Capitolo XVIII

 

 

 

 

 

Giuseppe rincasa tardi. Il racconto di una lunga e inutile attesa. Il mistero della grossa busta gialla. E poi Giuseppe non rincasa proprio.

 

Primo se ne tornò a casa a piedi, lemme lemme, trovò Maria ancora alzata che lo aspettava e le fece un resoconto molto accurato della serata; aspettarono ancora un po’, caso mai Giuseppe fosse rientrato, poi se ne andarono a dormire, cominciava una nuova settimana di scuola per le bambine, gli orari del mattino erano gli stessi per tutti e andavano rispettati.

Giuseppe non era rincasato neppure al loro risveglio e prima che rientrasse ci fu tutto il tempo per Maria di accompagnare le bambine a scuola, per Primo di fare la sua camminata veloce – un impegno irrinunciabile per un atassico come lui – e persino per un tale che non volle lasciare il suo nome di portare una busta che doveva essere consegnata «nelle mani di Giuseppe, proprio di lui medesimo, mi raccomando». Il quale Giuseppe arrivò che erano quasi le 10, con gli occhi che gli si chiudevano da soli, disse che aveva un gran bisogno di dormire, avrebbero parlato più tardi, e se ne andò a letto, lasciando Primo – e soprattutto Maria – in un mare di curiosità.

Giuseppe dormì sette ore filate, un sonno che si potrebbe definire «del giusto», si svegliò dunque verso le cinque del pomeriggio, e prima di essere disponibile per la chiacchierata che gli altri aspettavano da un’eternità si era fatta praticamente sera.

«Poco da raccontare – cominciò, dopo che si fu seduto davanti alla scrivania di Primo, nello studio, mentre Maria se ne stava zitta zitta in piedi in un angolo, – Dorotea non l’ho neppure vista. In poche parole, sono andato all’appuntamento, ho aspettato un po’, ma quando stavo per andare via invece di Dorotea è venuta sua madre. È stata lei a riconoscermi, mi ha detto chi era e mi ha spiegato che Dorotea era andata a una cena, una cena molto importante, solo due delle concorrenti erano state invitate, lei e la ragazza brasiliana. C’erano in ballo proposte di lavoro, la carriera di Dorotea poteva decidersi lì, il suo manager l’aveva pregata di andare, lui aveva lavorato come un cane per darle quella occasione, io dovevo capire. Dopo di che, questa frase che io dovevo capire, l’avrà ripetuta cento volte: dovevo capire che non era il momento di pensare a noi, non ancora; dovevo capire che l’amore può anche essere egoista, che quando si vuol bene si deve volere soprattutto il bene dell’altro, e che Dorotea, in quel momento, stava dando consistenza ai suoi sogni e alle sue speranze. Insomma dovevo capire. Poi mi ha voluto abbracciare, mi ha ringraziato come si ringrazia uno che finalmente ha capito, e se ne è andata».

«E tu?».

«Io non sono riuscito a dire una parola, ma ripensandoci credo che a quella donna non avevo proprio niente da dire. Io volevo parlare a Dorotea. Così sono andato al suo albergo, al Grand Hotel, e ho dato 50 euro al portiere di notte perché mi avvertisse nel momento in cui lei rientrava. Mi sono seduto in un angolo e ho aspettato».

«E a che ora è tornata?».

«Questo è il problema, lei non è rientrata per niente. Verso le tre è rientrato quel prosseneta del suo agente, il signor Arturo, che non mi ha visto. Verso le otto del mattino è scesa sua madre, bella come il sole, e nemmeno lei mi ha visto. A un certo punto mi sono sentito ridicolo, oltre tutto c’era stato il cambio dei portieri e avevo dovuto dare 50 euro anche a quello di giorno, la storia che dovevo farle un’intervista non reggeva, gli impiegati ridacchiavano, me ne sono andato. Aggiungo solo che in tutto questo periodo non ha mai risposto al telefono, c’è sempre stata la segreteria».

Primo provò a fare qualche ipotesi, a trovare qualche spiegazione, ma si rese subito conto che nessuna reggeva. Alla fine l’opzione vincente fu quella di aspettare, prima o poi la ragazza si sarebbe fatta viva da sola, chissà, forse la spiegazione di tutto ciò c’era ed era semplice e banale. Per il momento non sembrava che ci fosse altro da fare.

Solo quando entrarono in sala da pranzo Primo si ricordò della busta da consegnare nelle mani di Giuseppe, proprio di lui medesimo, una grossa busta gialla che Maria aveva messo sul tavolo, sotto al tovagliolo, perché la vedesse subito. Giuseppe chiese chi l’avesse portata, rise alla storia delle sue mani medesime e l’aprì. C’era una lettera, e poi c’erano alcune fotografie. Giuseppe esaminò tutto con cura e poi si alzò dal tavolo, fece segno a Primo di seguirlo, gli voleva parlare da solo.

«Questa è ancora opera del nostro Pedro-Alvise, l’uomo con un dito di meno: lui aveva messo in moto un meccanismo che non si è fermato dopo la sua uscita dal campo. Se ricordi, mi aveva detto che mi avrebbe messo in contatto con qualcuno che mi avrebbe potuto aiutare a capire qualcosa di più sui misteri della Voce del Padrone. Questo tale che mi scrive è l’uomo del quale mi parlava il tuo Alvise. La notte scorsa qualcuno che lavora per lui e che ha accesso alla villa ha scattato delle fotografie, foto di una festa che ha avuto luogo lì e che alle cinque di stamattina, quando le foto sono uscite dalla casa, era ancora in corso. Secondo chi mi scrive queste foto sono le uniche innocenti, ma se voglio le altre ci dobbiamo mettere d’accordo sul prezzo, qui mi dice solo come fare a contattarlo. In realtà queste fotografie sono innocenti per tutti ma, guarda caso, non lo sono per me, anche se immagino che chi le ha fatte non potesse prevederlo: in una c’è il padrone di casa, molto ingrassato se mi è permessa una critica, che brinda tutto allegro con una ragazza. Sono entrambi in costume da bagno e sono sul bordo della piscina della villa, dietro di loro si vedono molte altre persone. Una foto innocente, la stessa Dorotea, che come avrai capito è la ragazza che brinda, sembra l’immagine del pudore indifeso».

«Adesso Giuseppe – disse Primo – è l’ora di usare la testa, che non ti venga in mente di contattare questo tale, quelle foto, ammesso che esistano altre foto, scottano, e non scottano se le tocchi, scottano se le guardi».

«Sì, sta tranquillo Primo, non sono così stupido, ho capito, di contattare questo tale non me lo sogno nemmeno, ma una cosa debbo fare, una sola, debbo parlare a Dorotea, debbo almeno cercare di spiegarle in che razza di casino si sta ficcando, farle intendere chi sono le persone alle quali sta affidando la sua vita. A questo non posso rinunciare, sono certo che lo capisci».

Primo non era per niente sicuro di capire, anzi per lui quello era proprio il momento di mandare Dorotea negli stracci, ma Giuseppe era troppo determinato, non era certamente disponibile ad ascoltare la voce della saggezza. Così chiamarono ancora una volta Dorotea, questa volta usando il telefono di Primo, caso mai lei volesse negarsi. La ragazza rispose, Primo le passò Giuseppe prima ancora che lei chiedesse con chi stava parlando: la loro fu una telefonata molto breve. Lui le disse che le doveva parlare, lei gli rispose che, sì, anche lei… Si diedero un appuntamento, il tempo di arrivare.

«Tieni tu la busta – disse Giuseppe, – poi decidiamo cosa farne».

«Secondo me ce la dobbiamo mangiare, prendere un purgante e sfiorarci per i campi». Primo era raramente volgare, ma era pur sempre un romagnolo.

E così Giuseppe uscì per andare a incontrare Dorotea e per metterla in guardia: Primo lo guardò con affetto mentre usciva di casa, ormai non seguiva più l’istinto dell’innamorato, ma voleva solo compiere una buona azione, da bravo ragazzo.

 

Solo che anche quella notte Giuseppe non tornò a casa, queste veglie notturne cominciavano a diventare un’abitudine. A Primo venne in mente per prima cosa la possibilità che si fossero riappacificati e che la notte fosse servita a suggellare la ripresa dei loro rapporti. Verso le dieci lo cercò al cellulare, ma trovò solo la segreteria, così decise di richiamarlo più tardi, se veramente avevano fatto pace avevano anche bisogno di dormirci su. Andò invece a trovare Proverbio, a cui via via che migliorava la condizione di salute peggiorava il tono umorale ed era ormai in aperto conflitto con tutto il personale del reparto. Doveva anche aver trovato pane per i suoi denti, una delle infermiere più anziane doveva conoscere altrettanti proverbi quanti ne conosceva lui e ribatteva colpo su colpo.

«Dunque, Primo, io ho detto che voglio andare a casa, forse l’ho detto un po’ troppe volte, ma insomma avrò pure il diritto… Beh, sai cosa ha detto lei? Ha detto che quand i zavaja e i dis ch’i vö andê vi’ l’è segn chi ha da muri’, che quando i malati vaneggiano e dicono che vogliono andar via, è segno che stanno per morire. Vaneggiano! Io vaneggio! È proprio vero, la chêrna cla cala la n’sta mai zèta, più sono vecchie e più chiacchierano».

Primo lo lasciò che brontolava, ottimo segno, stava proprio guarendo, era più forte di tutti i mali che aveva avuto, tanti in verità. All’uscita dall’ospedale il telefono gorgogliò, le bambine dovevano aver cambiato ancora la suoneria. Era Maria:

«Ti cercano dalla Questura, dovresti andarci, pare che sia cosa importante. Devi chiedere del dottor Ingrassia».

Strana richiesta, Primo si preoccupò, conosceva bene Ingrassia, non era uno che si agitava per poco. Arrivò in Questura quasi di corsa, Ingrassia lo aspettava, sapeva che stava arrivando, Maria lo aveva avvertito.

«Tuo cugino, quel giornalista, Giuseppe qualcosa, stava a casa tua mi ha detto Maria».

«Allora?».

«È annegato, la notte scorsa. L’hanno trovato questa mattina i pescatori, galleggiava vicino al molo. Completamente vestito, non gli manca niente, telefono, portafoglio. Nessun segno di violenza. Sapeva nuotare?».

«Non credo, o per lo meno diceva di non saper nuotare, se ne vantava. Era anche astemio e vegetariano».

«Aveva problemi? C’era un motivo qualsiasi per cui avrebbe potuto togliersi la vita?».

Primo scelse la via della cautela.

«Non che io sappia – rispose, – direi proprio di no, era un uomo realizzato, un giornalista che aveva un buon lavoro, che cominciava a esser conosciuto. Forse aveva qualche problema sentimentale, piccole cose, ne abbiamo parlato, niente che possa giustificare un gesto estremo».

«Quando l’hai visto per l’ultima volta?».

«Ieri sera, è uscito per un appuntamento, una delle ragazze che hanno partecipato al concorso di bellezza, quello di domenica. Non è rientrato, pensavo avesse passato la notte con lei».

Ingrassia prese appunti, gli chiese di passare dalla camera mortuaria per riconoscere il corpo, si sarebbero risentiti presto, lui doveva mettersi in moto, tra un po’ sarebbero arrivati i giornalisti.

Primo rientrò a casa turbato e confuso, la visita alla camera mortuaria non era stata indolore. Telefonò a Elsa, la madre di Giuseppe, una telefonata difficile, Giuseppe era il figlio prediletto, sua madre l’adorava. Telefonò al direttore del telegiornale per il quale Giuseppe lavorava. Telefonò a Macbetto, gli raccontò solo le cose essenziali e gli chiese di aiutarlo, lo aspettavano momenti difficili. Telefonò infine alla Gis, per darle solo la notizia, nuda e cruda, senza commenti.