Il mondo ideale di Maestro Eckhart è pervaso dal sentimento che nello spirito dell’uomo le cosa rinascano come entità superiori. Egli apparteneva all’Ordine dei Domenicani, come il massimo teologo cristiano del medioevo, Tommaso d’Aquino, vissuto dal 1225 al 1274. Eckhart era un convinto ammiratore di Tommaso, e ciò deve riuscirci comprensibile se consideriamo tutto il modo di pensare di Eckhart stesso. Egli si riteneva d’accordo con le dottrine della Chiesa cristiana. alla stessa stregua di Tommaso. Eckhart non voleva nè togliere, nè aggiungere alcunchè al contenuto del Cristianesimo; ma voleva generare ex-novo questo contenuto alla sua propria maniera. Una personalità come la sua non ha il bisogno spirituale di porre verità nuove, dell’uno o dell’altro genere, al posto di verità antiche; una tale personalità è del tutto connaturata col contenuto che ha ricevuto per tradizione, ma aspira a conferirgli nuova forma, nuova vita. Senza dubbio Eckhart voleva rimanere un fedele cristiano; le verità cristiane erano le sue, ma egli voleva contemplarle in modo differente da come, ad esempio, le vedeva Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo ammetteva due fonti di conoscenza: la rivelazione nella fede, e la ragione nell’indagine. La ragione conosce le leggi delle cose, cioè la spiritualità nella natura; essa può anche elevarsi al disopra della natura e comprendere da un lato, nello spirito, l’entità divina che è il fondamento di tutta la natura. Ma in questo modo la ragione non arriva ad immergersi nella pienezza dell’entità di Dio: bisogna che un superiore contenuto di verità le venga incontro, ed esso si trova nella Sacra Scrittura. Questa rivela ciò che l’uomo per sè stesso non può raggiungere. Il contenuto di verità della Scrittura dev’ essere semplicemente accettato dall’uomo: la ragione può difenderlo, può cercare di comprenderlo il meglio possibile per mezzo delle proprie forze conoscitive; ma non può mai generarlo dallo spirito umano. La verità somma non è quella che lo spirito scopre da sé, bensì quella che gli giunge da fuori. Sant’Agostino si dichiara incapace di trovare in sè la sorgente di ciò che deve credere; egli dice : « Non crederei al Vangelo, se non vi fossi indotto dall’autorità della Chiesa cattolica ». E questo é detto nel senso dell’ Evangelista, che ci rinvia alla testimonianza esteriore. « Ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, che abbiamo veduto noi stessi, ciò che le nostre mani hanno toccato della Parola di vita... ciò che abbiamo veduto e udito, noi ve lo riferiamo affinché abbiate comunanza con noi ». Maestro Eckhart vorrebbe invece imprimere negli uomini le parole di Cristo: « È bene per voi che io me ne vada; ché s’io non me ne andassi da voi, non potreste ricevere lo Spirito Santo ». E spiegava queste parole dicendo: « Proprio come se dicesse: voi avete riposta troppa gioia nella mia figura attuale, per cui non potete godere della gioia perfetta dello Spirito Santo ». Eckhart ritiene di parlare di un Dio che é proprio quello di Agostino, dell’ evangelista e di Tommaso; eppure la loro testimonianza di Dio non è la sua. « Molti pretendono di vedere Dio con gli occhi, come vedono una mucca, e di voler bene a Dio, come vogliono bene a una mucca. Così vogliono bene a Dio, per ricchezza esteriore e per consolazione interiore; ma questa gente non ama Dio nel modo giusto... La gente ingenua s’illude di dover considerare Dio come se Egli fosse lì ed essi qui. Ma non é così: Dio ed io siamo una cosa sola nella conoscenza ». Alla base di queste affermazioni di Eckhart non sta altro che l’esperienza del senso interiore, e tale esperienza gli mostra le cose in una luce più alta. Perciò egli ritiene di non abbisognare di una luce esteriore per giungere alle conoscenze supreme : « Un maestro così parlò: Dio s’è fatto uomo, e perciò tutto il genere umano risulta innalzato e onorato. E noi possiamo rallegrarci di ciò, che Cristo nostro fratello sia salito per forza propria oltre tutti i cori degli angeli e sieda alla destra del Padre. Quel maestro disse bene; ma in verità io non ne posso fare gran caso. Che mi gioverebbe infatti se avessi un fratello ricco ed io fossi povero? Che mi gioverebbe se avessi un fratello saggio ed io fossi stolto?... Il Padre divino genera il suo Figlio unigenito in sè ed in me. Perché in sè ed in me? Io sono uno con Lui, nè può Egli escludermi da sè. In una stessa e medesima opera lo Spirito Santo riceve la propria essenza e procede da me come da Dio. E perché? Perchè io sono in Dio, e se lo Spirito Santo non riceve la propria essenza da me, non la riceve neppure da Dio. In nessun modo io sono escluso ». Quando Eckhart ricorda l’esortazione di Paolo: « Rivestitevi di Gesù Cristo », egli intende attribuirgli il significato: sprofondatevi in voi stessi, immergetevi nella contemplazione di voi stessi, e dalle profondità del vostro essere sfolgorerà Dio; esso vi illumina tutte le cose, lo avete trovato in voi, siete divenuti uno con l’entità divina. « Dio è divenuto uomo perchè io possa diventare Dio ». Nel suo trattato Della Solitudine Eckhart si pronuncia sul rapporto fra la percezione esteriore e quella interiore: « Qui devi sapere che i maestri dicono che in ogni uomo vi sono due uomini: l’uno è chiamato l’uomo esteriore, cioé quello dei sensi: l’uomo, infatti, é dotato di cinque sensi, eppure egli agisce per la forza dell’anima. L’altro si chiama l’uomo interiore, cioé l’intimo dell’uomo. Ora devi sapere che ogni uomo che ami Dio non adopera le forze dell’anima nell’ uomo esteriore, più di quanto i cinque sensi strettamente lo richiedano; e l’interiorità non si rivolge ai cinque sensi se non in quanto essa ne è guida e direttrice e li sorveglia, affinché essi non servano alla bestialità, secondo la loro inclinazione ». Chi parla così dell’uomo interiore, non può più cercare l’essenza delle cose fuori di lui stesso: poichè egli si rende conto che questa essenza non può venirgli incontro da nessuna forma del mondo esteriore. Si potrebbe obiettargli: ma in che cosa riguarda gli oggetti del mondo esterno ciò che tu aggiungi loro nel tuo spirito? Fòndati dunque sui tuoi sensi che soli ti informano sul mondo esterno. Non falsare con aggiunte spirituali quanto i sensi ti presentano in purezza, senza aggiunte, come immagine del mondo esterno. Il tuo occhio ti dice come sia il colore; di quanto il tuo spirito conosce del colore nulla si trova nel colore stesso. Dal punto di vista di Maestro Eckhart si dovrebbe replicare: i sensi sono apparati fisici, le loro comunicazioni intorno agli oggetti non possono perciò riferirsi ad altro che alla parte fisica degli oggetti stessi. E questa parte fisica degli oggetti mi si comunica in modo che in me stesso venga suscitato un processo fisico. Il colore, quale processo fisico nel mondo esterno, stimola un processo fisico nel mio occhio e nel mio cervello : con ciò percepisco il colore. Ma per questo mezzo posso percepire soltanto ciò che nel colore è fisico, sensibile: la percezione sensibile esclude dalle cose tutto quanto non é sensibile. Se ora procedo oltre, cioé al contenuto spirituale, ideale, non faccio che ripristinare quella parte delle cose che la percezione sensibile aveva eliminata. Pertanto la percezione sensibile non mi mostra l’essenza più profonda delle cose; anzi mi separa da tale essenza, con la quale invece mi ricongiunge la comprensione spirituale, ideale. Quest’ ultima mi mostra che le cose, nel loro intimo, sono della mia medesima essenza spirituale. La barriera fra me e il mondo esterno cade grazie alla comprensione spirituale. Io sono separato dal mondo esterno finché sono un oggetto sensibile fra altri oggetti sensibili. Il mio occhio e il colore sono due entità diverse. Così il mio cervello e la pianta. Ma il contenuto ideale della pianta e del colore appartengono alla stessa entità ideale unitaria a cui appartiene il contenuto ideale del mio cervello e del mio occhio.
Questa concezione non va scambiata con quella tendenza antropomorfizzante assai diffusa che crede di comprendere le cose del mondo esterno attribuendo loro proprietà di ordine psichico pensate analoghe alle proprietà dell’ anima umana. Tale concezione dice: di un uomo che ci sta dinanzi noi non percepiamo che caratteristiche sensibili; non possiamo spingere lo sguardo nella sua interiorità. Da ciò che di esso vedo e odo, traggo deduzioni sul suo intimo, sulla sua anima. Pertanto, l’anima non é mai qualcosa ch’io possa percepire immediatamente: io la percepisco soltanto nella mia propria interiorità. Nessuno vede i miei pensieri, le mie fantasie, i miei sentimenti. Come dunque io possiedo una tale vita interiore, oltre a quella che si può percepire esteriormente, tutte le cose debbono possederne una simile. Così conclude chi si pone dal punto di vista di una concezione antropomorfizzante. Anche ciò ch’io percepisco esteriormente di una pianta sarebbe solo l’esteriorità d’una corrispondente interiorità, di un’anima, ch’io dovrei aggiungere col pensiero a ciò che percepisco. E poiché non esiste per me che un unico mondo interiore, e precisamente il mio proprio, non sono in grado di rappresentarmi il mondo interiore degli altri esseri se non come simile al mio. Con ciò si giunge ad una specie di animismo generale della natura (panpsichismo): una concezione che si fonda unicamente sul disconoscimento di ciò che può realmente offrire il senso interiore, una volta sviluppato. Il contenuto spirituale d’un oggetto esterno, che mi si riveli nel mio intimo, non é qualcosa che col pensiero si aggiunga alla percezione esteriore, come non lo é lo spirito di un altro uomo. Per mezzo del senso interiore io percepisco questo contenuto come per mezzo dei sensi esteriori percepisco il contenuto fisico. E ciò che, nel significato suddetto, io chiamo la mia vita interiore, non é affatto, nell’accezione più alta, il mio spirito. Questa vita interiore é soltanto il risultato di processi meramente sensibili e mi appartiene dunque solo in quanto io sono una personalità strettamente individuale, la quale altro non é che il risultato della mia propria organizzazione fisica. Se io trasferisco questa interiorità alle cose esteriori, penso effettivamente a vuoto. La mia vita animica personale, i miei pensieri, ricordi e sentimenti sono in me, perché io sono un essere naturale organizzato in una certa maniera, con un determinato apparato sensoriale e un determinato sistema nervoso. Non sono autorizzato a proiettare nelle cose esterne questa mia anima umana: potrei farlo solamente qualora io trovassi in qualche luogo un sistema nervoso organizzato in modo analogo al mio. Ma la mia anima individuale non è la parte più elevata di me stesso; questa parte più alta dev’essere prima risvegliata per mezzo del senso interiore. E questa spiritualità risvegliata in me é al tempo stesso identica a quanto di spirituale si trova in tutte le cose. Ad essa, per esempio, la pianta si manifesta immediatamente nella sua propria spiritualità e non occorre che io le conferisca una spiritualità simile alla mia. Per una tale concezione il parlare della sconosciuta « cosa in sè » perde qualsiasi significato: perché quanto si svela ai senso interiore é appunto la « cosa in sé ». Tutti questi discorsi derivano semplicemente dal fatto che chi li fa non é in grado di riconoscere nei contenuti spirituali della propria interiorità le « cose in sé »; ritiene di dover riconoscere nel proprio intimo vane ombre e fantasmi, « meri concetti e idee » delle cose. Ma poiché ha tuttavia una vaga idea della « cosa in sé », crede che la « cosa in sé » si nasconda e che alla facoltà conoscitiva dell’uomo siano posti dei limiti. A chi é vittima di tale illusione non é possibile dimostrare che gli occorre afferrare la « cosa in sé » nella propria interiorità, perché egli non la riconoscerebbe mai, anche se altri gliela indicasse. E ciò che importa è proprio un tale riconoscimento.
Ogni parola di Maestro Eckhart é compenetrata di questo riconoscimento. « Ascolta in proposito questa similitudine: una porta si apre e si chiude sui suoi cardini. Se io confronto la tavola esterna della porta con l’uomo esteriore, vorrei confrontare l’uomo interiore col cardine. Se ora la porta si apre e si chiude, la tavola esterna si muove in qua e in là, mentre il cardine resta immobile e non ne risulta affatto modificato. Lo stesso avviene anche qui ». Come creatura individuale legata ai sensi io posso indagare le cose per ogni verso (la porta si apre e chiude); ma se non faccio rinascere spiritualmente in me le percezioni delle cose, io non conosco nulla della loro essenza (il cardine non si muove). Secondo la concezione di Eckhart, la illuminazione trasmessa dal senso interiore é l’ingresso di Dio nell’anima. Egli chiama la luce della conoscenza che per tale ingresso si accende, « la piccola favilla dell’anima ». E quella parte dell’interiorità umana nella quale si accende questa favilla é « così pura e così alta e così nobile in sé stessa, che in lei non può stare alcuna cosa creata, ma Dio solo vi dimora, con la sua natura esclusivamente divina ». Chi ha acceso in sé questa « piccola favilla » non vede più soltanto come vede l’uomo, coi suoi sensi esteriori e con l’intelletto logico che ordina e classifica le impressioni dei sensi, ma vede le cose come sono in sé stesse. I sensi esteriori e l’intelletto classificatore separano il singolo uomo dalle altre cose, facendone un individuo nel tempo e nello spazio, capace di percepire nel tempo e nello spazio anche le altre cose. Ma l’uomo illuminato dalla « favilla » cessa di essere una creatura singola; egli annulla la propria separazione. Tutto ciò che determina la differenza fra lui e le cose cessa; non importa più che sia lui, quale essere isolato, colui che percepisce; le cose e lui non sono più separate: esse, e con esse anche Dio, si scorgono in lui. « Questa favilla é Dio, in quanto é un’unica unità, e porta in sé l’immagine di tutte le creature, immagine senza immagine e immagine sopra immagine ». Eckhart esprime con le parole più meravigliose l’estinzione dell’essere singolo : « Occorre perciò sapere che, secondo la natura delle cose, conoscere Dio ed essere conosciuti da Dio é un’unica, identica cosa. Noi conosciamo e vediamo Dio, in quanto egli ci rende veggenti e conoscenti. E come la luce che illumina non é altro che ciò che la illumina, poiché essa illumina in quanto é illuminata, così noi conosciamo in quanto siamo conosciuti e in quanto Egli ci si rende conosciuto ».
Su tale base Maestro Eckhart edifica il suo rapporto con Dio; é un rapporto puramente spirituale che non può essere formato secondo un’immagine derivata dalla vita umana individuale.- Dio non può amare la sua creazione come un singolo uomo ne ama un altro; né può aver creato il mondo come un architetto costruisce una casa. Ogni pensiero di questo genere dilegua davanti alla visione interiore. Fa parte della essenza di Dio ch’egli ami il mondo: un Dio che potesse amare o anche non amare sarebbe formato secondo l’immagine dell’uomo individuale. « Io dico in schietta verità e in eterna verità che Dio deve riversarsi tutto quanto, secondo tutto il suo potere, in ogni uomo che sia penetrato sino al fondo del proprio essere; egli vi si riverserà così interamente da non trattenere nulla della sua vita e della sua essenza e della sua natura e della sua divinità: tutto egli dovrà a un tempo versare in modo fecondo ». E la illuminazione interiore é qualcosa che l’anima deve necessariamente trovare, purché penetri sino al fondo di sé. Da quanto sopra, risulta già che non dobbiamo rappresentarci la comunicazione di Dio al-1’ umanità secondo immagine della rivelazione di un uomo all’altro: questa comunicazione può anche mancare. Un uomo può chiudersi verso i suoi simili, ma Dio deve, per sua natura, comunicarsi. « È verità certa che a Dio é necessario cercarci, come se tutta la sua divinità ne dipendesse. Dio non può fare a meno di noi, come noi non possiamo fare a meno di lui. Se anche noi ci storniamo da lui, egli non può mai volersi stornare da noi ». Di conseguenza anche il rapporto dell’uomo con Dio non può venir concepito come se vi fosse contenuta un’ immagine tratta dalla vita umana individuale. Eckhart si rende conto che il ritrovarsi nell’anima dell’uomo fa parte della perfezione dell’Essere primordiale del mondo. Questo Essere primordiale sarebbe imperfetto, anzi incompiuto, se mancasse di quel componente della propria formazione che appare nell’ anima. Ciò che avviene nell’ uomo, appartiene all’Essere primordiale, e se non avvenisse, l’ Essere primordiale sarebbe soltanto una parte di sé stesso. In tal senso, uomo é autorizzato a sentirsi una parte necessaria dell’Essere universale. Eckhart esprime questo fatto così, descrivendo i propri sentimenti nei riguardi di Dio: « Io non rendo grazie a Dio perché Egli mi ama, ché Egli non può farne a meno; lo voglia o no, la sua natura ve lo costringe... Perciò non voglio pregare che Egli mi conceda qualche cosa, né voglio lodarlo per quanto mi ha concesso... ».
Ma questo rapporto dell’ anima con l’Essere primordiale non va inteso nel senso di una identità dell’anima, nella sua essenza individuale, con questo Essere primordiale. L’ anima, in quanto impigliata nel mondo dei sensi, cioé nella sfera del perituro, non ha già in sé il contenuto dell’Essere primordiale; deve prima svilupparlo in sé. Essa deve annullarsi come essere singolo. Maestro Eckhart definisce efficacemente questo annullarsi come uno « sdivenire » (Entwerdung). « Quando io pervengo al fondo della Divinità, nessuno mi chiede donde io venga, nè dove io sia stato, e nessuno si accorge della mia assenza, chè qui si ha uno sdivenire ». Chiaramente esprimono questo rapporto anche le parole: « Io prendo un bacile pieno d’acqua, vi immergo uno specchio e lo espongo al sole. Il sole riversa la sua chiara luce nello specchio, eppure non si esaurisce. Il riverbero dello specchio nel sole é sole nel sole, eppure lo specchio resta ciò che é. Così é anche per Dio. Dio é nell’anima con la sua natura e nella sua essenza e nella sua divinità, eppure Egli non é l’anima. Il riverbero dell’anima in Dio é Dio in Dio, eppure l’anima resta ciò che é ».
L’anima che si abbandona alla illuminazione interiore non soltanto riconosce in sé ciò che essa era prima di questa illuminazione, ma anche ciò che solo per mezzo di tale illuminazione essa diviene. « Noi dobbiamo unirci a Dio essenzialmente, dobbiamo unirci a Dio unicamente, dobbiamo unirci a Dio interamente. Ma come unirci a Dio essenzialmente? Ciò dovrà avvenire per la visione e non per la formazione. Il suo essere potrà non diventare il nostro essere, ma deve essere la nostra vita ». Non si tratta di conoscere logicamente una vita già esistente — una « formazione » nel senso suddetto, — ma la conoscenza superiore, la « visione », deve essa stessa diventar vita. Lo spirituale, l’ideale deve essere sentito dall’uomo veggente allo stesso modo com’é sentita dalla natura umana individuale la vita comune, quotidiana.
Da tali premesse Maestro Eckhart giunge anche a un puro concetto di libertà. Nella vita comune l’anima non é libera, poiché é coinvolta nel regno delle cause inferiori. Essa compie ciò a cui viene costretta da tali cause inferiori. Con la « visione » essa viene sollevata al disopra della regione di tali cause; non agisce più come anima singola. In essa viene svincolata l’entità originaria che non può essere determinata se non da sé stessa. « Dio non costringe la volontà, anzi la pone in libertà, in modo ch’essa non voglia se non ciò che Dio stesso vuole. E lo spirito non può volere altro che ciò che vuole Dio: e questa non é la sua privazione di libertà, bensì é la sua vera libertà. Poiché libertà consiste nel non essere legati, nell’essere così liberi e puri e incontaminati come eravamo nel nostro primo efflusso, quando fummo posti in libertà nello Spirito Santo ». Dell’uomo illuminato si può dire ch’egli stesso é l’entità che determina da sé stessa il bene ed il male. Egli non può a meno di compiere il bene, perché non é asservito al bene, ma il bene si esplica attraverso di lui. « L’uomo giusto non serve né a Dio né alle creature poiché egli é libero; e quanto più vicino é alla giustizia, tanto più é egli stesso la libertà ». Che cosa sarà, dunque, per Maestro Eckhart, il male ? Non può essere se non l’ agire sotto l’ influsso della concezione inferiore delle cose; l’agire di un’anima che non é passata per lo stadio dello « sdivenire » (Entwerdung). Un’anima siffatta é egoista, nel senso di non volere che sè. Soltanto esteriormente essa potrebbe mettere d’accordo la propria volontà con gli ideali morali. L’anima veggente non può essere egoista, in questo senso: se anche volesse sé, non vorrebbe che il trionfo dell’ideale, poiché si é identificata con l’ideale. Essa non può più volere i fini della natura inferiore, perché non ha più nulla in comune con la natura inferiore. Per l’anima veggente, l’agire nel senso degli ideali morali non rappresenta nessuna costrizione, o sacrificio. « Per l’uomo che vive nella volontà di Dio e nell’amore di Dio é una gioia far tutte le cose buone che Dio vuole, e tralasciare tutte le cose cattive contrarie a Dio. E gli é impossibile di tralasciare una cosa che Dio vuole sia fatta. Proprio com’ é impossibile che cammini uno al quale siano legate le gambe, così sarebbe impossibile a colui che sta nella volontà di Dio commettere alcunché di male ».
Eckhart mette ancora espressamente in guardia contro una interpretazione che volesse vedere in questa sua concezione una giustificazione di qualsiasi arbitrio del singolo. Il veggente si riconosce appunto dal fatto di non volere più nulla come singolo. « Molti dicono: una volta ch’io abbia trovato Dio e la libertà di Dio, potrò ben fare tutto quel che voglio. Essi non comprendono bene queste parole. Finché tu sei capace di compiere alcunché contro Dio e il suo comandamento, tu non hai l’amore di Dio; potrai solamente fingere di averlo ». Eckhart é convinto che l’anima che approfondisca sé stessa proprio fino alle radici, v’incontri anche la perfetta moralità, e che in quelle profondità ogni comprensione puramente logica, ogni azione nel senso solito della parola, finisca, mentre s’ inizia un ordine affatto nuovo della vita umana. « Infatti, tutto quanto l’intelletto può comprendere e il desiderio desiderare, non é Dio. Dove l’intelletto e il desiderio finiscono, là é buio, là risplende Iddio. Là si espande nell’anima quella forza che é più ampia dell’ampio cielo... La beatitudine del giusto e la beatitudine di Dio sono una sola beatitudine, poiché il giusto é beato là dove Dio é beato ».