Capitolo XIX

 

 

 

 

 

La polizia indaga. È sempre difficile la scorticatio caudae. Le questioni morali: alcune si risolvono da sole, alcune le risolvono gli uomini di buona volontà, per altre, meglio lasciar stare.

 

Macbetto arrivò nelle prime ore del pomeriggio, in macchina, e si recò subito in Questura, dove si stavano raccogliendo le prime informazioni concrete sulle ultime ore di Giuseppe. Lo avevano visto arrivare al Grand Hotel la sera prima, verso le nove, la signorina Dorotea lo stava aspettando. Si erano seduti in uno dei salotti del primo piano, c’era pochissima gente in giro, i pochi clienti rimasti dopo il concorso di bellezza erano a cena. Il personale dell’albergo non aveva notato alcunché di strano, chi li aveva potuti osservare, anche se solo per pochi istanti, li aveva visti discutere con apparente serenità, erano rimasti seduti in quel salotto per più di un’ora. La signorina, a un certo punto, era risalita in camera per non più di dieci minuti, ma poi il loro colloquio era continuato fin quasi alle 11. Alla fine lei lo aveva accompagnato fino all’uscita, si erano salutati con cordialità, forse anche con qualcosa di più, lui l’aveva baciata sulle gote e lei aveva ricambiato i baci: dopo di che lei era risalita, anzi, aveva aspettato la madre che era stata tutto il tempo nella saletta della televisione, e poi erano salite insieme, le loro stanze erano allo stesso piano, non vicine, ma allo stesso piano. La signorina Dorotea era apparsa sconvolta dalla notizia della morte del suo ex fidanzato, questo era il modo con il quale lei stessa l’aveva definito. Aveva confermato tutto quanto avevano riferito gli impiegati dell’albergo, si erano dati appuntamento lì dopo aver parlato al telefono, una breve conversazione, poco dopo le otto di quella stessa sera. A dire il vero, avrebbero dovuto vedersi la sera prima, dopo la chiusura del concorso, ma lei era stata presa nel vortice dei festeggiamenti (testuali parole) e avevano dovuto rimandare l’incontro. L’argomento? Beh, dovevano definire meglio il loro rapporto, si trattava di un affetto che si era rapidamente trasformato in una semplice amicizia, su queste cose è necessario essere impietosi, meglio per entrambi. Avevano parlato di questo, ma poi il discorso era scivolato su altri temi, la carriera di lui, questo bel successo di lei, avevano alla fine convenuto che non c’era molto spazio, nelle loro vite, per un rapporto sentimentale. Meno spazio nella vita di lei che in quella di lui? Sì, forse, ma di questo non avevano discusso, non avevano fatto confronti. Come si erano lasciati? Da amici, senza particolari turbamenti da parte di entrambi. Sicura che lui non fosse agitato, nervoso, particolarmente dispiaciuto? Sì, sicura.

Era stata interrogata anche la madre, una vipera cornuta, secondo Ingrassia, profondo conoscitore di serpenti. Secondo costei, la sua figliola era sempre troppo buona e generosa, e soprattutto ingenua e ottimista, non si era resa conto che quel ragazzo era in realtà un instabile, egoista e innamorato di lei in modo quasi patologico. Perché egoista? Bastava pensare alle sue continue intrusioni nella vita della figlia in un momento così delicato per la sua carriera; e poi, forse era solo un caso, ma il modo con cui aveva scelto di uscire di scena, non era forse un grave danno per la figura pubblica di sua figlia, proprio nel momento in cui la via del successo le si stava aprendo davanti? Perché aveva usato quell’espressione, aveva detto «scelto di uscir di scena»? Perbacco, lei odiava le ipocrisie e quanto era avvenuto le sembrava molto chiaro, non le sembrava che ci fossero altre interpretazioni possibili, insomma basta con gli infingimenti!

Arrivò Elsa, accompagnata dal marito, e arrivò anche Andrea, il fratello, increduli e sconvolti. Arrivò anche il direttore di Giuseppe, Glauco Bettini, vecchio ed esperto giornalista che chiese di parlare a Primo da solo. Bettini si chiedeva se c’era una possibilità, una anche vaghissima possibilità, che la morte di Giuseppe avesse a che fare con l’inchiesta che avrebbe dovuto svolgere su quella casa famosa, Primo sapeva di cosa stava parlando, un’inchiesta, tra l’altro, che lo stesso Giuseppe aveva deciso di annullare. Primo non sapeva cosa rispondergli, si limitò a dirgli che per il momento l’ipotesi più attendibile era quella di una disgrazia, in fondo Giuseppe non sapeva nuotare e poteva essere caduto in mare accidentalmente. Gli sembrò che Bettini si rincuorasse un po’.

Arrivò anche, prima di sera, una telefonata dall’aeroporto: se aveva un attimo di tempo da perdere, poteva valere la pena farci un salto, c’era di passaggio una sua vecchia amica.

La Gentile Segretaria si era mossa con molta rapidità, i confini del potere del vecchio Padrone non li poteva stabilire nessuno, ma certo lei li sapeva esplorare con molta semplicità. Chiunque fosse il suo aggancio nella villa, le aveva saputo dare informazioni rapide e precise, che la Segretaria riassunse. Era arrivata una telefonata da fuori, una ragazza aveva informato il Presidente che nella notte precedente qualcuno aveva fatto delle fotografie all’interno della casa, che il mandante era un giornalista di Roma che aveva l’incarico di fare un’inchiesta su di lui e che questo giornalista, in quel preciso momento, le stava facendo domande imbarazzanti. Nel giro di ore erano stati identificati sia l’autore delle foto che il suo collegamento esterno, e si era fatto in modo che non potessero essere più fastidiosi per nessuno. Del giornalista era inutile discutere, lui ne sapeva quanto lei, su quell’argomento nessuno aveva voglia di parlare. Su di lui, Primo, al momento non c’era alcuna voce, in caso contrario lo avrebbe avvertito. Il nome del gioco era comunque sempre lo stesso, prudenza. La Gentile Segretaria era una maga della comunicazione, il bacio che gli diede lasciandolo era molto meno sensuale, ma molto più amorevole di quello precedente, senza che ciò compromettesse le prospettive per l’avvenire.

Primo riuscì a fermare Macbetto, già sul piede di partenza per Roma, qualcuno con cui discutere quella incredibile storia doveva pur trovarlo. Esaminarono insieme i fatti da tutte le parti e Primo dovette convenire che un aggancio, anche minimo, che potesse connettere la morte di Giuseppe con le fotografie, la festa, la villa e tutto il resto, proprio non c’era. Comunque, a Roma il Presidente aveva persone che lo rappresentavano e con una di queste Macbetto aveva un rapporto abbastanza amichevole, lo avrebbe contattato al suo rientro.

«Anzi – aggiunse Macbetto dopo un breve silenzio, – penso proprio che mi cercherà lui, a quest’ora sa già che io sono stato qui e che noi due abbiamo chiacchierato, vorrà sapere di più».

Primo doveva vedere il suo editore, a Roma, si sarebbero incontrati di nuovo molto presto.

 

La notizia della morte di Giuseppe era su tutti i giornali del mattino, le parole più usate erano «misteriosa» e «inspiegabile», ma un paio di quotidiani lasciavano immaginare che si trattasse di un suicidio, una probabile delusione d’amore, anche i giornalisti hanno un cuore. La famiglia di Giuseppe se ne stava chiusa in casa di Primo, per evitare interviste e pubblicità, e d’altra parte per la disponibilità del cadavere dovevano attendere che fosse stata eseguita l’autopsia. Per questa ragione Primo se ne stava in casa il meno possibile e trovava tutte le scuse possibili per uscire presto e rientrare tardi.

Mentre faceva una delle sue visite quotidiane a Proverbio, venne avvertito da un infermiere che il direttore generale lo stava cercando, lo avrebbe trovato nel suo studio. Aquilani aveva l’aria soddisfatta, quella di uno che ha formulato un’ipotesi molto teorica e l’ha vista verificata dai fatti.

«Non sapremo mai come sono andate realmente le cose – gli disse – dobbiamo provare a immaginare. Quello che io immagino è che il sostituto, pieno di zelo religioso, sia andato dal vescovo e gli abbia detto che l’unica cosa che faceva acqua, nella storia dei vecchioni – che penso che ormai potremmo chiamare la leggenda dei 4 vecchioni – era la storia della madre del prete. E immagino che il vescovo gli abbia ricordato che è opportuno che non ci siano scandali, se debbono riguardare la Chiesa, anzi gli avrà detto “oportet ut scandala non eveniant”. È probabile che le cose siano andate più o meno così, anche se non ne sono certo. Quello che so è che domani la faccenda si chiude, basta così, nessun rinviato a giudizio».

«Mi chiedevo – gli disse Primo – mi chiedevo se lei è al corrente del fatto che i suoi medici danno la colpa a lei, dicono che è lei che ha portato tutto al magistrato, e dicono che lo ha fatto perché lei è un cagone. Qualcuno ne fa un problema di rinnovamento, del tipo “largo ai giovani”, non so se m’intende».

«Lo so, lo so, ho i miei informatori. Forse allora è bene che lei sappia che queste voci sul mio conto non mi danneggiano, anzi: il problema potrebbe nascere se mi considerassero un brav’uomo, tutto schierato dalla loro parte».

Ora che non c’era più la tensione di una possibile inchiesta giudiziaria, il dottor Aquilani sembrava molto più disposto ad essere esplicito.

«Questa storia dei vecchioni che scompaiono si verifica in tutti gli ospedali italiani, soprattutto al sabato sera, guai se non fosse così. La maggior parte delle persone di buon senso pensa che in questi casi le scelte dei medici siano sacrosante, ma capisce anche che sono scelte possibili solo se la scena non è illuminata dai riflettori, nel qual caso prevale l’istinto di conservazione. Non credo che la cosa la stupisca, questo paese è noto per la capacità di onorare contemporaneamente due morali molto diverse tra loro. D’altra parte, a questa idea della necessità del rinnovamento, del vecchio che lascia spazio al giovane, siamo persino predisposti culturalmente, io ricordo una favola di Capuana…».

«Tirititùf!»

«Il principe che lascia il re e la regina a morire nella radura…».

«La sorte destinata ai vecchi…».

«E loro quando restano soli sospirano e dicono finalmente, finalmente».

«Perché Tirititùf è un gran rompicoglioni…».

«Non riferirò a nessuno questa nostra conversazione».

«Comunque negherei tutto».

 

L’autopsia dimostrò che Giuseppe era semplicemente morto annegato e che se qualcosa si poteva chiamare in causa era una piccola quantità di alcool presente nel suo sangue, cosa che per una persona completamente astemia era per lo meno strana, faceva pensare a un uomo molto turbato che cercava consolazione in cose che non gli erano famigliari. Primo e Maria andarono a Torino per partecipare al funerale e subito dopo, mentre Maria tornava a casa dalle bambine e da Proverbio, Primo andò a Roma, per parlare al suo editore e per fare quattro chiacchiere con Macbetto.

Fu proprio durante il viaggio, forse per la condizione di sospensione della vita che viaggiare in treno gli procurava, che Primo ebbe modo di ripensare con maggior calma e il distacco necessario alle cose che erano accadute e soprattutto alla morte di Giuseppe. Morte per annegamento. Senza alcun segno di violenza. Senza alcun segno di intossicazione. Dunque, rifletté Primo, non lo avevano legato, non lo avevano drogato, non lo avevano picchiato, lo avevano semplicemente gettato in mare. Oppure – ma questa era per Primo una assurdità – si era suicidato. Tutto plausibile, solo perché Giuseppe non sapeva nuotare. Un uomo che non sa nuotare – Primo continuava a ragionare – può buttarsi in mare per suicidarsi, sa di non avere scampo. Ma se qualcuno lo vuole uccidere, non si limita a farlo cadere in acqua, la maggior parte delle persone sa nuotare. A meno che chi lo vuole uccidere non sia a conoscenza del fatto che la sua vittima, in barba alle statistiche che dicono che quasi tutti gli italiani sanno nuotare, se casca in acqua si annega. Ma chi sapeva che Giuseppe non aveva mai imparato a nuotare? E qui, dopo un attimo, tutte le tessere sparpagliate del mosaico si misero a posto da sole. A Primo, con grande stupore del passeggero seduto di fronte a lui, scappò una bestemmiaccia, adesso che aveva capito e che sapeva di essere stato stupido e ingenuo aveva anche un po’ di paura.

Primo e Macbetto si incontrarono a cena la sera, in un vecchio ristorante nel quale si trovava ancora la cucina romagnola originale, i manfrigoli e la tardura, il sangiovese e e’ belecôt d’birèn, la saba e i cappelletti in brodo di cappone.

«Non roviniamoci tutta la serata – disse Macbetto, – togliamoci dai piedi la storia del tuo cugino, una storia proprio sfortunata. Quel tale che ti dicevo è venuto, gente che parla per enigmi, ma alla fine quello che ti vuol dire te lo dice. L’uomo della villa li comincia a spaventare, è diventato imprudente, non è detto che il suo potere duri ancora per molto tempo. In questo momento, però, non conviene a nessuno, dico politicamente, tagliargli le gambe, la ragione principale è nel suo archivio, prima di far fuori lui bisogna far fuori quello. Questa ultima storia li ha molto scossi, correre tanti rischi per scoparsi due ragazzine è un segnale di decomposizione, lo sanno e lo temono. Comunque il tuo nome non è mai stato fatto, gli ho chiarito che siamo fratelli, tua madre non era una donna irreprensibile. Ma tu guardati le spalle».

«E quella troietta, quella Dorotea?».

«Gli ho raccontato la storia vera, quella che nemmeno i servizi segreti conoscono, ma poi ho un po’ modificato i fatti, gli ho detto che l’idea dell’inchiesta sulla sua villa era sua, che lei si è spaventata e si è tirata indietro all’ultimo momento. Lui sa che sono una persona troppo seria per scherzare su certe cose, così nei prossimi giorni cerca quel nome sui giornali, è possibile che tu lo trovi alla voce “incidenti stradali” o “overdose”».

Primo non riusciva sempre a capire se Macbetto stesse facendo sul serio o volesse prenderlo in giro, decise di illudersi, non c’era niente di male. Decise anche di non raccontargli la verità, quella che aveva scoperto così facilmente in viaggio, in fondo era stato talmente facile arrivarci che Primo continuava a darsi dello stupido e non aveva alcuna voglia di parlarne. E poi mise da parte per un po’ la paura che si stava portando addosso e si lasciò andare ai festeggiamenti, celebravano il fatto di essere ancora vivi.

Al mattino, di buonissima ora, Primo chiamò la Gis, sapeva che si alzava prestissimo per dedicarsi ai suoi esercizi fisici prediletti. Era anche lei a Roma, gli disse che l’avrebbe incontrato volentieri, no, non subito, aveva una giornata piena di impegni, perché non vedersi alla sera, conosceva un ristorante… Primo rinviò il ritorno a casa e trascorse una giornata da vero turista, andò a vedere una mostra, passò un paio d’ore in un cinema. Poi venne finalmente sera.

La Gis era in splendida forma, bella e franca come una sovrana, gentile e affettuosa come una fidanzata. Gli chiese di rinviare i discorsi seri al dopo cena, bevve quasi una bottiglia di vino francese come se fosse stata acqua delle terme di Roncalceci, non lasciò niente nel piatto e poi chiarì che il conto lì era sempre già pagato e si portò Primo, sempre più preoccupato, a casa. Lo lasciò da solo in salotto per dieci minuti e tornò con una vestaglia addosso che un numero analogo di pizzi Primo lo aveva visto solo in un film con Lana Turner. Si sedette vicino a lui – molto vicino a lui – gli prese le mani tra le sue e gli disse:

«Capisco che hai qualcosa da rimproverarmi, non sono così stupida da pensare che sei venuto solo per passare una notte con me, anche se mi piacerebbe poterlo credere».

Primo esitò solo un attimo.

«Era proprio necessario?» le chiese.

«Non essere troppo frettoloso a tirare le somme, chi ti dice che siamo stati noi?».

«Solo tu sapevi che non aveva mai imparato a nuotare».

«No, non è vero, anche quella scema della sua ragazza lo sapeva, non poteva ignorarlo. Pensaci, possono avere avuto una discussione, magari passeggiando sul molo; era in gioco la sua carriera, può essersi spaventata, arrabbiata. Una spinta...».

«Comunque, o lei o voi... Non vuoi proprio dirmi chi è stato?».

«No, e non credo che riuscirai a scoprirlo. Se tu sapessi chi lo ha buttato giù dal molo, forse ti verrebbe voglia di vendicarlo, lo so come siete fatti voi romagnoli. Quello che devi capire, invece, è che lui era andato troppo oltre il limite, la sua fine era scritta, poco importa chi gli abbia dato quella spinta».

«Non sono sicuro di capirti».

«Abbiamo fatto di tutto per evitare questo epilogo, ma alla fine abbiamo dovuto accettare il fatto che non c’erano altre possibili soluzioni. Quello che tu avresti dovuto capire, Primo, è che due poteri come quello del Presidente e del Padrone non convivono, non possono proprio convivere, se non trovano un accordo. Noi abbiamo sempre protetto il Presidente, il Presidente ci è sempre stato riconoscente. L’unica cosa che abbiamo potuto fare è stata quella di tenerti fuori, del resto sapevamo bene che tu c’entravi solo per caso. Ma non sottovalutare i rischi, ce ne sono stati anche per te. Quanto al fatto che non sapeva nuotare e che tu me ne avevi parlato, questo è un particolare senza alcuna importanza, ti è solo servito per capire qualcosa che in ogni caso avresti dovuto scoprire, prima o poi».

«Quando avete deciso di…?».

«Quando la ragazza ha telefonato, era con lei, faceva domande, domande imbarazzanti. Il Presidente prima si è un po’ spaventato, poi si è molto incazzato, è in quel momento che ci ha chiesto di intervenire. Molto onestamente, Primo, non c’erano scappatoie».

«Ma non avete pensato che lei stesse semplicemente scaricandolo, proprio ieri qualcuno – qualcuno che conta – mi ha detto che l’idea iniziale era stata proprio sua, della ragazza, e che poi…».

«Sì, so che ieri sera hai cenato col tuo amico Fusaroli: se è così, quella ragazza farà poca strada. Ma la cosa non ci riguarda, le sue puttane non sono di nostra competenza».

«Ma vale ancora la pena di proteggere quell’individuo? Certi comportamenti fanno sempre immaginare crepe molto più profonde, e non tanto perché sono immorali, solo perché sono stupidi».

«È possibile, anzi è probabile, ma questi uomini non vengono mai distrutti dai loro nemici, sono sempre i loro amici che se ne liberano quando capiscono che stanno per diventare pericolosi. Noi non siamo amici suoi, Primo, abbiamo solo interessi in comune».

Il tono della Gis era conclusivo, Primo capì che non gli avrebbe detto altro, era evidente che aveva altre cose per la testa. E in effetti si alzò dal divano, lo prese per mano e cominciò a trascinarlo, appena appena recalcitrante, verso una porta che doveva essere per forza quella della camera da letto. Primo la seguì pensando alle vergini che i giannizzeri portavano nella stanza del sultano, a che pro avrebbero dovuto opporre resistenza?