Tritheim von Sponheim gli consigliò di confidare le sue opinioni, come dottrina segreta, a pochi eletti capaci d’innalzarsi ad una simile concezione della natura e dello spirito, poiché « anche al bue non diamo che fieno, e non zucchero come agli uccellini canori ». Forse Agrippa stesso deve a questo abate il punto di vista giusto: Trithemius, infatti, nella sua Steganografia ha scritto un’opera nella quale tratta con ironia ben dissimulata la concezione che scambia la natura con lo spirito. In questo libro egli parla, in apparenza, di una quantità di processi soprannaturali: chi lo legge così come si presenta, deve credere che l’autore tratti di scongiuri di spiriti, di spiriti che volano per l’aria ecc. Ma se si omettono dal testo certe parole e certe lettere, come dimostrò nel 1676 Wolfgang Ernst Heidel, rimangono lettere che, riunite in parole, ci descrivono processi del tutto naturali. (Per esempio, nel caso di una certa formula magica, bisogna omettere la prima e l’ultima parola, e delle rimanenti cancellare la seconda, quarta, sesta, ecc. Nelle parole che restano, bisogna di nuovo cancellare la prima, terza, quinta, ecc. lettera: se poi si riunisce in parole quanto rimane, la formula magica risulta trasformata in una comunicazione semplicemente naturale.
Quanto sia riuscito difficile ad Agrippa stesso districarsi dai preconcetti del suo tempo e sollevarsi ad una visione pura, appare dal fatto ch’egli non pubblicò prima del 1531 la sua Philosophia occulta, pur avendola compiuta sin dal 1510, perché non la considerava un’opera matura. Dello stesso fatto testimonia anche il suo scritto De vanitate scientiarum, nel quale egli parla con amarezza dell’andazzo scientifico e generale del suo tempo. Egli vi confessa chiaramente d’ essersi a fatica liberato dall’ errore di coloro che credevano di scorgere direttamente processi spirituali in fenomeni esteriori, o, in fatti esteriori, accenni profetici all’avvenire, ecc. Agrippa procede alla conoscenza superiore per tre gradini: nel primo studia il mondo quale si offre ai sensi, con le sue sostanze e le sue forze fisiche, chimiche ed altre; la natura, considerata a questo livello, é da Agrippa qualificata come C elementare ». Al secondo gradino egli considera il mondo come un tutto nei suoi rapporti naturali, in quanto le cose vi sono ordinate secondo misura, numero, peso, armonia, ecc. Il primo gradino mette una cosa in relazione con le altre immediatamente vicine ed affini, cercando nell’imediato ambiente d’un processo le condizioni che lo determinano. Il secondo gradino considera il singolo fatto nella sua connessione con l’intero universo: esso sviluppa l’idea che ogni cosa stia sotto l’influsso di tutte le altre cose dell’universo, il quale si rivela come una grande armonia di cui ogni singolo oggetto fa organicamente parte. Agrippa qualifica il mondo, considerato da questo punto di vista, come astrale o celeste. Il terzo gradino della conoscenza é quello in cui lo spirito, approfondendosi in sé stesso, contempla direttamente lo spirito, l’essenza primordiale del mondo. Qui Agrippa parla del mondo animico-spirituale.
Le vedute sviluppate da Agrippa intorno al mondo e ai rapporti dell’ uomo con esso, ci si mostrano in modo simile, ma più perfetto, in Teofrasto Paracelso: perciò si possono studiare meglio in quest’ultimo.
Paracelso ha definito sè stesso, scrivendo sotto il proprio ritratto il motto: « Chi può stare da solo, non si faccia servo d’un altro ». In queste parole é espresso tutto il suo atteggiamento nei riguardi della conoscenza: in ogni campo egli vuol risalire alle basi più profonde della scienza naturale allo scopo di raggiungere per forza propria le più alte regioni della conoscenza. Come medico, non vuole semplicemente accettare, come i suoi contemporanei, ciò che in passato avevano sostenuto gli antichi autori che al suo tempo facevano testo, ad esempio Galeno o Avicenna, ma vuol leggere personalmente e direttamente nel libro della natura. « Il medico deve passare l’esame della natura, che é il mondo con tutti i suoi principi. E ciò che la natura gli insegna egli deve comandare alla propria sapienza e nulla cercare nella propria sapienza, ma tutto alla luce della natura ». Per conoscere da ogni lato la natura e i suoi effetti, egli non arretra davanti a nulla; a questo scopo percorre la Svezia, l’Ungheria, la Spagna, il Portogallo e l’Oriente. Potrà dire di sé: « Per seguir l’arte, ho posto in pericolo la mia vita, e non mi sono vergognato di apprendere da vagabondi, carnefici e gente simile. La mia dottrina é stata saggiata più che l’argento, nella miseria e nel terrore, in guerre e avversità ». Ciò ch’é stato trasmesso dalle autorità del passato, non ha valore per lui, poichè egli ritiene di poter giungere ad una giusta visione solo sperimentando personalmente l’ascesa dalla conoscenza naturale alla conoscenza suprema. Questa esperienza personale gli fa proferire l’orgogliosa sentenza: « Chi vuol seguire la verità, deve entrare nella mia monarchia... Dietro a me I Non io dietro a voi, Avicenna, Rhasete, Galeno, Mesur ! Dietro a me; e non io dietro a voi di Parigi, a voi di Montpellier, di Svevia e di Meissen, di Colonia e di Vienna, a voi del Danubio e del Reno; voi isole del mare, tu Italia, tu Dalmazia, tu Atene, tu Greco, tu Arabo, tu Israelita ! Dietro a me e non io dietro a voi Mia é la monarchia ! ».
È facile fraintendere Paracelso per il suo modo rude di presentarsi, che talora però nasconde nello scherzo una profonda serietà. Egli stesso dice: « Di natura non sono costituito delicatamente, né allevato a fichi e a pan di frumento, ma a latte, formaggio e pane d’avena: ecco perché sono così rude verso i purissimi e i sopraffini; perché noialtri avvezzi alle pine del bosco non c’intendiamo con coloro che sono stati allevati in morbide vesti. Debbo quindi passar per villano, anche quando a me pare d’esser stato soavissimo I Ma come non dovrei sembrare strano a chi non ha mai camminato al sole? ».
Goethe (nel suo libro su Winkelmann) ha descritto con belle parole il rappor.to dell’uomo con la natura: « Quando la sana natura dell’uomo opera come un tutto, quando egli stesso si sente inserito in una grande, bella, nobile e preziosa totalità, quando un armonioso benessere gli offre una pura e libera gioia, allora l’universo, se fosse in grado di sentire sè stesso, giubilerebbe, come giunto alla propria mèta, e ammirerebbe il vertice del proprio divenire e del proprio essere ».
Paracelso é profondamente compenetrato dal sentimento che si esprime in tali parole, e questo sentimento gli delinea l’enimma dell’uomo. Osserviamo come ciò avvenga. A tutta prima la via seguita dalla natura per generare il proprio culmine è nascosta all’intelligenza umana. La natura ha raggiunto questo suo vertice, ma quel vertice non dice: io mi sento l’intera natura, bensì dice: io mi sento questo singolo essere umano. Ciò che in realtà é il risultato dell’azione del mondo intero, si sente come essere singolo, solitario, a sé stante. Anzi, la vera essenza dell’uomo sta appunto in ciò: ch’egli debba sentirsi qualcos’altro da ciò che, in ultima analisi, é. E se questa é una contraddizione, l’uomo può dirsi una contraddizione vivente. L’uomo é il mondo a modo suo: egli considera il proprio accordo col mondo come una dualità; egli é ciò che é anche l’universo, ma lo é come una ripetizione, come un essere singolo. Questo é il contrasto che Paracelso sente tra il microcosmo (uomo) e il macrocosmo (universo). Per lui l’uomo é il mondo in piccolo. Ciò che lo induce a considerare a questo modo il proprio rapporto col mondo é il suo spirito. Questo spirito si manifesta legato a un essere singolo, a un singolo organismo; ma quest’organismo appartiene, secondo tutto il suo essere, alla grande corrente del divenire universale di cui fa parte organicamente e fuori del quale non potrebbe esistere. Ma lo spirito appare quale risultato di questo singolo organismo, e, a tutta prima, si vede legato soltanto ad esso. Egli strappa quest’organismo dal terreno sul quale é cresciuto. Vediamo così che nel fondamento naturale dell’essere si nasconde per Paracelso una profonda connessione tra l’uomo e l’universo intero, una connessione che é celata dall’esistenza dello spirito. Lo spirito, che ci conduce alla conoscenza superiore, trasmettendoci il sapere, e facendo rinascere questo sapere ad un livello più alto, ha come prima conseguenza per noi uomini l’occultamento della nostra propria connessione col tutto. Così per Paracelso la natura umana si scompone a tutta prima in tre parti: la nostra natura corporeo-sensibile, cioé il nostro organismo, che ci appare quale essere naturale fra esseri naturali ed é congenere con tutti gli altri esseri naturali; la nostra natura occulta, ch’é un anello nella catena dell’universo, e che quindi non é limitata al nostro organismo, ma emana e riceve influssi di forze dall’universo intero; e la nostra natura più alta, il nostro spirito, che si esplica soltanto in modo spirituale. Paracelso denomina il primo membro della natura umana: corpo elementare; il secondo: corpo astrale o eterico-celeste; il terzo: anima. Nei fenomeni « astrali » egli vede dunque un grado intermedio tra i fenomeni puramente corporei e i veri e propri fenomeni dell’anima. Perciò quei fenomeni astrali si manifestano quando lo spirito, che cela il fondamento naturale del nostro essere, sospende la propria attività. Il fenomeno più semplice di questa sfera ci si presenta nel mondo dei sogni. Le immagini che nel sogno ci aleggiano intorno, con le loro singolari e significative connessioni con fatti del nostro ambiente e condizioni della nostra interiorità, sono prodotti del nostro fondamento naturale, prodotti che vengono offuscati dalla più intensa luce dell’ anima. Quando una sedia si rovescia accanto al mio letto, ed io sogno tutto un dramma che finisce con un colpo sparato durante un duello, o quando soffro di palpitazioni di cuore e sogno una stufa ardente, si tratta di effetti naturali, sensati e significativi, i quali rivelano una vita che si svolge tra le funzioni puramente organiche e l’attività pienamente cosciente dello spirito. A questa sfera si ricollegano tutti i fenomeni del tipo dell’ipnotismo e della suggestione. Non dobbiamo forse vedere nella suggestione un’azione da uomo a uomo, fondata sopra una connessione fra esseri naturali che abitualmente é celata dalle attività spirituali superiori? Da qui ci si apre la possibilità di comprendere ciò che Paracelso intende per corpo « astrale » : é la somma delle azioni naturali sotto la cui influenza ci troviamo, o possiamo, in certe condizioni, venire a trovarci; azioni che partono da noi, senza che la nostra anima ví prenda parte, e che pure non cadono sotto il concetto di fenomeni puramente fisici. Il fatto che Paracelso enumeri a questo proposito fatti che oggi noi mettiamo in dubbio, non ha importanza dal punto di vista che ho già citato più sopra. (Cfr. pag. I i i). Sulla base di tali vedute sulla natura umana, Paracelso distingue in quest’ultima sette elementi; gli stessi che ritroviamo nella sapienza dell’antico Egitto, presso i Neoplatonici e nella Cabala. L’uomo é anzi tutto un essere fisico-corporeo, sottoposto alle medesime leggi a cui ogni corpo é soggetto; é, dunque sotto questo riguardo, un corpo puramente elementare. Le leggi fisico-corporee si coordinano per dar luogo al processo vitale organico. La legge organica é da Paracelso denominata Archaeus o Spiritus vitx. L’ organico si eleva a manifestazioni affini alle spirituali, che però non sono ancora spirito : sono i fenomeni astrali, dai quali emergono le funzioni dello spirito animale. L’uomo é un essere dotato di sensi. Egli connette significativamente le impressioni dei sensi per mezzo dell’intelletto: così si attiva in lui l’anima razionale. Poi egli s’immerge nelle produzioni del proprio spirito e impara a conoscere lo spirito come tale; s’innalza così fino al gradino dell’anima spirituale.
Infine riconosce che in quest’anima spirituale egli sperimenta il fondamento più profondo dell’esistenz universale: l’anima spirituale cessa d’essere un’anima singola individuale. Sorge quella conoscenza a cui accenna Eckhart, quando non sente più parlare sè in sé stesso, ma l’Essere primordiale. Si verifica quella condizione in cui lo spirito universale contempla sé stesso nell’uomo. Paracelso esprime il sentimento di questa condizione con le semplici parole: « E questa é cosa grande che dovete meditare: non vi è nulla nel cielo e sulla terra, che non sia nell’uomo. E Dio ch’é nel cielo, é nell’uomo ».
Con questi sette elementi costitutivi della natura umana, Paracelso altro non vuol esprimere che fatti dell’ esperienza esteriore ed interiore. Ciò non infirma il fatto che nella realtà superiore é un’unità ciò che all’esperienza umana si dispiega in una molteplicità di sette elementi. Ma appunto qui sta il valore della conoscenza superiore: nel palesare l’unità in tutto ciò che, per effetto della sua organizzazione fisica e spirituale, appare all’uomo, nell’esperienza immediata, come molteplicità. Al gradino della conoscenza suprema, Paracelso aspira assolutamente a fondere in modo vivo col proprio spirito l’Essere primordiale unitario del mondo. Sa però che l’uomo può conoscere la natura nella sua spiritualità solo se entra con la natura in un rapporto diretto. La natura non si comprende col popolarla di entità spirituali arbitrariamente immaginate, bensì accettandola e valutandola così com’é, quale natura. Perciò Paracelso non va cercando Dio o lo spirito nella natura: la natura stessa, quale si presenta ai suoi occhi, é per lui divina in senso immediato. Occorre forse attribuire alla pianta un’anima del tipo di quella umana, per trovarne la spiritualità? Paracelso spiega quindi l’evoluzione delle cose, fin dove é possibile, coi mezzi scientifici del suo tempo, considerando tale evoluzione assolutamente come un processo naturale, sensibile. Egli fa derivare tutte le cose dalla materia primordiale, dall’acqua primordiale (yliaster), e considera come un ulteriore processo naturale la scissione della materia primordiale (che chiama anche « il gran limbo ») nei quattro elementi: acqua, terra, fuoco, aria. Quando dice che la « Parola divina » trasse fuori dalla materia primitiva la molteplicità degli esseri, dobbiamo intendere anche questo come, all’incirca, é da intendersi il rapporto tra forza e materia nella scienza più recente. A questo livello « uno spirito » nel vero senso della parola non esiste ancora. Questo « spirito » non é il fondamento reale del processo naturale, ma il reale risultato di tale processo; esso non crea la natura, ma da essa si sviluppa. Alcuni passi di Paracelso potrebbero venir interpretati in senso opposto; così quando dice : « Non c’é nulla di corporeo che non porti nascosto in sè anche uno spirito e che non viva. E non solo ciò che si muove ha vita, come gli uomini, gli animali, i vermi della terra, gli uccelli nel cielo e i pesci nell’acqua, ma anche tutte le cose corporee ed esistenti ». Ma con tali espressioni Paracelso vuole semplicemente mettere in guardia contro quel modo superficiale di considerare la natura che crede di esaurire l’essenza delle cose con un paio di concetti « piantati lì », per usare un felice termine goethiano. Egli non vuol porre nelle cose un essere escogitato, ma mettere in azione tutte le forze dell’uomo per attingere dalle cose ciò che in esse già effettivamente risiede. Si tratta di non lasciarsi trarre in inganno dal fatto che Paracelso si esprime alla maniera del suo tempo, ma di cercare piuttosto di riconoscere quali fatti siano presenti al suo spirito, quando, osservando la natura, egli espone le proprie idee nelle forme d’espressione del suo tempo. Così, ad esempio, egli attribuisce all’uomo una duplice carne, cioé una duplice costituzione corporea. « La carne va dunque considerata così, che ne esistono due specie, e cioé quella che deriva da Adamo e quella che non deriva da Adamo. La carne che deriva da Adamo é una carne rozza, poichè é terrestre e non altro che carne, che si può afferrare e legare come il legno o la pietra. L’altra carne non é di Adamo: è una carne tenuissima che non si può legare nè afferrare, poiché non é fatta di terra ». Cos’è la carne che deriva da Adamo? È tutto ciò che l’uomo ha ricevuto per mezzo del suo sviluppo naturale, cioé per eredità. A questo si aggiunge ciò che l’uomo é andato acquistando nel corso dei tempi, a contatto col mondo circostante. I concetti scientifici moderni di caratteri ereditari e di caratteri acquisiti per adattamento emergono dal sopra citato pensiero di Paracelso. La « carne più tenue », che rende l’uomo atto alle sue operazioni spirituali, non fu in lui sin dall’inizio: l’uomo era « carne rozza », come l’animale, una carne che « si può afferrare e legare come il legno o la pietra ». In senso scientifico, quindi, anche l’anima é una qualità acquisita della « carne rozza ». Quando Paracelso parla della « carne che deriva da Adamo », ha in mente ciò che hanno in mente gli scienziati del secolo XIX quando parlano dei caratteri ereditati dal mondo animale.
Naturalmente con tali considerazioni non intendo affatto cancellare la differenza che passa tra uno scienziato del Cinquecento e uno dell’Ottocento. Solo in quest’ultimo secolo si è riusciti in senso pienamente scientifico a vedere i fenomeni relativi agli esseri viventi in una connessione tale da farne risaltare la naturale parentela e l’effettiva derivazione su su fino all’uomo. La scienza scorge solo un processo naturale là dove ancora Linneo, nel secolo XVIII, vedeva un processo spirituale che egli caratterizzava con le parole : « Esistono tante specie viventi quante diverse forme furono create in principio ». Mentre dunque ancora Linneo proiettava lo spirito nel mondo spaziale attribuendogli il còmpito di produrre, di « creare » spiritualmente le forme viventi, la scienza del secolo XIX poté dare alla natura ciò che è della natura, e allo spirito ciò che è dello spirito. Alla natura stessa viene assegnato il còmpito di spiegare le proprie creazioni; e lo spirito può immergersi in sé stesso, là dove unicamente può trovarsi, cioè nell’interiorità dell’uomo.
Ma anche se Paracelso pensa, in un certo senso, nel modo ch’è conforme al suo tempo, egli tuttavia concepì profondamente il rapporto dell’uomo con la natura, proprio in quanto si riferisce all’idea dell’evoluzione, del divenire. Nell’ Essere primordiale del mondo egli non vide qualcosa di comunque conchiuso e compiuto, ma afferrò il divino nel divenire. Con ciò poté attribuire davvero all’uomo un’attività creatrice autonoma. Infatti, se l’Essere divino primordiale esistesse una volta per sempre, non sarébbe possibile parlare di una vera attività creativa dell’uomo. In tal caso non sarebbe l’uomo, vivente nel tempo, quello che crea, bensì Dio, che è ab xterno. Ma per Paracelso non esiste un Dio ab xterno; esiste solo un eterno divenire, e l’uomo é un anello di questo eterno divenire. Ciò ch’egli forma, non esisteva prima in alcun modo; ciò ch’egli crea, è, alla sua maniera, una creazione originale: e, se si vuol chiamarla divina, si può dirla tale solo in quanto é creazione umana. Perciò Paracelso può attribuire all’uomo una parte nella costruzione del mondo, per cui egli diviene collaboratore di tale creazione. Senza l’uomo, l’Essere divino primordiale non sarebbe ciò che é con l’uomo. « Poiché la natura non produce nulla che sia perfetto in sè, ma tocca all’uomo renderlo perfetto ». Quest’autonoma collaborazione creativa dell’uomo alla costruzione della natura è chiamata da Paracelso alchimia. «Questo compimento è alchimia. È dunque alchimista il fornaio in quante cuoce il pane, il vignaiolo in quanto fa il vino, il tessitore in quanto fa il panno ». E Paracelso vuol essere alchimista nel proprio campo, come medico. « Ecco perchè mi conviene scrivere tanto dell’alchimia, affinché voi la conosciate bene ed apprendiate che cosa sia e come vada intesa, e non vi scandalizziate se non ne trarrete né oro, né argento, ma badiate piuttosto che vi siano rivelati gli arcani (farmachi)... L’ alchimia é la terza colonna della medicina, poiché senza di essa non può farsi la preparazione dei farmachi, chè la natura non può venir usata senza l’arte ».
Lo sguardo di Paracelso é dunque rivolto rigorosamente alla natura, per farsi rivelare da lei stessa quanto ha da dire intorno ai suoi prodotti. Egli vuole indagare le leggi della chimica, per poter agire da alchimista nel senso in cui egli intendeva quest’azione. Egli pensa tutti i corpi composti di tre sostanze fondamentali: sale, zolfo e mercurio. Naturalmente, ciò ch’egli denomina così non s’identifica con quanto la chimica moderna si limita a indicare con tali nomi; nè ciò che Paracelso considera come sostanza elementare é tale nel. senso della chimica odierna. Cose differenti vengono chiamate in tempi differenti con lo stesso nome. Ciò che gli antichi chiamavano i quattro elementi: terra, acqua, aria, fuoco, esiste tutt’ora, ma noi non li chiamiamo più « elementi », bensì stati di aggregazione, designandoli coi termini: solido, liquido, gassoso, etereo. Così, ad esempio, per gli antichi, « terra » non significava solo la terra, ma tutto ciò che è solido. Anche le tre sostanze fondamentali di Paracelso possono esser riconosciute in concetti moderni, ma non in ciò che attualmente porta lo stesso nome. Per Paracelso, i due principali processi chimici ch’egli applica sono la soluzione di una sostanza in un liquido e la combustione. Se un corpo viene dissolto o bruciato, esso si scompone nei suoi costituenti: il residuo è salino, il solubile (liquido) è mercuriale; la parte combustibile è da lui chiamata sulfurea.
A chi non vede oltre questi processi naturali, essi potranno apparire cose materiali e lasciarlo perfettamente indifferente; chi vuole a tutti i costi afferrare lo spirito coi sensi, popolerà detti processi naturali con ogni sorta di entità animate. Ma chi, come Paracelso, sa contemplarli nella loro connessione con quell’Universo che svela il proprio mistero nell’ intimo dell’ uomo, li prende quali si presentano ai sensi, senza attribuir loro un significato diverso. Poiché i processi naturali, quali ci stanno dinanzi nella loro realtà sensibile, rivelano l’ enimma dell’ esistenza nel modo ch’ é loro proprio. Ciò ch’essi hanno da svelare, attraverso questa loro realtà sensibile che riecheggia dall’anima umana, ha, per chi aspira alla conoscenza superiore, un valore assai più alto che non tutti i miracoli soprannaturali che l’uomo può immaginarsi o farsi rivelare sul conto di un presunto « spirito » insito nei processi naturali. Non esiste uno « spirito della natura » che sia in grado di enunciare verità più sublimi di quelle che le grandi opere della natura stessa palesano alla nostra anima quand’essa si unisce in amicizia con la natura e in un intimo confidenziale rapporto ascolta la rivelazione dei suoi misteri.
Una tale amicizia con la natura cercava appunto Paracelso.