«Mi domandate come è cominciato Commerce... Un giorno Valéry disse improvvisamente: Perché non potremmo continuare le nostre riunioni pubblicando, in una rivista, i nostri dialoghi? Come titolo suggerisco “Commerce”, commercio delle idee. Questa idea incantò tutti i presenti. I direttori (Larbaud, Valéry, Fargue) furono designati immediatamente. Adrienne Monnier e io stessa ci incaricammo di mettere tutto in moto e cominciammo subito». Così scriveva Marguerite Caetani, nata Marguerite Gilbert Chapin, americana arrivata in Europa nel 1902, sposata con Roffredo Caetani, Principe di Bassiano. A Parigi la chiamavano «la Principessa», lei si firmava Marguerite Caetani.
Fra i tre immediati direttori, Valéry era l’autorità, Fargue uno scrittore ammirato soprattutto da altri scrittori, Larbaud un traghettatore mercuriale ovunque si parlasse in un certo modo di letteratura (Svevo e Joyce ebbero modo di testimoniarlo).
Né Marguerite Caetani, che avrebbe finanziato «Commerce», né i tre direttori avevano alcunché da proclamare. Non si pose mai la questione di stilare un programma della rivista, come non si pone mai in una conversazione fra amici, magari distanti e occasionali.
Quando il primo numero non era ancora uscito, Valéry scriveva a Larbaud: «Ricevo a Roma la vostra stimatissima del 12 che mi rituffa un po’ nell’atmosfera dei nostri pranzi, irregolari ma amabili. Il frutto di quelle riunioni è Commerce ... La cosa seccante è scrivere... Mi sarebbe molto piaciuto che fondassimo una rivista dove non ci fosse bisogno di scrivere. Vi rendete conto dei vantaggi che ci sarebbero! Lettore, autore, tutti contenti.
«Senza spingersi così avanti nella perfezione del genere, si sarebbe potuto realizzare quel che avevo ideato quando avevo 23 anni e la fobia del portapenna.
«Volevo fare una rivista da 2 a 4 pagine.
«Titolo: L’Essenziale.
«E nient’altro che idee, in 2 o 3 righe.
«Null’altro che il magro...
«Si sarebbe potuto firmare con le iniziali, per economia...».
Il nome di Marguerite Caetani non comparve mai nei ventotto numeri di «Commerce». Marchio della rivista era una antica bilancia romana, la cui immagine appariva nel controfrontespizio del primo numero, sotto l’indicazione della tiratura (1600 copie). Riconoscere il giusto peso: era il presupposto essenziale per la rivista. Tutto ciò che non lo possedesse andava scartato.
Rimane da ricordare, e da capire, che cosa furono le riviste (si intendano quelle che hanno i dorsi, perciò non assimilabili a generici periodici, come è invece il caso per la «New York Review of Books», il «New Yorker» o il «Times Literary Supplement»). Questione ormai retrospettiva, perché le riviste letterarie appartengono a quelle non poche forme che si sono dileguate negli ultimi cinquant’anni. La loro epoca aurea, ormai è chiaro, fu tra le due guerre, con prodromi notevoli negli anni a cavallo del secolo («La Revue Blanche», «The Yellow Book», «Die Insel»).
Marguerite Caetani era troppo elegante per non schivare come la peste ogni sembianza di matronato letterario. Era una Guermantes, non una Verdurin. Anche per questo è generalmente sfuggita all’attenzione dei tanti universitari, grezzi e rapaci, che continuano a riempirsi la bocca di «modernismo» e «avanguardia». Marguerite Caetani non veniva segnalata dal loro modesto radar. Anche per questo è stato scritto poco di significativo su di lei. Tanto più spicca, in compenso, il magnifico ritratto di Marguerite (o Margherita, come lì viene chiamata) che ci ha lasciato Elena Croce in Due città.
Ritratto che si riferisce agli anni italiani di Marguerite Caetani, quando, fra il 1948 e il 1960, dirigeva «Botteghe Oscure», approdo agognato dagli expatriates anglo-americani dell’epoca, rivista comunque eccellente, che però dà il senso di un tracollo già avvenuto – ed è inevitabile leggere come una versione di «Commerce» in colonia. Per constatarlo, basta mettere accanto una copia di «Commerce» e una di «Botteghe Oscure». Confronto in tutto sfavorevole a «Botteghe Oscure»: peggiore la qualità della carta, meno felici il formato e lo specchio di pagina, troppo numerosi i collaboratori (fu il vizio principale della rivista, che rischiava di sconfinare nelle plaghe del velleitario). Eppure, come osservò Citati in un’intervista, «“Botteghe Oscure” ... è stata la più bella rivista letteraria italiana di quel tempo, infinitamente più bella di “Politecnico”, “Paragone” ecc. ecc., che sono molto più noti».
Georges Limbour scrisse un’Ode all’indice di «Commerce», che cominciava con «Artaud» e finiva con «Zen». Era questo il prodigio peculiare di «Commerce»: in quell’indice quasi tutti i nomi suonano, dicono ancora qualcosa.
O per lo meno incuriosiscono. Lo stesso non vale per «Botteghe Oscure», dove in certe zone si scorre l’indice dei nomi come in un elenco telefonico (gli scrittori pubblicati erano più di 700, in cinque lingue). In mezzo, c’era stata la fine del momento aureo, di cui nessuno si rendeva conto che tale fosse. L’idea stessa di rivista letteraria si era sfilacciata. E già «Botteghe Oscure» si presentava più come un almanacco semestrale che come una rivista.
«Regale»: parola usata da Elena Croce, generalmente spartana nell’aggettivazione, per definire Marguerite Caetani. Precisando che «Margherita aveva occupato da sola il proprio ruolo quasi di regnante», in parallelo all’altro possibile sovrano nella geografia mondana dell’Italia ormai remota e pressoché indecifrata dei primi anni del dopoguerra: Bernard Berenson, a cui la legava un’amicizia che era «quasi l’emblema della concordia discorde». Sapevano pungersi amabilmente. Berenson diceva di lei: «Cerca sempre un nuovo arte più brutto di quello di prima», toccando il punto più sensibile dell’amica, che viveva sempre nell’«attesa di un nuovissimo “nuovo”».
Berenson, invece, ebreo lituano emigrato in America e magistralmente mimetizzato nella Boston più waspish, diceva di se stesso: «Ho speso troppo del mio tempo e denaro per fare di me un gentleman» – e non era disposto in alcun modo a recedere da ciò che aveva conquistato. Mentre Marguerite Caetani era cresciuta in quella Boston e non aveva dovuto fare alcuno sforzo di ascesa sociale. Negli anni di «Botteghe Oscure», quando un amico le osservò che il titolo della rivista avrebbe potuto prestarsi a equivoci, perché Botteghe Oscure – per un orecchio italiano – significava la sede del partito comunista ben più che l’indirizzo del palazzo Caetani, la risposta fu: «Ma noi abitiamo qui da mille anni».
Anche se si assentava rigorosamente da ogni contatto con il mondo ogni mattina, per scrivere i suoi Cahiers fra le cinque (o le quattro) e le sette, quando cominciavano a farsi sentire lievi rumori domestici, Valéry era pur sempre un sommo stratega letterario e sapeva perfettamente che legare il suo nome a una rivista era un’operazione molto delicata e carica di conseguenze. Come testimonia, nella sua piena lucidità, la lettera che scrisse a Marguerite Caetani nell’aprile 1924, due mesi prima che andasse alle stampe il numero iniziale di «Commerce»: «Se avessi potuto assistere alle sedute del Comitato segreto, avrei chiesto che il nostro piano venisse precisato, e che fossero prese tutte le disposizioni per distinguere assolutamente questa pubblicazione da tutte le riviste possibili. Perché oggi c’è un numero tale di riviste che non occorre certo aggiungerne un’altra.
«L’essenziale sarebbe acquisire una autorità, occupando nel Mondo delle Lettere, o nei confini di questo orribile mondo, una posizione strategica singolare, – quella delle persone dallo spirito assolutamente libero, che non devono più farsi conoscere e sparare colpi di pistola sui lampioni, e che d’altra parte non sono legate a un qualche sistema ... Penso che avremo tempo di riparlarne al mio ritorno, fra qualche settimana. Farò del mio meglio per darvi una Lettera, sulle Lettere, come è vostro desiderio, anche se non so dove trovare il tempo per scriverla, considerando gli impegni (che non assolvo), le seccature, ecc.
«Non credo che si debba annunciare la rivista sulla stampa con gran chiasso e definirla in partenza. Sono dell’idea che non sia utile menzionare i nomi dei “direttori” in copertina... La mia idea sarebbe che non dovremmo avere l’aria di essere rivolti verso il pubblico, e come se fossimo in piedi su un palcoscenico. Ma che sembriamo trovarci fra noi, con il pubblico autorizzato a guardare dalla finestra... Ma tutto questo richiederebbe una discussione a voce e la presenza reale – Vi bacio le mani, cara Principessa, incaricandovi di trasmettere tutti i miei sentimenti romani al Principe – e ricordarmi a Fargue, Larbaud, Léger – se vi capita di vederli in questi giorni».
Apriamo il primo numero di «Commerce» e leggiamo l’indice: Valéry, Lettre; Fargue, Épaisseurs; Larbaud, Ce vice impuni, la lecture; Saint-John Perse, L’amitié du Prince; Joyce, Ulysse – Fragments. I primi tre testi sono dei direttori; il quarto è del poeta residente (e costante consigliere) della rivista; il quinto è l’unica apertura al mondo esterno del «Comitato segreto». Ma è l’Ulisse di Joyce – e potrebbe anche bastare.
Osserviamo ora che cosa sta al primo posto, usualmente riservato ai programmi, ai manifesti, alle dichiarazioni di intenti: la posizione di tutto ciò che può esserci di più pubblico e dichiarato ai quattro venti. Qui invece troviamo la forma più intima, riservata e segreta: una lettera. Che corrisponde a quella Lettera, sulle Lettere preannunciata da Valéry a Marguerite Caetani. Ma decurtata della precisazione «sulle Lettere». Perché? E a chi è rivolta la lettera? Si potrebbe pensare a Marguerite Caetani stessa, visto che quella lettera era stata richiesta da lei. Ma tre anni dopo vediamo riapparire quel testo, ora con il titolo Lettera a un amico, in una edizione ampliata di Monsieur Teste. Dunque il destinatario era appunto Monsieur Teste, antenato totemico, emblema e cifra di Valéry stesso. E Monsieur Teste era l’esemplare – unico per definizione – di un solipsismo estremo. Scrivere una lettera a lui significava dialogare all’interno della sua testa. Era un compito del suo doppio. Già da tutto questo si capisce che la Lettre in apertura di «Commerce» era un campione di drammaturgia mentale, genere letterario inventato e praticato da un solo autore: Valéry, appunto – sul presupposto di Mallarmé.
Al tempo stesso la Lettre, attraverso una via ritorta e speciosa, è anche – se la leggiamo nella rivista – l’equivalente di una dichiarazione programmatica, rivolta al «Mondo delle Lettere», a quell’«orribile mondo» sui cui confini «Commerce» avrebbe dovuto occupare «una posizione strategica singolare».
Ma come desumerlo? La Lettre si presenta come scritta in treno, in un lungo viaggio notturno verso Parigi. Il rumore di rotaie, bielle e pistoni si mescola a un incessante lavorio mentale. È il «metallo che forgia il cammino nell’ombra» – e ne consegue che «il cervello, sovreccitato, oppresso dalle sevizie, da solo, e senza saperlo, genera necessariamente una letteratura moderna...». Questo serve per tenere a distanza tutti gli avanguardismi che sparano revolverate contro i lampioni.
Ma il bersaglio più importante è un altro: a mano a mano che il treno si avvicina a Parigi, la città dove «la vita verbale è più potente, più differenziata, più attiva e capricciosa che in ogni altra», il «duro mormorio del treno» sembra trasformarsi nel «ronzio di un alveare». Non è solo il Mondo delle Lettere che si profila, ma l’intero «bazar occidentale degli scambi dei fantasmi». E finalmente appare quello che è il vero bersaglio di Valéry: «L’attività che viene definita intellettuale». A questo punto si avvia un gioco fulmineo tra persiflage e sarcasmo. Valéry pretende, con assoluta gravità, di non sapere che cosa significa la parola «intellettuale» (come aggettivo). E si giustifica con il suo interlocutore: «Lei sa, caro mio, che sono una mente della specie più tenebrosa».
Un’improvvisa chiarezza, invece, si spande quando si parla di intellettuali come sostantivo. Sono i fedeli dell’opinione: «Uomini quasi immobili che provocavano grandi sommovimenti nel mondo. O uomini molto animati, che agitando vivacemente le loro mani e le loro bocche manifestavano potenze impercettibili e oggetti invisibili per loro essenza... Questo sistema di atti strani, di produzioni e di prodigi aveva la realtà onnipotente e inconsistente di una partita a carte». A poco a poco, si precisava una allucinazione demoniaca, dove l’estensore della lettera riconosceva di sentirsi catturato come in una ragnatela. Ma al tempo stesso lasciava intendere che non si poteva esserne mai abbastanza distanti e separati. Ed era appunto questa l’intenzione, opportunamente camuffata, su cui doveva fondarsi «Commerce».
La Lettre inaugurale di Valéry in «Commerce» potrebbe valere come apologo per significare che certe pagine, apparse in una rivista in un certo giorno e in una certa compagnia, hanno sempre un significato diverso da quello che assumono all’interno di un libro. Chi legge oggi la Lettre, diventata Lettre d’un ami, all’interno dell’edizione definitiva di Monsieur Teste difficilmente potrà cogliere la funzione altamente strategica verso il mondo circostante che quel testo ebbe un giorno dell’estate 1924, quando apparve in testa al primo numero di «Commerce». Anche a questo sono servite le riviste: a moltiplicare e complicare i significati.
Il momento è, per una rivista, una variabile capitale. Mentre avviene il viaggio notturno di Valéry verso Parigi, Breton sta scrivendo il Manifeste du surréalisme. L’esordio di «Commerce» è nell’agosto 1924, mentre il Manifeste apparirà in ottobre – e in dicembre il primo numero della «Révolution Surréaliste». Le copertine delle due riviste sembrano appartenere a mondi incompatibili: «Commerce» con il suo tenue beige, il titolo lapidario, senza specificazioni, accompagnato soltanto da data e luogo di stampa; «La Révolution Surréaliste» in un vistoso color arancione, con tre foto di gruppo, i membri della «centrale surrealista» fotografati da Man Ray, come in una foto di scuola, quindi i nomi di una ressa di collaboratori nel sommario e in mezzo una frase squillante: «Bisogna arrivare a una nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo», a cui nulla corrispondeva in quel primo fascicolo. Péret, uno dei due direttori, aveva voluto che la grafica somigliasse a quella di una rivista di divulgazione scientifica: «La Nature». La tipografia era usata soprattutto per pubblicazioni cattoliche.
Si direbbe: due mondi remoti, che ben poco accomuna. Eppure, a partire dal Quaderno II di «Commerce», i testi – fra i non molti – importanti dei surrealisti vengono accolti: Aragon, Une vague de rêve (Quaderno II), che è anche un resoconto della nascita del surrealismo; Breton, Introduction au discours sur le peu de réalité e Nadja (Quaderni III e XIII), includendo anche i reprobi: Artaud, Fragments d’un journal d’enfer (Quaderno VII) e i divergenti: Daumal, Poèmes (Quaderno XXIV). Visti retrospettivamente, si direbbe che siano testi filtrati attraverso una rete a maglie strette, nonché fra i pochi ancora vivi nella pletora in larga parte vacua degli scritti del gruppo. Il surrealismo era una spezia che si aggiungeva al mercato di «Commerce», depurata di scorie e di ogni velleità di sparare ai lampioni.
Che cosa accadeva in quel 1924? Secondo Aragon, che ne fu il cronista insieme visionario e accorto, quell’anno fu travolto da «un’onda di sogno»: «Sotto questo numero [1924] che tiene una rete e si trascina dietro una massa di pesci luna, sotto questo numero ornato di disastri, con strane stelle fra i capelli, il contagio del sogno si diffonde per quartieri e campagne». Così si spiegava il fatto che «La Révolution Surréaliste», al suo esordio simultaneo alla stampa del testo di Aragon su «Commerce», avrebbe puntato tutto, anche nel modo più puerile, su questa parola: rêve, rêve, rêve – come se ripeterla ne esaltasse il potere.
Ma anche Aragon era uno scaltro stratega – e subito stilò una lista dei «Presidenti della Repubblica del sogno» dove – accanto a Raymond Roussel, all’attentatrice anarchica Germaine Berton, a Picasso, a De Chirico, a Freud – si incontravano i nomi di Léon-Paul Fargue e di Saint-John Perse, soci fondatori del «Comitato segreto» di «Commerce». Anche se surrealisti, i letterati non dimenticano le loro antiche maniere.
C’era dunque, sin dall’inizio, una circolazione sottocutanea, fra «Commerce» e «La Révolution Surréaliste», nel momento stesso in cui si avviavano. La prova? La frase sui «diritti umani», che troneggiava al centro della copertina della rivista surrealista, era ripresa dalla Vague de rêve di Aragon, che nello stesso autunno appariva su «Commerce», trovando soltanto lì un accenno di spiegazione: «Tutto ciò che di speranza ancora rimane in questo universo disperato rivolgerà verso la nostra risibile bottega i suoi ultimi sguardi deliranti: “Si tratta di arrivare a una nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo”». Per arrivare a quella «nuova dichiarazione» la via doveva essere davvero lunga, perché non se ne è saputo più niente.
Per due sere, nel gennaio del 1928, quindici surrealisti si riunirono per condurre Ricerche sulla sessualità, i cui risultati sarebbero apparsi due mesi dopo, con lo stesso titolo e sotto forma di conversazione a più voci, nel numero XI della rivista del gruppo: «La Révolution Surréaliste».
La conversazione fu avviata da Breton con una domanda: «Un uomo e una donna fanno l’amore. In quale misura l’uomo si rende conto del godimento della donna? Tanguy?». Antico quesito. Risposte perplesse. Tanguy: «In molto scarsa misura». Intervengono altre voci. Breton pilota e giudica: «Naville considera dunque che materialmente il godimento della donna e quello dell’uomo, nel caso in cui avvenissero simultaneamente, potrebbero tradursi nell’emissione di fluidi seminali confusi e indiscernibili?». Naville conferma. Breton replica: «È impossibile constatarlo, a meno di intrattenere con una donna rapporti verbali quanto mai discutibili».
Nulla di più viene specificato: non sapremo mai che cosa sono questi «rapporti verbali quanto mai discutibili». Si passa poi all’omosessualità (qui chiamata pederastia). Sulla quale Queneau osa dire che non ha «alcuna obiezione morale». Proteste. Pierre Unik dichiara: «Dal punto di vista fisico, la pederastia mi disgusta allo stesso modo degli escrementi e, dal punto di vista morale, la condanno». Queneau ribatte che ha osservato «fra i surrealisti un singolare pregiudizio contro la pederastia». A questo punto è d’obbligo un intervento di Breton, per mettere le cose a posto: «Accuso i pederasti di proporre alla tolleranza umana un deficit mentale e morale che tende a erigersi in sistema e a paralizzare tutte le imprese che rispetto. Faccio qualche eccezione, una fuori categoria a favore di Sade e una, più sorprendente per me stesso, in favore di Lorrain». Dubbi su queste eccezioni: «Allora perché non i preti?». Breton precisa: «I preti sono gli uomini più opposti a istituire questa libertà dei costumi».
E si procede, fra sobbalzi. Prévert dice che non sarebbe interessato a far l’amore in chiesa, «per via delle campane». Péret, sempre estremo, dice: «Non penso che a questo e ho una gran voglia di farlo». Breton concorda e specifica: «Desidererei che ciò comportasse tutte le raffinatezze possibili». Péret svela allora come intenderebbe agire: «In quell’occasione vorrei profanare delle ostie e, se possibile, deporre escrementi nel calice». Ma su questo Breton non si pronuncia.
Si passa ad altro. Si constata che «la bestialità non interessa nessuno». Breton riprende in mano il gioco, chiedendo: «Per voi sarebbe piacevole o spiacevole far l’amore con una donna che non parla francese?». Péret e Prévert non obiettano, anzi. Ma Breton sentenzia: «Insopportabile. Ho orrore delle lingue straniere».
Tutto questo – e altro – nella prima serata. Si potrebbe facilmente continuare con la seconda, che seguì quattro giorni dopo. Ma il punto rimarrebbe lo stesso: certe cose si scoprono soltanto se si fa una rivista.
A distanza di quasi un secolo, non si può evitare di dire quanta parte ha l’incresciosa affettazione lirica di tutti i surrealisti in ciò che scrivevano allora, come se un opaco diaframma gli impedisse di riconoscere l’infantilismo delle loro immagini traboccanti, nonché delle loro scomposte aspirazioni – un Kindergarten ai bordi di un carnaio, da cui erano da poco usciti, mentre un altro si stava preparando.
T.S. Eliot, che era cugino di Marguerite Caetani, avviò «The Criterion» in una situazione opposta a quella parigina. Per lui, a Londra non c’erano troppe ma troppo poche riviste letterarie, soprattutto se con un tratto cosmopolita.
La prima persona a cui si rivolse fu – non meraviglia – Valery Larbaud: «Sto avviando una nuova rivista trimestrale e le scrivo sperando di ottenere il suo appoggio. Sarà piccola e modesta di aspetto, ma credo che il suo contenuto sarà quanto di meglio a Londra ... Di fatto, come lei sa, qui non c’è nessun periodico di tendenza cosmopolita a livello internazionale». Il primo testo che Eliot chiedeva era la conferenza di Larbaud su Joyce.
Il giorno dopo, Eliot scriveva a Hesse per chiedergli «una o due delle parti di Blick ins Chaos». E aggiungeva: «Lei non mi conosce: mi presento come collaboratore del Times Literary Supplement» nonché «corrispondente inglese della Nouvelle Revue Française»; infine, come «autore di vari volumi di versi e di un volume di saggi».
Anche «The Criterion» aveva una dama protettrice, Lady Rothermere, che Ezra Pound disapprovava (come per altro spregiava tutto il resto dell’Inghilterra): «Ricordati che non so nulla di Lady Rothermere, salvo che, dato il suo nome, sembra essersi sposata in una famiglia non interessata alla buona letteratura. Io sono interessato alla civiltà, ma non riesco a vedere nulla in Inghilterra che abbia a che fare con una qualche civiltà futura». Peccato che nella stessa lettera Pound indicasse come «vera voce dell’Inghilterra» il «Morning Post», quotidiano che attribuiva ogni sorta di mali a complotti giudaici.
Quando, nel gennaio del 1926, «The Criterion» divenne «The New Criterion», passando dall’amministrazione di Lady Rothermere a quella di Faber & Gwyer, Eliot sentì che gli spettava mostrare le carte e scrisse un saggio che esordiva con queste parole: «L’esistenza di una rivista letteraria richiede più che una parola di giustificazione».
Disobbedire al Never explain di Disraeli è raramente propizio – e non lo fu neppure in questo caso. Come uno scolaro diligente, Eliot si avviò subito per la strada del buon senso. I collaboratori non devono essere troppi, ma neppure troppo pochi. Un altro errore da evitare consisterebbe nell’«includere troppo materiale o rappresentare troppi oggetti di interesse che non sono strettamente letterari o per contro rimanere attaccati a una concezione angusta della letteratura». Non ci deve essere un «programma», ma piuttosto una «tendenza». Gli autori devono condividere quella tendenza, ma neppure andar troppo d’accordo.
Fin qui, difficile obiettare. Tuttavia l’atteggiamento equanime e assennato mostra subito qualche crepa. Intanto si fa notare un fendente di sbieco a «Commerce», pur non nominato, che apparterrebbe al genere della «rivista miscellanea», e perciò condannabile, mentre la rivista che ha in mente Eliot «dovrebbe essere un organo di documentazione. Vale a dire che i volumi rilegati di un decennio dovrebbero rappresentare lo sviluppo della sensibilità più acuta e del pensiero più lucido di dieci anni».
A questo punto diventa sempre più chiaro che Eliot non regge più al ruolo di equilibrato regista, ma gli preme soprattutto il contrario, mostrare con nettezza da quale parte sta – e soprattutto chi non vuole nella sua rivista: «Credo che la tendenza moderna sia verso qualcosa che, in mancanza di un nome migliore, potremmo chiamare classicismo». Tendenza che, sotto quel goffo e inappropriato nome, non era certo della modernità, ma di Eliot stesso, in quel momento della sua vita.
Ma non bastava. Bisognava dichiarare chi si voleva seguire. E qui, con improvvisa ingenuità, Eliot traccia due liste, dei buoni e dei cattivi. I cattivi sono i progressisti umanitari: H.G. Wells, G.B. Shaw, Bertrand Russell. Gioco piuttosto prevedibile. Ma chi sono i buoni? Si scopre che i primi due libri approvati sono le Réflections sur la violence di Georges Sorel e L’avenir de l’intelligence di Charles Maurras (gli altri libri segnalati con approvazione erano di Benda, Hulme, Babbitt). Il nome dirimente è uno solo: Maurras, perché Maurras significava l’Action française, quindi una versione assai peculiare del «classicismo» propugnato da Eliot. In apertura di Barbarie et poésie, che era apparso pochi mesi prima, si leggeva: «Abbiamo dovuto aggiungere alla critica letteraria l’azione sulla piazza pubblica. A chi darne la colpa? Non dipendeva da nessuno che il regno barbaro si stabilisse al di fuori dello Spirito, nella struttura stessa della Città. Il Barbaro in basso, il Barbaro dell’Est, il nostro Demos affiancato dai suoi due amici, il Tedesco e l’Ebreo, fecero pesare un giogo ignobile sull’intelligenza della patria». Quanto all’Ebreo, «la parola giusta sembra che sia stata detta in un famoso incontro fra Catulle Mendès e Jean Moréas: – Prendere Heine per un Francese! Diceva l’Ebreo scandalizzato. – Non ha nulla di francese, replicava l’Ellenico, deliziato. – Ma, osservava Mendès, non è neppure Tedesco! – La verità..., cominciò, esitando un po’, Moréas. – Il fatto è che è Ebreo, lanciò Mendès. – Non osavo dirvelo, rispose Moréas».
Eliot non si proponeva certo, come Maurras, di «aggiungere alla critica letteraria l’azione sulla piazza pubblica». Ma, per quanto riguardava gli Ebrei, risulta che concordasse con Maurras. Per parte sua, Valéry, che Eliot considerava una «mente profondamente distruttiva, perfino nichilistica» (ma questo non gli impediva di pensare che fosse «il simbolo del poeta nella prima parte del Ventesimo secolo – non Yeats, non Rilke, né alcun altro»), Valéry appunto avrebbe continuato a pilotare le sorti del miscellaneo «Commerce» senza cadere nella trappola della presa di posizione. Anche il «classicismo» non era formula adatta per lui. Tuttavia «The New Criterion», sino alla sua fine nel 1939 (quando la presa di posizione diventò un fatto obbligato), continuò a «illustrare, nei suoi limiti, l’epoca e le sue tendenze».
Ci si può chiedere quando e come è apparso quel personaggio numinoso e ominoso che fu la donna surrealista. Un punto di partenza si trova alla pagina 17 del primo numero di «La Révolution Surréaliste»: una sequenza di piccole foto quadrate di ventotto giovani uomini, in ordine alfabetico. Al centro, più grande e sempre in formato quadrato, la foto di una donna senza nome. In basso si legge, in corsivo: «La donna è l’essere che proietta l’ombra più grande o la più grande luce nei nostri sogni. Ch. B.», vale a dire Charles Baudelaire, primo fra i veggenti.
Chi sono i ventotto uomini? I surrealisti del momento, uniti a tre loro alti protettori: Freud, De Chirico, Picasso. Al secondo posto, nella sequenza, Artaud «bello come un’onda, simpatico come una catastrofe», secondo Simone Kahn, moglie di Breton. E poi Crevel, «il più bello fra i surrealisti»; Carrive, il più giovane fra i surrealisti (ha 16 anni); verso il fondo Man Ray e Savinio.
Ma chi è la donna al centro, in una foto segnaletica della polizia? Sguardo melanconico e trafittivo. È Germaine Berton, oggi definita nelle enciclopedie «operaia, sindacalista, anarchica». Il 22 gennaio 1923 aveva ucciso con un colpo di pistola Marius Plateau, nella sede dell’Action française, di cui era segretario. Ucciso per sbaglio. L’attentatrice mirava a qualcuno di più importante, Maurras o Léon Daudet – entrambi capi politici, ma in origine influenti letterati.
Durante il processo per l’assassinio, Aragon scrisse, per difendere l’imputata, che era legittimo «ricorrere ai mezzi terroristici, in particolare all’assassinio, per salvaguardare, con il rischio di perdere tutto, ciò che appare – a torto o a ragione – prezioso al di là di tutto al mondo». Germaine Berton venne assolta e nel 1924 si dedicò a una serie di conferenze, che furono tumultuose e provocarono un suo nuovo arresto. Non molto si sa della sua vita successiva, fino al suicidio nel 1942.
L’astro della donna surrealista sorgeva con un alone di sangue e di morte. Ma c’era anche una alternativa, nell’immagine. Sempre nel primo numero della «Révolution Surréaliste», già alla pagina 4 era riprodotta la magnifica foto scattata da Man Ray del torso nudo e acefalo di Lee Miller, zebrato di ombre. La donna surrealista sarebbe stata composta dallo sguardo allarmante di Germaine Berton e dal torso riconoscibile di Lee Miller.
Il 15 ottobre del 1924 si concluse la stampa del Manifeste du surréalisme di Breton e tre giorni dopo appariva un pamphlet a più voci, intitolato Un cadavre, con un testo di Breton.
Che cos’era accaduto nel frattempo? Il funerale di Anatole France. Janet Flanner, la cronista più efficace e più chic di quegli anni a Parigi con le sue cronache per il «New Yorker», annotò: «Ricordo che durante le esequie di Anatole France, la prima di queste cerimonie solenni che abbia mai visto, il corteo funebre venne seguito per le strade da un gruppo di Surrealisti irridenti, che disprezzavano la sua popolarità e il suo stile letterario e gridavano insulti in memoria di lui (“Un cadavre littéraire!”) all’unisono, a ogni passo del cammino. È stata forse la prima delle loro sadiche manifestazioni per strada e venne considerata uno scandalo, dato che Parigi da lungo tempo era nota per il grande apprezzamento che riservava alle figure intellettuali».
Breton partecipò al pamphlet surrealista con un breve testo di cui doveva essere fiero, se lo riprese in Point du jour, e dove si leggeva che innanzitutto l’anno 1924 poteva considerarsi felice perché aveva visto la morte di Loti, Barrès e France: «L’idiota, il traditore e il poliziotto». Ma non bastava: «Con France se ne va un po’ di servilità umana. Che sia una festa il giorno in cui si seppellisce l’astuzia, il tradizionalismo, il patriottismo, l’opportunismo, lo scetticismo, il realismo e la mancanza di cuore! Ricordiamo che i più vili commedianti del nostro tempo hanno trovato in Anatole France un compare e non gli perdoniamo di aver agghindato con i colori della Rivoluzione la sua inerzia sorridente. Per rinchiudervi il suo cadavere, che si svuoti – se si vuole – una di quelle baracche dei quais di quei vecchi libri “che amava tanto” e si getti il tutto nella Senna. Da morto, quest’uomo non dovrà più produrre altra polvere». Nella storia assai composita delle avanguardie forse non è stato mai toccato un punto di pari bassezza.
Alla gazzarra surrealista per i funerali di Anatole France fa da contrappunto, cinque anni dopo, in chiusura di decennio e di un intero modo di vita, il silenzio alle esequie di Hofmannsthal, forse l’unico scrittore che avrebbe potuto essere definito europeo, fra i tanti che lo pretendevano. Rudolf Kayser ne affidò il resoconto a «Bifur», che aspirava a rivaleggiare con «Commerce»: «Assistevamo ai funerali di Hugo von Hofmannsthal. In una piccola chiesa barocca di paese, eravamo lì, neri e silenziosi davanti a quella bara, intorno alla quale funebri e gravi regnavano l’incenso, la musica, il cattolicesimo. Poi uscimmo in una giornata torrida di estate. Il poeta morto e l’amico ci guidavano, piccolo corteo di uomini vestiti di nero. Ma sui bordi il popolo era schierato, c’erano migliaia di uomini, donne, bambini che si riversarono con noi nel cimitero. Non sapevano nulla di lui, null’altro che il suo destino e il suo nome. Sul bordo della fossa, accanto ai sacerdoti, c’erano alcuni operatori che filmavano. Questo fu il nostro addio».
Che cosa succedeva prima che la parola «rivoluzione» – al momento irresistibile – si imponesse nel titolo e alla fine esigesse di essere servita («Le Surréalisme au service de la Révolution» è del 1929)? Succedeva «Littérature»: rivista mensile, primo numero nel marzo 1919, una grafica non memorabile, titolo sottolineato, poesie in corsivo, prose in tondo. Con il senno di poi, Breton pretendeva che il titolo doveva essere inteso «per antifrasi e in uno spirito di derisione». Dopo la scossa di Dada, appena arrivato da Zurigo, nulla poteva essere trattato con obbligato rispetto – e in primo luogo la letteratura.
Ma così non era. Anzi: qui tutto ha l’aria di un accorto conciliabolo fra poteri acquisiti e poteri emergenti, fra notabili e nuove leve. Basta scorrere i nomi nell’indice del primo numero: Gide, Valéry, Fargue, Salmon, Jacob, Reverdy, Cendrars, Paulhan, Aragon, Breton. Sono tutti lì, quelli che avrebbero continuato a esserci ancora per vent’anni, nemici e amici, seniores e sovversivi, neoclassici e presurreali. E c’è un gioco sapiente nelle precedenze. In testa a tutti, Gide e Valéry, che erano ormai nomi assestati. Poi gli altri in ordine sparso, fino a Breton, che già aspirava a reggere il gioco. Ed è sconcertante leggere il numero di seguito, senza saltare nulla. All’inizio, Gide esibisce frammenti delle nuove Nourritures terrestres, con un’epigrafe in grassetto, imperiosa, che rimarrà cara ai cultori del bonheur, ideale motto per i G.O. a venire: «Que l’homme est né pour le bonheur, / Certes toute la nature l’enseigne». Poi il Cantique des colonnes di Valéry, che suona ormai passabilmente vacuo.
Ma proviamo a scorrere il resto – e a poco a poco si conferma una sensazione imbarazzante: è come se tutto fosse tracciato da una stessa mano – una mano che non spiccava per il talento. Anche Fargue o Cendrars, che difficilmente si lasciavano confondere con altri, risultano appiattiti, smussati, come avessero indossato un’uniforme d’ordinanza. Tutti sono accomunati da un uso improvvido di immagini affastellate e dall’incapacità di precisare di che cosa stanno parlando. A distanza di un secolo esatto, poco rimane di quella «Littérature» che si faccia leggere. Mentre colpisce ancora l’aspetto diplomatico: la foto di gruppo, momentanea convergenza di certi nomi che si sarebbero presto spartita la scena, con un ben dosato gioco di scambi, inclusioni ed esclusioni.
La regola del buon vicino non si applica soltanto alle biblioteche, ma alle riviste. Anzi, può essere un criterio per saggiarne la natura o la qualità. Ogni numero di una rivista può essere osservato come un tutto, dove voci diverse si intersecano e sovrappongono all’interno di un paesaggio precostituito, con le sue siepi, vialetti, fontane e zone selvatiche.
E, a distanza di tempo, la fisionomia dei luoghi può anche trasformarsi radicalmente, come in un gioco beffardo. «Littérature», che alcuni dei suoi autori ritenevano un’impresa azzardata e dissestante, si rivelava alla fine una raccolta di blandi testi lirici, dove il coefficiente di novità risultava pressoché inerte e soprattutto stucchevole.
Era l’epoca delle plaquettes, quei libri sottili, non superiori alle cento pagine, talvolta inferiori alle cinquanta, spesso eleganti nella grafica, stampati in poche copie, generalmente numerate, da editori che solo a quello si dedicavano (Au Sans Pareil, K, GLM, L’Âge d’Or, fra gli altri), un pulviscolo aleggiante intorno ai libri normali, che si trovavano sui banchi di tutte le librerie. Gli autori potevano essere autori di varie plaquettes e di nessun libro. C’erano già i collezionisti – di plaquettes e di autografi. Max Jacob veniva sorpreso a copiare con diligenza e in vari esemplari certe sue poesie, che dovevano poi essere offerte come versioni originali ad alcuni amatori in attesa. E si cercavano soprattutto i grands papiers, le rare copie in carte speciali. Fu quello l’ultimo periodo di un’editoria parallela e morganatica, di cui vissero a lungo vari antiquari del nuovo, nelle cui botteghe, devote al pergamino, molto c’era da scoprire. Come imbalsamate, quelle plaquettes riapparivano poi nelle vetrine della Hune, sapientemente disposte, quando – mese dopo mese, si riscopriva qualcuno, che poteva essere Artaud o Crevel o Desnos o Vaché o Cravan. Fu una lunga scia cartacea che continuò ad affiorare sino alla fine degli anni Settanta.
«Commerce» finisce nel 1932. Ma il suo modello, innanzitutto tipografico, continua a propagarsi per tutti gli anni Trenta. Il formato tendente al quadrato, il titolo allusivo e isolato sul frontespizio, la mancanza di ogni premessa, i nomi di direttori nel controfrontespizio, la mescolanza fra testi nuovi predominanti e in ogni numero qualcosa del passato, anche orientale: sono caratteri di «Commerce» che ritornano in «Bifur» e «Mesures». Come avveniva per «Commerce», sia «Bifur» sia «Mesures» punteranno anche su scrittori stranieri prima ignorati in Francia, che diventano una sorta di emblema della rivista: Gottfried Benn per «Bifur», già nel primo numero con Élément premier; Kavafis per «Mesures», introdotto dalla Yourcenar come «uno dei poeti più celebri della Grecia moderna, e purtuttavia uno dei più grandi, nonché il più sottile, e forse il più singolarmente nuovo, e al tempo stesso carico di ricchezze del passato», subito seguito, per felice combinazione, dal Monte Analogo di Daumal.
E il carattere cosmopolita si dichiara nella lista dei «consiglieri stranieri» di «Bifur»: Bruno Barilli, Gottfried Benn, Ramón Gómez de la Serna, James Joyce, Boris Pil’niak, William Carlos Williams (ma, a quanto risulta, solo quest’ultimo dava alla rivista un contributo riconoscibile). La lista è variegata e eccellente, ma essere cosmopoliti non è mai facile.
Nino Frank, il vero fabbricatore della rivista insieme a Ribemont-Dessaignes, stava pensando di passare qualche tempo a Berlino, per sue ragioni sentimentali, quando arrivò la notizia dell’incendio del Reichstag. Era un buon pretesto per farsi pagare un servizio dal «Paris Journal». Ma – Frank volle precisare – la mattina stessa della partenza «avevo già dimenticato il motivo ufficiale del mio viaggio». Si ritrovò sull’aereo come unico passeggero. A Tempelhof, lo fermarono subito per interrogarlo, bruschi e cortesi.
Berlino gli apparve come una città di uomini che «passavano, così mi pareva, senza occhi, salvo certe donne, ancora abbandonate e nervose», mentre si avvertiva un rumore di fondo: le cassette metalliche scosse dalle SA che imponevano donazioni. Prima di ripartire, Frank pensò che gli mancava ancora un’ultima visita, sempre connessa a «Bifur». Ricordava: «Qualche anno prima, un signore dignitoso e corpulento, dal cranio nudo, con gli occhi protetti da occhiali con montatura d’oro, aveva suonato da me, sempre mal disposto con gli importuni. Non riuscivamo a capirci, perché lui parlava solo la sua lingua e io tutto salvo il tedesco. Era Gottfried Benn, con il quale scambiavo lettere e con il quale, in mancanza di meglio, ci scambiammo forti strette di mano».
Frank sapeva, di Benn, che era «il solo poeta del suo paese che avesse, verso l’inizio degli anni Trenta, una qualche densità, che pubblicava poco e cose di un’incandescenza abbastanza glaciale. Intraducibili, mi spiegavano, e lo stesso si diceva, più o meno negli stessi anni, di Boris Pasternak». Invitato a casa, Frank si trovò «in una strada povera dove abitava e dove, sul portone, lessi che stavo suonando allo studio del dottor Gottfried Benn, specialista in malattie veneree. Un’infermiera mi introdusse nel suo studio, dove ritrovai, vestito con un lungo camice bianco, l’uomo dagli occhiali d’oro: le sue maniere erano amichevoli e vagamente cerimoniose e, fra un paziente e l’altro, abbiamo avuto una singolare conversazione». Frank voleva sapere qualcosa sullo stato delle cose in Germania, Benn parlava del suo «itinerario poetico». A tratti si interrompeva, «lanciandomi uno sguardo un po’ fosco, poi ricominciava a parlare di Dehmel o di Hofmannsthal ... “Pessimismo eroico” diceva in francese, con un accento laborioso. Siccome subito approfittavo per menzionare di nuovo Hitler e il Reichstag, scostava questi nomi, con un gesto un po’ irritato, poi, vedendomi colpito, accennava che era il caso di lasciar fare, accettare senza puntare i piedi, vedere se quelli lì non sarebbero riusciti a far meglio degli altri». Ma qualcosa non tornava, in quella conversazione. Allora, con «una piroetta inattesa in un personaggio così solenne», Benn si mise a parlare di gonococchi e treponemi. La sifilide, diceva, non era un grande problema, mentre la blenorragia sì. Intanto «i vetri vibravano fortemente al rombo dei motori del vicino aeroporto».
La politica premeva. Già nel dicembre 1930 Hitler era affiorato su «Bifur», in forma di refuso. «Da una parte, la moltiplicazione dei partiti borghesi e la loro disfatta, dall’altra l’espansione del movimento Hittler furono le caratteristiche delle elezioni del Reichstag»: così si leggeva nell’articolo di Weiskopf sulle ultime elezioni tedesche, in apertura del numero, prima intrusione dell’attualità nella rivista. Weiskopf era membro della Associazione degli Scrittori Proletari e il suo articolo molto probabilmente era stato imposto da Pierre G. Lévy, finanziatore della rivista, il quale da borghese abbiente e devoto del moderno, «pendeva sempre più verso il marxismo militante» (parole di Ribemont-Dessaignes). Ma al tempo stesso, nel suo impavido snobismo, aveva avviato la rivista per assimilarsi in qualche modo alla Principessa di Bassiano, che reggeva «Commerce».
Anche altri mordevano il freno, avidi di truculenze politiche. Poche righe dopo l’articolo di Weiskopf, si incontrava il venticinquenne Pierre Nizan, che si definiva «filosofo, viaggiatore e comunista» e scriveva: «Ma perché dovrei nascondere il mio gioco? Dico semplicemente che vi è una filosofia degli oppressori e una filosofia degli oppressi». Tirava ormai l’aria degli anni Trenta. Tutto suonava stridente. Era in corso una grande gara per chi riusciva a opprimere meglio, sempre in nome di qualche oppressione subita.
Il numero successivo di «Bifur» si apriva con la traduzione di Che cos’è la metafisica? di Heidegger, firmata da Henry Corbin e introdotta da Koyré con queste parole: «Nel firmamento filosofico della Germania la stella di Heidegger brilla con uno splendore di prima grandezza. Secondo alcuni non è neppure una stella ma un sole nuovo che sorge e con la sua luce eclissa tutti i suoi contemporanei». Molti e molto diversi erano i giochi simultanei.
C’era anche l’annuncio di un Grande Gioco che è ancora aperto. «“Le Grand Jeu” è irrimediabile; si gioca una volta sola. Noi vogliamo giocarlo in ogni attimo della nostra vita. E per di più a “chi perde vince”. Perché si tratta di perdersi. Noi vogliamo vincere. Ora, “Le Grand Jeu” è un gioco d’azzardo, cioè di destrezza, meglio, di “grazia”: la grazia di Dio e la grazia dei gesti». Sono parole di Gilbert-Lecomte, con cui si avvia il primo numero del «Grand Jeu», inverno 1928. Parole che sfuggono alla ragnatela surrealista. Improvvisamente appare la «grazia di Dio» – impensabile altrove – e la «grazia dei gesti». Fu questo il punto che più fece indignare Breton e Aragon, momentanee reincarnazioni di Monsieur Homais, e trasformò ai loro occhi i ragazzi del «Grand Jeu» (Daumal aveva vent’anni, Gilbert-Lecomte ventuno) da possibili alleati in sicuri reprobi. L’accusa più grave per colpire la rivista fu «un uso costante della parola “Dio” aggravato dal fatto che in uno degli articoli si precisa che si tratta proprio di un unico Dio in tre persone». Accusa a cui si aggiungeva «una frase lapidaria riguardante la preferenza data a Landru invece che a Sacco e Vanzetti».
C’era qualcosa di radicalmente divergente, già pronto per la fuga, che qui suonava. Non più la disputa letteraria – e neppure l’urto fra sette dell’avanguardia. Ma il rinvio a una «esperienza fondamentale», come la chiamerà Daumal, da cui doveva discendere tutto il resto, anche la scrittura. E ovviamente la rivista stessa.
Del «Grand Jeu» apparvero solo tre numeri e la rivista si chiuse con l’autunno del 1930.
Ma fin dalle prime righe si avvertiva un’«aria di altri pianeti». Era una rivista che si congedava dal mondo delle riviste. E in particolare si distaccava, prima ancora di esserne espulsa, dalla temperie surrealista, che ormai impregnava tutto (un tutto in larga parte coincidente con il Sixième arrondissement). Se si vuole il segnale definitivo di quel distacco, lo si può trovare in due pagine di Daumal apparse sul numero II del «Grand Jeu» con il titolo Ancora sui libri di René Guénon. Vi si leggeva che Guénon, «se parla del Veda, pensa il Veda, è il Veda». Parole che, più che descrivere Guénon, preannunciavano ciò che Daumal sarebbe stato, come interprete e traduttore di testi sanscriti, sino all’ultimo.
Ma perché finì la stagione delle riviste? Principalmente perché venne a cadere – affievolendosi, vanificandosi – l’attrazione irresistibile del nuovo. «Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau»: è sempre un verso o una frase di Baudelaire a segnare i tratti essenziali del Moderno. Il nuovo che cercava e trovava Marguerite Caetani all’inizio di «Commerce» non era lo stesso nuovo che lei stessa cercava e per di più non trovava venticinque anni dopo, agli inizi di «Botteghe Oscure». Tutti continuavano ad atteggiarsi al nuovo, ma ormai era un segno di riconoscimento mondano. E, anche quando il nuovo era stato veramente nuovo, non sempre era ciò che pretendeva. A distanza approssimata di un secolo, colpisce la zavorra del vecchio che gravava su ogni avanguardia. C’era un amalgama fra arte e snobismo che sosteneva tutto. Poi l’amalgama, a poco a poco, si disgregò. Procedevano «portando con sé il proprio cadavere sulla schiena», disse Gilbert-Lecomte, potenzialmente il più lucido fra i mutanti. Occorreva «cambiare di piano», disse Daumal, il primo che riuscì nell’impresa, dedicandosi a navigare verso il Monte Analogo. Giunti a quel punto, di riviste letterarie non si parlava più – e non occorrevano.
Ovviamente in quegli anni, fra il 1920 e il 1940, fiorivano notevoli riviste anche in altri paesi, in Germania, Inghilterra, Italia, Stati Uniti. Ma a Parigi si dava una concentrazione nello spazio che non trovava equivalenti altrove. Tutto accadeva nel recinto del Sixième, con occasionali puntate nel Septième e nel Cinquième. Si diceva che i redattori di «Bifur» non avevano che da passare ogni giorno al Flore e al Deux Magots per riempire i sommari della rivista.
Cioran raccontava che una sua amica, turbinosa e tormentosa, aveva improvvisamente lasciato Parigi e per anni non aveva dato notizie. Finalmente gli arrivò una sua lettera, dove l’amica provava a riassumere quello che era successo nel frattempo nella sua vita. Poi chiedeva a Cioran che cosa era successo a lui in quegli anni. Cioran rispose con una cartolina lapidaria: «Sono passato dal Cinquième al Sixième».
E ci furono altre diramazioni significative nelle riviste parigine degli anni Trenta. Ciascuna era una variante: antropologica (nel senso di Mauss) con «Documents» di Bataille, militante-delirante con «Acéphale», autocelebrativa del modernismo con «Minotaure» (basato con Skira a Ginevra, ma pur sempre parigino), filiazione di «Commerce» con «Mesures». Ma il concetto e il sottinteso della rivista fatta da pochi e per pochi, con ambizioni totali e illimitate, rimanevano acquisiti. Appunto questo progressivamente si perse, fino a dissolversi, dopo il 1945. Tendeva a non esserci più un tessuto comune. La letteratura si preparava a diventare ciò che sarebbe stata nel nuovo millennio: un fatto di singoli, tenacemente separati e solitari.
Nel numero 1, marzo 1964, di «Art and Literature», che si definiva «A International Review» e lo era davvero, apparve un testo di Cyril Connolly che si legge come un epicedio delle riviste letterarie (Fifty Years of Little Magazines): «Le riviste letterarie sono impollinatrici di opere d’arte: senza di esse le correnti letterarie e in fondo la letteratura stessa non esisterebbero. Gran parte della poesia di Yeats, Eliot, Pound e Auden è apparsa per la prima volta in riviste, così è stato per il Ritratto dell’artista da giovane e per l’Ulisse, per Finnegans Wake e quasi tutti i racconti di Hemingway. Una buona rivista tiene insieme gli scrittori, anche i più isolati, e li mette nella posizione di influenzare il loro tempo, e quando questo giunge al termine gli dedica un numero speciale, come degna cerimonia funebre.
«Ci sono due tipi di riviste, quelle dinamiche e quelle eclettiche. Alcune fioriscono in base a ciò che includono, altre in base a ciò che escludono. Quelle dinamiche hanno vita più breve, ed è intorno a esse che fascino e nostalgia si cristallizzano. Se durano troppo a lungo diventano eclettiche, mentre raramente accade il contrario. Anche le riviste eclettiche appartengono al loro tempo, ma non possono ignorare il passato né opporre resistenza a una buona penna di parte avversa. Un direttore dinamico guida la sua rivista come un commando di uomini scelti, addestrati ad assalire la postazione nemica. Quello eclettico invece è come il proprietario di un hotel che occupa ogni mese le sue camere con una clientela diversa.
«Per dare qualche esempio: lo Yellow Book era eclettico, il Savoy dinamico, la Little Review dinamica, il Dial eclettico, Transition dinamico, Life and Letters eclettico (così il Criterion e il London Mercury), le Soirées de Paris dinamiche, la Nouvelle Revue Française eclettica, New Verse e New Writing (fino al 1940) dinamici, Horizon eclettico, Verve eclettica, Minotaure dinamico ecc. Un direttore eclettico sente di dover preservare certi valori, rivalutare grandi scrittori, riesumarne altri. Un direttore veramente dinamico invece ignorerà del tutto il passato: la sua rivista avrà vita breve, i suoi autori saranno violenti e oscuri. L’eclettico si troverà sempre a rischio di diventare compiacente e conformista: durerà a lungo e pagherà anche meglio. La maggior parte delle riviste trimestrali sono eclettiche: hanno tante pagine e il passare del tempo sembra turbarle meno».
Ben poco ci sarebbe da aggiungere, dopo quasi sessanta anni, se non che è diventata improbabile anche l’esistenza di una testata congeniale che accolga un simile epicedio, ben fondato nei fatti, poiché Connolly aveva diretto «Horizon» fra il 1939 e il 1949, quindi negli anni conclusivi di questa breve storia che ha il vantaggio di presentarsi con un inizio e una fine ben definiti, come certi racconti di Hawthorne.