Una stella risplendente di fulgida luce nei cielo della vita spirituale del Medioevo é Nicolò Chrypffs da Kues, presso Treviri (1401-1464). Egli raggiunse il vertice del sapere del suo tempo, acquistò meriti notevolissimi nel campo delle matematiche e meritò di venir considerato precursore di Copernico, per la sua convinzione che la Terra fosse un corpo celeste in moto come tutti gli altri. Il Cusano aveva infatti già superata la concezione sulla quale, cent’anni più tardi, poggiava ancora il grande astronomo Tycho Brahe, quando scagliava con veemenza contro la dottrina copernicana le parole: « La Terra é una massa rozza, pesante e inabile al movimento : come può dunque Copernico farne una stella e condurla in giro per l’aria? ». E il Cusano, lo stesso uomo che, in tal modo, non solo assommava in sé il sapere del suo tempo, ma lo andava anche ampliando sempre più, possedeva in alto grado la capacità di ridestare quei sapere a vita interiore, in modo che non solo comunicasse cognizioni sul mondo esterno, ma trasmettesse al-l’ uomo anche quella vita spirituale verso la quale egli deve anelare dal profondo della sua anima. Se confrontiamo Nicolò da Kues con uomini del tipo di Eckhart o di Tauler, giungiamo a un risultato importante. Nicolò é il pensatore scienziato che, dall’indagine sulle cose del mondo, vuol sollevarsi al livello di una visione più alta; Eckhart e Tauler sono religiosi credenti che cercano la vita superiore partendo dalla fede. Alla fine, Nicolò perviene alla medesima vita interiore di Maestro Eckhart: ma la vita interiore di Nicolò Cusano contiene un vastissimo sapere. Tutto il significato di tale differenza ci appare chiaro se consideriamo come l’uomo versato nelle diverse scienze corra il pericolo di misconoscere l’esatta portata del modo di conoscenza che illumina sulle singole branche scientifiche. È facile che un tale studioso venga indotto a ritenere che esista una sola specie di conoscenza, cioé quella che conduce alla mèta nelle scienze singole, e finisca con l’attribuirle o troppo o troppo poco valore. Nel primo caso, si accosterà anche agli oggetti della vita spirituale più alta come a un problema di fisica e li elaborerà coi medesimi concetti con cui suole studiare la forza di gravità o l’elettricità. Il mondo sarà per lui, a seconda ch’egli si crede più o meno illuminato, o un meccanismo cieco, o un organismo, oppure l’edificio finalisticamente predisposto da un Dio personale; forse anche una formazione governata e compenetrata da un’« anima del mondo » più o meno chiaramente concepita. Nell’altro caso, lo studioso si accorge che quell’unico tipo di conoscenza di cui ha esperienza vale soltanto per il mondo dei sensi, e, ritenendo che nulla si possa conoscere all’infuori di questo mondo dei sensi, diventa scettico. Afferma allora che il nostro sapere ha un limite, e che per i bisogni d’una vita spirituale più alta non resta che buttarci nelle braccia dì una fede che col sapere non abbia nulla a che fare. Da questo secondo pericolo era particolarmente minacciato un dotto teologo come il Cusano, ch’ era al tempo stesso uno scienziato. Egli infatti proveniva dalla Scolastica che dominava la vita scientifica nel senso della Chiesa medievale e ch’era stata portata all’apogeo del suo sviluppo da Tommaso d’Aquino (1227-1274), il « principe degli scolastici ». Volendo disegnare la personalità di Nicolò da Kues, bisogna tenere come sfondo appunto il mondo di idee della Scolastica.
La Scolastica é in sommo grado un frutto dell’acutezza dell’ingegno umano: in essa la logica celebrò i suoi maggiori trionfi. Chi aspira a elaborare concetti dai contorni nitidi e precisi al massimo, dovrebbe andare a scuola dagli scolastici; essi ci offrono una scuola superiore di tecnica del pensiero, ed hanno un’ impareggiabile abilità nel muoversi entro la sfera del pensiero puro. Ciò ch’essi furono in grado di raggiungere in questo campo si sottovaluta facilmente poiché per la maggior parte delle branche del sapere é difficilmente accessibile agli uomini. I più vi arrivano chiaramente solo nel campo dell’ aritmetica e nell’ elaborazione per mezzo del pensiero dei rapporti tra le figure geometriche. Noi possiamo contare, aggiungendo mentalmente un’ unità a un certo numero, senza valerci di rappresentazioni fondate sui sensi; così pure senza tali rappresentazioni eseguiamo operazioni aritmetiche nel puro elemento del pensiero. Per le figure geometriche, sappiamo ch’esse non s’identificano perfettamente con nessuna rappresentazione sensibile: nella realtà dei sensi non esiste un circolo (ideale), eppure il nostro pensiero si occupa del circolo puramente ideale. Per gli oggetti e i processi che sono più complicati delle figure numeriche o spaziali é più difficile trovare la controparte ideale. E ciò ha condotto persino all’affermazione, fatta da varie parti, che nei singoli rami della conoscenza esista scienza vera solo per quel tanto che in essi é misurabile e numerabile. La verità é che i più degli uomini non sono in grado di afferrare il pensiero puro, anche là dove non si tratta più di entità misurabili o numerabili. Ma chi non abbia conseguita questa capacità per le sfere superiori della vita e della conoscenza somiglia in ciò al bambino che non ha ancora imparato a contare se non aggiungendo un pisello all’altro. Il pensatore che disse esservi tanto di vera scienza in un dato ramo del sapere quanto vi si trova di matematica, non era ben orientato su tale problema. Bisogna piuttosto esigere che tutto il resto, che non si lascia misurare o numerare, venga elaborato idealmente proprio come le formule numeriche e le forme geometriche. E di questa esigenza gli scolastici tenevano pienamente conto cercando sempre il contenuto ideale delle cose, come il matematico lo cerca nel campo del misurabile e numerabile.
Nonostante quest’arte logica perfetta, gli scolastici pervennero solo ad un concetto unilaterale e subordinato della conoscenza: al concetto cioé che, nella conoscenza, l’uomo crei in sè un’immagine di quanto deve conoscere. È senz’ altro chiaro che, con un tale concetto della conoscenza, tutta la realtà si debba trasferire fuori della conoscenza stessa. Poiché, in questo caso, nella conoscenza non possiamo mai afferrare una cosa, ma solamente un’ immagine della cosa. L’ uomo non può conoscere nemmeno sé stesso, ed anche ciò che ne conosce non é che un’immagine di sé stesso. Dice, nel senso della Scolastica, un suo profondo conoscitore (K. Werner nel libro: Francesco Suarez e la Scolastica degli ultimi secoli): « Nel tempo, uomo non possiede una visione del proprio Io, del recondito fondo della propria essenza e vita spirituale... Egli non perverrà mai a contemplarsi, poiché, o estraniandosi per sempre da Dio troverà in sé stesso soltanto un abisso oscuro senza fondo, un vuoto infinito, oppure, reso beato in Dio, rivolgendo lo sguardo verso il proprio intimo, troverà appunto solamente Dio, il cui sole di grazia risplende in lui, la cui immagine si riproduce nei tratti spirituali del suo essere ». Chi pensa a questo modo su tutto ciò ch’é conoscenza, possiede solo il concetto di quel tipo di conoscenza ch’é applicabile a cose esteriori. La parte sensibile di un oggetto rimane per noi sempre esteriore: quindi, di ciò che nel mondo é sensibile non possiamo accogliere entro la nostra conoscenza altro che immagini. Quando percepiamo un colore o una pietra, non possiamo, allo scopo di conoscerne l’essenza, diventare noi stessi colore o pietra. Né possono la pietra o il colore trasformarsi in una parte del nostro proprio essere Resta però da chiedersi, se il concetto di una tale conoscenza rivolta all’ esterno sia un concetto esauriente. Per la Scolastica ogni conoscenza umana si identifica appunto, essenzialmente, con una conoscenza di tal genere. Un altro eccellente conoscitore della Scolastica (Otto Willmann nella sua Storia dell’Idealismo, vol. I, Pag. 395) così definisce il concetto di conoscenza di questa corrente di pensiero: « Il nostro spirito, associato al corpo durante la vita terrena, é anzi tutto orientato verso il circostante mondo dei corpi, ma teso verso quanto c’é in esso di spirituale: alle essenze, alle nature, alle forme delle cose, i quali elementi dell’esistenza gli sono affini e gli offrono i gradini per salire nel soprasensibile. Il campo della nostra conoscenza è dunque la sfera dell’ esperienza, ma noi dobbiamo imparare a comprendere ciò ch’essa offre, penetrando fino al senso e al pensiero di essa, per aprirci con ciò il mondo dei pensieri ». A un concetto diverso della conoscenza gli scolastici non seppero giungere, impediti com’erano dal contenuto dottrinale dogmatico della loro teologia. Se avessero rivolto lo sguardo del loro occhio spirituale su ciò ch’ essi consideravano come mera immagine, avrebbero veduto che in questa supposta immagine si rivela il contenuto spirituale delle cose stesse; e avrebbero riconosciuto che nella loro interiorità Dio non solo é riprodotto in immagine, ma vive in essa, ma vi é sostanzialmente presente. Guardando nella propria interiorità, essi non avrebbero scorto un abisso oscuro, un vuoto senza fine, ma neppure una mera immagine di Dio; avrebbero invece sentito come in noi pulsi una vita che è la vita divina stessa e come la nostra propria vita sia appunto la vita di Dio. Questo, il pensatore della Scolastica non poteva ammetterlo: Dio non poteva, secondo la sua opinione, entrare in lui e parlare per suo mezzo: non poteva trovarsi in lui altro che come immagine. In realtà, la divinità doveva trovarsi fuori dell’Io; non poteva quindi neppure manifestarsi nell’interno, attraverso la vita spirituale; doveva rivelarsi dall’esterno, attraverso una comunicazione soprannaturale. Ma con ciò appunto non si consegue quello a cui una tale concezione aspira. Si vorrebbe raggiungere il concetto più alto possibile della divinità, ma in realtà la divinità viene così abbassata a cosa fra le cose; solo che le altre cose ci si rivelano in modo naturale, per l’esperienza, mentre la divinità ci si rivelerebbe per via soprannaturale. Ma tra la conoscenza del divino e quella del creato si fa una differenza, in quanto del creato ci é data nell’esperienza l’oggetto, e possiamo averne conoscenza; mentre del divino non troviamo l’oggetto nell’esperienza, e non possiamo conseguirlo che per la fede. Le cose supreme non sono dunque per lo scolastico oggetto di conoscenza, ma solo di fede. Tuttavia, secondo la concezione scolastica, non bisogna rappresentarsi il rapporto fra scienza e fede come se in una certa sfera dominasse solo la scienza e in un’altra solo la fede. Infatti « la conoscenza di ciò che esiste ci risulta possibile perché esso stesso deriva da una conoscenza crearice; le cose esistono per lo spirito perchè provengono dallo spirito; esse hanno qualcosa da dirci perché hanno un senso che un’intelligenza superiore ha riposto in esse ». (Willmann, op. cit., vol. II, pag. 383). Pel fatto che Dio ha creato il mondo a norma di pensieri, noi possiamo, afferrando i pensieri del mondo, scoprire per mezzo della riflessione scientifica anche le tracce del divino nel mondo. Ma ciò che Dio é nella sua essenza, ci é concesso di apprenderlo soltanto per la rivelazione ch’egli ci ha data per via soprannaturale e a cui dobbiamo credere. Non é un sapere umano, ma la fede a decidere su ciò che dobbiamo ritenere per vero intorno alle cose supreme; e « fa parte della fede tutto quanto si trova nelle Scritture dell’antico e del nuovo Testamento e nelle tradizioni divine ». Joseph Kleutgen, La teologia dell’ antichità, vol. I, pag. 39).
Non é qui nostro còmpito esporre particolarmente e dimostrare il rapporto fra il contenuto della fede e il contenuto della scienza. In verità, ogni contenuto di fede origina da una qualche esperienza umana interiore fatta una volta. In séguito ne viene conservato il contenuto esteriore senza però la consapevolezza del modo con cui é stato conseguito; e si afferma poi ch’esso sia venuto nel mondo per rivelazione soprannaturale. Il contenuto della fede cristiana fu semplicemente accettato dagli scolastici e né la scienza, né l’esperienza interiore poterono arrogarsi alcun diritto su di esso. Come la scienza non può creare un albero, così alla Scolastica non era lecito creare un concetto di Dio: essa doveva accettare bell’e fatto quello rivelato, come la scienza deve accettare bell’e fatto, così com’é, l’albero. Lo scolastico non poteva assolutamente ammettere che la luce spirituale stessa si accenda e viva nell’anima. Perciò delimitava la zona di legittima esplicazione della scienza al punto dove finisce il campo dell’ esperienza esteriore. La conoscenza umana non aveva il diritto di produrre da sé concetti delle entità superiori; doveva accettare quelli rivelati. Che con ciò la conoscenza non facesse che accogliere un concetto prodotto a un gradino precedente della vita spirituale umana e dichiararlo rivelato, gli scolastici non potevano ammetterlo.
Erano perciò scomparse dalla Scolastica, nel corso del suo sviluppo, tutte le idee che accennassero ancora al modo in cui l’uomo aveva prodotto, per via naturale, i concetti del divino. Nei primi secoli del Cristianesimo, al tempo dei Padri della Chiesa, vediamo via via formarsi il contenuto dottrinale della teologia grazie all’accoglimento di esperienze interiori. In Giovanni Scoto Erigena, che nel nono secolo si trovava al vertice della cultura teologica cristiana, troviamo ancora trattato questo contenuto dottrinale come un’esperienza interiore. Ma tale carattere di esperienza interiore va del tutto perduto negli scolastici dei secoli seguenti: l’antico contenuto d’insegnamento s’interpreta ormai come una rivelazione esteriore e soprannaturale. Possiamo quindi considerare l’attività dei teologi mistici Eckhart, Tauler, Suso e compagni, anche dicendo che dalle dottrine della Chiesa, contenute nella Teologia, ma in una mutata interpretazione, essi furono stimolati a generare nuovamente da sé stessi, ora sotto forma di esperienza interiore, un contenuto simile.
Nicolò da Kues si avvia ad ascendere egli stesso da quel sapere che si acquista nelle singole scienze alle esperienze interiori. Non c’é dubbio che l’eccellente tecnica logica sviluppata dagli scolastici, alla quale Nicolò era stato educato, offrisse un mezzo efficacissimo per giungere a esperienze interiori, anche se gli scolastici stessi, dalla loro fede positiva furono distolti da questa via. Ma si comprenderà perfettamente il Cusano solo se si consideri che il suo ministero sacerdotale, il quale lo condusse fino alla dignità cardinalizia, gli impedì di giungere ad una rottura completa con la fede della Chiesa, la quale si esprimeva, in maniera consona al tempo, nella teologia scolastica. Noi lo troviamo spinto tanto oltre sul suo cammino, che un passo ulteriore lo avrebbe dovuto condurre anche fuori della Chiesa. Perciò riusciremo a comprendere nel modo migliore il Cardinale, compiendo noi quel passo ch’egli stesso non fece più, e illuminando poi, rivolgendoci indietro, l’intento ch’egli s’era proposto.
Il concetto più notevole nella vita spirituale di Nicolò Cusano é quello della « dotta ignoranza »: con questo egli intende un tipo di conoscenza che di fronte al sapere comune rappresenta un livello più elevato. Nel senso meno elevato, sapere significa l’apprendimento di un oggetto da parte dello spirito. La caratteristica più importante del sapere é il fatto ch’esso illumina qualcosa di estraneo allo spirito, che si rivolge cioé a qualcosa ch’esso stesso non é. Nel sapere, lo spirito si occupa dunque di cose pensate esistenti fuori di esso. Ora, ciò che lo spirito sviluppa in sè intorno alle cose é l’essenza delle cose. Le cose sono spirito. L’ uomo da prima vede lo spirito soltanto attraverso l’involucro sensibile. Ciò che resta fuori dello spirito é solo questo involucro sensibile, mentre l’essenza delle cose penetra nello spirito. Se poi lo spirito contempla questa essenza, ch’é sostanza della sua sostanza, non può più parlare di sapere, poiché non guarda più un oggetto situato fuori, anzi, guarda qualcosa ch’é parte di esso, guarda sé stesso. Non « sa » più, non fa che guardare sé stesso; non ha più a che fare con un « sapere », ma con un « non-sapere ». Non comprende più qualcosa per mezzo dello spirito, ma « contempla, senza comprendere », la propria vita. In confronto ai gradi inferiori della conoscenza, questo grado più alto é « non-sapere ».
È chiaro però che solo questo grado di conoscenza potrà giungere all’essenza delle cose.. Nicolò Cusano con la sua « dotta ignoranza » ci parla dunque semplicemente del sapere rinato come esperienza interiore. Egli stesso ci narra come sia giunto a tale esperienza interiore. « Avevo fatto molti tentativi di unificare in un’idea fondamentale i pensieri su Dio e il mondo, su Cristo e la Chiesa, ma nessuno mi soddisfaceva; finché un giorno, ritornando per mare dalla Grecia, il mio spirito, come per illuminazione, s’innalzò alla visione in cui Dio mi si rivelò come suprema unità di tutti i contrasti ». Più o meno parteciparono a questa illuminazione gli influssi derivati dallo studio dei suoi predecessori. Nelle sue rappresentazioni si può riconoscere un singolare rinnovamento delle concezioni che troviamo nelle opere di un certo Dionisio. Il summenzionato Scoto Erigena le aveva già tradotte in latino, e chiama l’autore « il grande e divino rivelatore ». Gli scritti in questione si trovano citati a partire dalla prima metà del sesto secolo, e vennero attribuiti all’areopagita Dionisio, nominato negli Atti degli Apostoli, e convertito al Cristianesimo da S. Paolo. Lasceremo qui aperta la questione sull’epoca in cui tali opere furono realmente scritte. Il loro contenuto influì comunque fortemente sopra il Cusano, come aveva influito su Giovanni Scoto Erigena, e come doveva avere agito anche stimolando in molti modi il pensiero di Eckhart e dei suoi compagni. In certo modo, la « dotta ignoranza » si riscontra preparata in questi scritti, di cui vogliamo qui accennare soltanto la concezione fondamentale. L’uomo comincia da prima a conoscere le cose del mondo sensibile: si forma dei pensieri intorno al loro essere e operare. La radice fondamentale di tutte le cose deve trovarsi sopra un piano più alto delle cose stesse: perciò l’uomo non può voler comprendere questo fondamento con gli stessi concetti e le stesse idee con cui comprende le cose. Quando dunque della radice fondamentale (cioé di Dio) l’uomo predica attributi ch’egli ha imparato a conoscere come spettanti alle cose inferiori, tali attributi non possono rappresentare se non mezzi ausiliari del debole spirito umano, che abbassa fino a sè stesso il fondamento delle cose allo scopo di poterlo pensare. Quindi, in verità, nessuna proprietà di cose inferiori si potrà attribuire a Dio. Nemmeno si potrà affermare che Dio é, poiché anche l’« essere » é una rappresentazione che l’uomo si é formata a contatto con le cose inferiori. Ma Dio é eccelso al di sopra dell’« essere » e del « non-essere ». Il Dio del quale noi predichiamo gli attributi non é dunque il vero Dio : a questo possiamo giungere, se concepiamo, sopra il Dio dotato dei suddetti attributi, un « super-Dio ». Ma di un tale « super-Dio » non possiamo saper nulla nel senso ordinario; per giungere ad esso, occorre che il « sapere » sbocchi nel « non-sapere ».
Come si vede, alla base di una tale concezione sta la consapevolezza che l’uomo stesso, partendo da ciò che gli hanno offerto le singole scienze, é in grado di sviluppare, per vie del tutto naturali, una conoscenza superiore che non é più semplice sapere. La concezione scolastica dichiarava il sapere incapace di un tale sviluppo, e là dove il sapere doveva cessare faceva accorrere in suo aiuto la fede fondata sopra la rivelazione esteriore. Nicolò Cusano era dunque sulla via di far nuovamente sorgere dal sapere ciò che dalla Scolastica era stato dichiarato inaccessibile al sapere stesso.
Dal punto di vista di Nicolò Cusano non possiamo quindi affermare che esista una sola specie di conoscenza: ché anzi il conoscere si distingue evidentemente in un tipo di conoscenza che trasmette cognizioni di cose esteriori, e, in un altro tipo di conoscenza ch’é essa stessa l’oggetto di cui si acquista conoscenza. Il primo tipo si esplica nelle scienze che andiamo conquistando intorno alle cose e ai processi del mondo; l’altro tipo é in noi, quando viviamo noi stessi nel sapere acquistato. Il secondo tipo si sviluppa dal primo. Ma i due tipi di conoscenza si riferiscono pur sempre al medesimo mondo ed é il medesimo uomo ch’é attivo in entrambi. Deve perciò sorgere la domanda: donde viene che uno stesso e identico uomo sviluppi due modi di conoscenza di uno stesso e identico mondo? Già parlando di Tauler abbiamo potuto accennare alla direzione in cui conviene cercare la risposta a questa domanda. E qui, a proposito di Nicolò Cusano, essa può formularsi ancor più decisamente. L’ uomo vive da prima quale essere singolo (individuale) fra altri esseri singoli; alle azioni che gli altri esseri esercitano l’uno sull’ altro si aggiunge in lui la conoscenza (inferiore). Per mezzo dei sensi egli riceve impressioni dagli altri esseri ed elabora queste impressioni con le forze del suo spirito. Poi l’uomo può distogliere lo sguardo spirituale dalle cose esteriori e rivolgerlo su sé stesso, sulla propria attività: da ciò nasce la sua auto-conoscenza. Ma finché egli rimane a questo gradino dell’autoconoscenza, non contempla ancora, nel vero senso della parola, sé stesso. Può ancor sempre ritenere che in lui sia attiva un’ entità recondita, manifestazione ed effetto della quale sia ciò che gli appare come sua attività. L’uomo però può pervenire a un punto in cui, per un’inoppugnabile esperienza interiore, gli si rivela che in ciò ch’egli percepisce e sperimenta nella sua interiorità non si manifesta l’effetto di una forza o di un’entità recondita, ma che in tutto ciò egli si trova di fronte a questa entità stessa, nella sua forma più intima ed essenziale. A questo punto gli é lecito dirsi: tutte le altre cose io le trovo già, in certo modo, bell’e fatte e com- piute ed io, che sto fuori, vi aggiungo ciò che lo spirito é in grado di dire sulle cose stesse. Ma quello che, in me, vado in tal modo creando e aggiungendo alle cose, é l’ elemento nel quale io stesso vivo; sono io stesso; é il mio proprio essere. Ma che cos’é allora ciò che parla nel profondo del mio essere? È il sapere che mi sono acquistato intorno alle cose del mondo, nel quale però non si esprime più semplicemente un effetto, una manifestazione, ma un quid che non nasconde nulla di quanto ha in sé. In questo sapere il mondo parla in tutta la sua immediatezza. Questo sapere però io l’ho acquistato tanto delle cose, quanto di me stesso come cosa fra le cose. Dal fondo del mio essere parlo io stesso e parlano le cose. Dunque, in verità, io non esprimo più solo il mio essere, ma l’essere delle cose. Il mio « Io » é la forma, l’organo nel quale le cose parlano di sé stesse. Ho sperimentato in me la mia propria entità; e tale esperienza si estende all’altra, per cui, in me e attraverso me, l’Entità universale parla di sè stessa o, in altre parole, conosce sé stessa. Ora non posso più sentirmi come una cosa fra le cose, ma solo come una forma nella quale si esplica l’Ente universale.
È perciò del tutto naturale che uno stesso e identico uomo abbia due specie di conoscenza. Infatti, secondo la realtà sensibile, egli é una cosa fra le cose e, in quanto tale, acquista un sapere di queste cose; ma in qualsiasi momento egli può fare l’esperienza superiore che gli rivela di essere egli stesso la forma in cui l’Essere universale contempla sé stesso. Allora egli si trasforma, da cosa fra le cose, che era, in una forma dell’Essere universale; e con lui il sapere delle cose si trasforma nell’ enunciazione dell’essere delle cose. Ma tale trasformazione non può compiersi in realtà se non per opera dell’uomo stesso. Ciò che forma il contenuto della conoscenza superiore non esiste ancora, finché tale conoscenza superiore stessa non si sia prodotta. L’uomo diventa veramente un’ entità reale solo nell’ attività di tale conoscenza, e anche le cose portano ad un’esistenza reale la loro essenza solo per effetto della conoscenza superiore dell’uomo. Se dunque si pretende che l’uomo, per mezzo della sua conoscenza superiore, non aggiunga nulla alle cose ma esprima soltanto ciò che già si trova nelle cose del mondo, si rinuncia a qualsiasi conoscenza superiore.
Dal fatto che l’uomo, relativamente alla sua vita sensibile, é una cosa fra le cose, e giunge alla conoscenza superiore solo dopo aver compiuta egli stesso la propria trasformazione da essere sensibile ad essere superiore, deriva ch’egli non può mai sostituire un tipo di conoscenza con l’altro. La sua vita spirituale consiste anzi appunto in un continuo oscillare fra i due poli della conoscenza, fra il sapere e il vedere (in senso superiore). Se l’uomo si preclude il vedere, egli rinuncia all’essenza delle cose; se volesse escludersi dalla conoscenza sensibile, rinuncerebbe agli oggetti di cui aspira a conoscere l’essenza. Sono le stesse cose che si rivelano alla conoscenza inferiore e alla visione superiore: a quella, secondo la loro apparenza esteriore, a quest’ultima, secondo la loro intima essenza. Non dipende perciò dalle cose, se esse, a un certo livello, ci appaiono solo come cose esteriori; ma dipende dall’uomo che deve prima trasformarsi fino a raggiungere il livello dove le cose cessano di essere esteriori.
Solo dal punto di vista di queste considerazioni possiamo lumeggiare giustamente talune concezioni sviluppate dalla scienza naturale nel secolo XIX. I fautori di tali concezioni dicono: per mezzo dei sensi noi udiamo, vediamo e tocchiamo gli oggetti del mondo fisico: così ad esempio l’occhio ci trasmette una sensazione luminosa, un colore. Noi diciamo che un corpo emana luce rossa, quando, per mezzo del nostro occhio, abbiamo la sensazione del « rosso ». Ma l’occhio ci trasmette questa sensazione anche in altri casi: ha una sensazione di luce quando viene urtato o premuto, o stimolato elettricamente. Perciò anche quando riceviamo la sensazione di un corpo lucente in un dato colore, in quel corpo può svolgersi un processo che non ha alcuna somiglianza col colore. Qualsiasi processo si verifichi nello spazio, basta ch’esso sia atto a impressionare l’occhio perché in me sorga una sensazione luminosa. Dunque ciò che noi sentiamo nasce in noi stessi, in quanto possediamo organi costituiti in questo o quel modo. Ciò che si svolge fuori, nello spazio, ci resta estraneo; noi non conosciamo che gli effetti provocati in noi dai processi esteriori. Hermann Helmholtz (1821.1893) ha chiaramente e nettamente formulato questo pensiero: « Le nostre sensazioni sono appunto effetti provocati da cause esteriori nei nostri organi, e il modo di estrinsecarsi di un tale effetto dipende naturalmente in modo essenziale dal tipo dell’apparato su cui si agisce. La qualità della nostra sensazione, in quanto ci dà notizia delle proprietà dell’agente esterno che l’ha suscitata, può venir considerata un segno di esso, ma non un’immagine. Infatti dall’immagine noi pretendiamo una qualsiasi forma di somiglianza con l’oggetto riprodotto: da una statua una somiglianza di forma, da un disegno una somiglianza della proiezione prospettica entro il campo visivo, da un dipinto anche una somiglianza di colori. Ma un segno non occorre abbia alcuna specie di somiglianza con la cosa di cui é segno: il loro reciproco rapporto si limita al fatto che lo stesso oggetto, agendo nelle medesime condizioni, produce lo stesso segno, e che quindi segni differenti corrispondono sempre a stimoli differenti... Se frutti di una certa specie producono, nel corso della maturazione, contemporaneamente pigmento rosso e zucchero, alla nostra sensazione tali frutti presenteranno sempre insieme colore rosso e sapore dolce ». (Cfr. Helmholtz: I tatti della percezione, pag. 12 e segg.). Ho caratterizzato estesamente questa concezione nella mia Filosofia della Libertà e nel vol. Il degli Enigmi, della Filosofia. Seguiamo pure passo per passo il ragionamento che sta alla base della concezione ora esposta. Si suppone che nello spazio si svolga un certo processo il quale eserciti un’azione sopra un mio organo sensorio. Il mio sistema nervoso conduce al cervello l’impressione che n’é derivata. Là si provoca un nuovo processo. A questo punto, io ho la sensazione del « rosso ». Ora si dice : dunque, la sensazione del « rosso » non sta fuori, ma in me. Tutte le nostre sensazioni non sono che segni di processi esteriori, delle cui qualità reali non sappiamo nulla. Noi viviamo e ci muoviamo nelle nostre sensazioni, ignorandone del tutto l’origine. Conformemente a tale concezione, si potrebbe anche dire: se non avessimo l’occhio, non ci sarebbe colore: nulla trasformerebbe il processo esteriore a noi ignoto nella sensazione del « rosso ». Per molti questo ragionamento ha qualcosa di affascinante. Eppure esso si fonda soltanto sopra un radicale errore sui fatti in questione. (Se molti scienziati e filosofi contemporanei non fossero acciecati fino all’ assurdo da questo ragionamento, non occorrerebbe parlarne tanto. Ma tale acciecamento ha realmente corrotto, per molti riguardi, il pensiero contemporaneo). Poiché l’ uomo é una cosa fra le cose, queste debbono naturalmente fare un’impressione su di lui, affinché egli possa apprenderne qualcosa. Un processo esterno all’uomo deve provocare in lui un processo interno, affinché nel suo campo visivo possa manifestarsi il fenomeno del « rosso ». Si tratta solamente di sapere che cosa é fuori, e che cosa è dentro. Fuori, si svolge un processo nello spazio e nel tempo. Ma anche nell’interiorità si svolge senza dubbio un processo simile: e precisamente quello che si esplica nell’occhio e che si trasmette al cervello, quando io percepisco il « rosso ». Il processo che si svolge « dentro », non mi é dato di percepirlo senz’altro; e altrettanto poco mi é dato di percepire immediatamente « là fuori », il moto oscillatorio che i fisici ritengono corrispondere al colore « rosso ». Ma solamente in tal senso mi é lecito parlare di « dentro » e « fuori »: questo contrasto di « dentro » e « fuori » ha un senso soltanto nell’àmbito della conoscenza sensibile, la quale m’induce ad ammettere « là fuori » un processo spaziale-temporale, anche se non posso percepirlo direttamente. E la medesima conoscenza m’induce ad ammettere anche in me un tale processo, pur non potendo percepire direttamente neppure questo. Ma anche nella vita quotidiana si ammettono processi spaziali-temporali che non si percepiscono direttamente. Ad esempio, quando sento suonare un pianoforte nella stanza attigua, ammetto che un essere umano spaziale sieda al pianoforte e suoni. Non diversa é la mia rappresentazione, quando parlo di processi dentro di me e fuori di me: presuppongo che tali processi abbiano proprietà analoghe a quelle dei processi che cadono sotto i miei sensi, ma che, per determinate ragioni, essi si sottraggano alla mia percezione diretta. Se volessi negare a questi processi tutte le proprietà che i miei sensi mi mostrano nell’àmbito spaziale e temporale, penserei qualcosa di simile al famoso coltello senza manico né lama ! Non posso quindi affermare se non che « fuori » si svolgono processi spaziali-temporali, i quali a loro volta provocano processi spaziali-temporali « dentro »: entrambi sono necessari affinché il « rosso » possa mostrarsi nel mio campo visivo. Ma il « rosso » stesso, in quanto non é spaziale-temporale, lo cercherò inutilmente sia « dentro », sia « fuori ». Gli scienziati e i filosofi che non riescono a trovarlo « fuori » non dovrebbero volerlo cercare neppure « dentro » : esso non si trova « dentro », come non si trova « fuori ». Il voler dichiarare che l’intero contenuto di ciò che ci presenta il mondo sensibile é un mondo di sensazioni, e pretendere di cercare qualcosa di c esterno » che vi corrisponda, é una rappresentazione assurda. Non ci é quindi lecito affermare che « rosso », « dolce », « caldo », ecc. siano segni che, come tali, vengono provocati solo in noi, e ai quali « fuori » corrisponda qualcosa di totalmente diverso. Poiché ciò che veramente é stimolato in noi come effetto di un processo esterno, é tutt’altro da ciò che si presenta nel campo delle nostre sensazioni. Se vogliamo chiamare segno » ciò che è in noi, possiamo dire: questi segni si manifestano nel nostro organismo per trasmetterci le percezioni che, come tali, nella loro immediatezza, non sono né dentro né fuori di noi, ma appartengono piuttosto a quel mondo comune del quale il mio « mondo esterno » e il mio « mondo interno » non sono che parti. Certamente però, per poter comprendere questo mondo comune, debbo innalzarmi a quel superiore livello della conoscenza per il quale non esiste più un « dentro e fuori ». (So perfettamente che gente che considera vangelo la dottrina che « l’intero mondo della nostra esperienza » sia costituito da sensazioni di origine ignota, giudicherà con disprezzo queste considerazioni: come ad esempio il Dott. Erich Adikes, che nel suo scritto Kant contro Haeckel dice, con aria di superiorità: « Per ora intanto, gente come Haeckel e migliaia del suo stampo continuano allegramente a filosofare, senza minimamente preoccuparsi della teoria della conoscenza e della riflessione critica ». Tali signori non hanno una pallida idea di quanto siano superficiali le loro teorie della conoscenza. Essi sospettano la deficienza della riflessione critica solo negli altri. Lasciamo loro volentieri la loro « saggezza »).
Nicolò Cusano enunciò idee assai giuste proprio sul punto in questione: la sua chiara distinzione tra conoscenza inferiore e superiore gli permette, da un lato, di giungere alla piena consapevolezza del fatto che l’uomo, come essere sensibile, può avere in sè solo processi che, come effetti, devono essere necessariamente dissimili dai corrispondenti processi esterni; d’altra parte, essa lo salva dallo scambiare i processi interni coi fatti che si mostrano nel campo delle nostre percezioni, i quali, nella loro immediatezza, non sono né « dentro » né « fuori », ma trascendono tale contrasto.
Se non che la sua « veste sacerdotale » impedì al Cusano di percorrere con rigorosa coerenza tutto il cammino indicatogli da quella sua lucida visione. Lo vediamo infatti compiere un inizio brillante col passaggio dal « sapere » al « non-sapere ». Ma al tempo stesso scorgiamo come, nella sfera del « non-sapere », egli non ci mostri null’ altro che il contenuto dottrinale teologico che ci é offerto anche dagli scolastici. È bensì vero che il Cusano sa sviluppare genialmente tale contenuto teologico. Intorno alla Provvidenza, al Cristo, alla Creazione del mondo, alla redenzione dell’uomo, alla vita morale, egli espone dottrine del tutto cònsone al Cristianesimo dogmatico. Sarebbe stato coerente col suo punto di partenza spirituale se egli avesse detto: ho fiducia che la natura umana, dopo essersi approfondita per ogni verso nella scienza delle cose, possa riuscire a trasformare per forza propria questo « sapere » in un « non-sapere », in modo che la suprema conoscenza dia appagamento.
Così dicendo, egli non avrebbe accettato, come in realtà fece, le idee tradizionali di anima, immortalità, redenzione, Dio, creazione, Trinità, ecc., ma avrebbe sostenuto in proposito le idee trovate da lui stesso. Nicolò invece era personalmente compenetrato dalle concezioni cristiane al punto da potersi illudere di risvegliare in sé un proprio « non-sapere », mentre in realtà esprimeva solo le concezioni tradizionali in cui era stato educato. Bisogna, però, anche riconoscere ch’egli si trovava davanti a un fatale abisso della vita spirituale umana: era cioé uomo di scienza, e la scienza, in un primo tempo, ci allontana dall’innocente « armonia col mondo », nella quale viviamo finché ci abbandoniamo ad un atteggiamento ingenuo nei riguardi della vita. In un tale atteggiamento sentiamo oscuramente la nostra connessione col complesso del mondo: siamo un essere inserito come gli altri nel corso degli effetti naturali. Col sapere, ci separiamo da questo complesso; creiamo in noi un mondo spirituale che ci isola e ci rende solitari di fronte alla natura. Siamo divenuti più ricchi, ma tale ricchezza é un peso difficile da portare, poiché grava su noi soli, almeno da principio. Tocca a noi, ora, ritrovare per forza propria la via della natura; tocca a noi riconoscere che dobbiamo ormai saper inserire la nostra ricchezza nella corrente dell’attività universale, come prima la natura stessa vi aveva inserita la nostra povertà.
A questo punto stanno in agguato tutti i démoni! Le forze dell’uomo possono facilmente venir meno: e quando le forze vengono meno, invece di compiere da sé quell’inserimento, egli ricorrerà ad una rivelazione proveniente dall’esterno che tornerà a liberarlo dalla sua solitudine, e ricondurrà nel grembo primordiale dell’esistenza, nella Divinità, quel sapere ch’egli sente come un peso. Allora, come Nicolò Cusano, l’uomo crederà di percorrere il cammino suo proprio, mentre invece percorrerà soltanto la via che la sua evoluzione spirituale gli avrà mostrata. Giunti al punto a cui era arrivato Nicolò Cusano, abbiamo in sostanza tre vie possibili: la prima è la fede positiva, che ci viene dall’esterno; la seconda é la disperazione, in cui si é soli col proprio peso e si sente tutta l’esistenza vacillare insieme a noi; la terza via é quella dello sviluppo delle più profonde forze dell’uomo. La fiducia nel mondo dev’essere una delle guide su questa terza via; l’altra sarà il coraggio di seguire quella fiducia, ovunque essa ci porti.