Capitolo II

 

 

 

 

 

Dove si parla della differenza tra amicizie e parentele. Storia di Maria, cinese simbionte. La relazione tra la frutta e gli insulti. Coma irrazionale o coma irreversibile? La parabola dei quattro vecchioni.

 

Tra Primo e Proverbio non c’era alcun rapporto di parentela, ma era difficile immaginare un qualsiasi legame di sangue capace di stabilire, tra due persone, una relazione altrettanto inossidabile.

Non era stato subito così. Quando si erano conosciuti avevano avuto a che dire per via di una interpretazione che Proverbio, a metà di una lettura di poesie romagnole, aveva dato della parola tafanêri, il deretano, che secondo lui aveva a che fare con i tafani che nei luoghi meno puliti si raccolgono volentieri a congresso. Primo gli aveva spiegato, forse con aria un po’ troppo professorale, che si trattava invece di una scherzosa metafora, che la parola originaria era Antifonario, l’enorme messale che contiene le antifone e molte delle parti cantate della messa e che viene collocato sul badalone, il grande leggìo al centro del coro. Proverbio non aveva gradito la correzione e aveva poi dichiarato ai suoi amici che clulè ut fa la bêrba cun l’urtiga, ti fa la barba con l’ortica, tanto gradevoli erano i suoi modi. Quando si conobbero meglio ed erano già sulla strada di trovarsi simpatici ebbero un secondo scontro molto simile al primo, perché Proverbio disse che erano andati molto vicini a ragnê, a litigare, e su questa parola ebbero un breve battibecco – deriva dal francese, no deriva dal latino – fino a che si misero a ridere tutti e due e la loro grande amicizia poté finalmente cominciare.

 

Adesso Primo e la sua famiglia vivevano nella vecchia casa di Proverbio, che avevano adattato alle proprie necessità, e Primo, sua moglie Maria e le loro gemelle, Beatrice e Berenice, si sarebbero trovati in grande imbarazzo se qualcuno avesse voluto da loro un chiarimento, una precisazione, insomma una definizione del rapporto che li teneva uniti. In realtà, Proverbio era Proverbio, il miglior amico di Primo, il padre spirituale di Maria, il nonno affettuoso e giocherellone delle bambine, che domanda stupida, la gente può veramente essere… e qui ciascuno della famiglia avrebbe usato un aggettivo diverso, barlocca avrebbe detto Primo, sasa, sarebbe stata la scelta di Maria, le due bambine avrebbero probabilmente scelto invornita, o forse indarlita, in Romagna non c’è niente come la frutta e gli insulti che si presentino in varietà quasi infinite.

 

Perché Primo e Proverbio fossero diventati tanto amici, lo si spiega molto semplicemente guardando a come si formano le amicizie tra uomini, almeno dalle nostre parti. All’inizio c’è curiosità, un briciolo di stima e un bel po’ di sospetto; poi aumenta la stima e diminuisce il sospetto, resta solo una minima diffidenza; alla fine c’è solo stima, e questa si trascina dietro una fiducia senza più limiti. In Romagna, se la moglie del vostro miglior amico viene trovata uccisa da un colpo di rivoltella alla nuca e il vostro miglior amico viene sorpreso con la pistola fumante in mano, per voi è suicidio, chiaro come l’acqua di fonte. E così spero di avervi spiegato quali rapporti ci fossero tra Primo e Proverbio. Adesso però, spiegare l’amicizia tra Proverbio e Maria, è un po’ più complicato.

Maria, una graziosa ragazza cinese che era arrivata in Italia come clandestina, aveva avuto qualche difficoltà di inserimento, se capite cosa voglio dire. Costretta a lavorare in un laboratorio, praticamente senza salario, a causa del debito contratto per il viaggio, aveva speso i suoi primi guadagni nell’acquisto di una radio portatile, un disastro tecnologico, oltretutto costruito proprio dalle sue parti, che limitava l’ascolto a pochissime stazioni locali. Per imparare l’italiano, Maria si era messa ad ascoltare una radio privata di Bertinoro, che trasmetteva quasi esclusivamente commedie e canzoni in dialetto romagnolo, così che invece dell’italiano aveva finito con l’imparare il dialetto, e almeno da questo punto di vista poteva essere considerata una vera rarità. Maria era l’unica ragazza cinese che chiedeva «stasiv bè?» – difficile da tradurre, qualcosa come «siete proprio sicuro di star bene?» – quando la presentavano a qualcuno. Per amore di completezza, bisognerebbe anche raccontare come l’ascolto piuttosto frequente di Radio Maria le avesse consentito di acquisire qualche conoscenza del latino e l’avesse comunque indotta a convertirsi alla religione cattolica, tanto che le sue due gemelline, Beatrice e Berenice, erano state battezzate, malgrado il parere sfavorevole di Primo, che si era sempre dichiarato ateo, e aspettavano di aver l’età giusta per comunicarsi e cresimarsi. Ora, l’amicizia di Maria e di Proverbio era nata per tracimazione da quella che Proverbio aveva col marito di lei, ma poi si era fatta molto personale. Proverbio era un uomo che aveva alle spalle una vita altrettanto complessa quanto interessante, unica per certi rispetti, e una delle cose che gli dispiacevano di più, essendo consapevole di essere arrivato quasi alla fine del viaggio, era la prospettiva che tutte le cose, i ricordi, i fatti della sua terra, le leggende, i racconti, le storie, i detti, i proverbi che stavano raccolti, stretti stretti, nella sua capacissima memoria, se ne sarebbero scesi con lui a veder crescere le margherite dal basso, uno spreco straordinario, un intero patrimonio di conoscenza completamente perduto. Fino a che non aveva avuto una illuminazione, che gli era venuta proprio guardando al sincero interesse che Maria dimostrava nei confronti dei suoi ricordi, e aveva cominciato a travasare tutto quello che sapeva in quella specie di spugna capacissima che era la memoria di Maria, che era diventata la sua simbionte. Non c’è dunque bisogno dell’aiuto di uno psicologo per capire come in un rapporto di questo tipo ci si possa facilmente identificare in figure familiari, l’insegnante diventa anche il padre, l’allieva la figlia. Insomma, la malattia di Proverbio era diventata una grave ragione di preoccupazione per tutta la famiglia, compresi Pavolone e la sua nuova compagna, due personaggi dei quali non vi posso ancora parlare perché in questo momento non sono in casa. L’assenza di Proverbio, oltretutto, si ripercuoteva in particolare sull’umore delle donne della famiglia: Maria, ragazza generalmente serena, era diventata – per sua stessa ammissione – malinsalêda, di cattivo umore, e le bambine avevano perso molta della loro proverbiale barlòca, pardon, parlantina.

Da quando Proverbio era stato ricoverato, Primo e Maria si erano dati il cambio al suo capezzale e non c’era sacrificio al quale non sarebbero stati disponibili pur di portarlo a casa in buona salute. Inevitabilmente, nelle lunghe giornate in cui avevano aspettato, nell’anticamera del reparto, di avere sue notizie, avevano fatto conoscenza con i genitori, i coniugi, i figli, gli amici e i conoscenti degli altri ricoverati e si era formata tra di loro quella sorta di solidarietà tra parenti che serve a sopportare meglio i molti difetti degli ambienti ospedalieri, la mancanza di informazioni, il linguaggio troppo tecnico, la fretta, il nervosismo latente, qualche brandello di maleducazione e di supponenza, chi ha avuto un parente malato sa bene di cosa parlo. In quelle circostanze, la condivisione di sentimenti come l’ansia, il timore, l’incertezza, la rassegnazione, qualche volta la rabbia, tende a cancellare tutte le differenze, così che non infrequentemente accade di veder sorgere rapporti di vera amicizia tra il figlio del vecchione in stato comatoso, che di mestiere fa il postino, e l’amico dell’anziano operato di prostata, noto scrittore di libri di divulgazione della storia: e quella domenica sera, nello stesso momento in cui Proverbio si stava infilando, testa in giù, nel tunnel – buio come la pece – del sonno da barbiturici, Primo Casadei, un tempo denominato Terzo, noto scrittore di libri di divulgazione storica, stava incontrando, a casa sua, Guidi Ermenegildo, di professione postino, conosciuto nella sala d’aspetto del reparto di rianimazione e terapia intensiva, che gli stava sottoponendo, guarda un po’, lo stesso problema sul quale si era interrogato Proverbio nel momento in cui stava per addormentarsi.

«Vede, Primo – il signor Ermenegildo avrebbe preferito esprimersi in dialetto, ma temeva che i famosi scrittori di libri di divulgazione storica mancassero di basi culturali specifiche, – mio padre, il povero Assenzio, non aveva mai avuto un danno cerebrale diretto, e non era nemmeno così vecchio, 75 anni, nella mia famiglia ce n’è di più anziani. Semmai il suo problema era il diabete, che lui un po’ trascurava, non perché stramangiasse, ma perché si dimenticava di farsi le iniezioni di insulina, così poteva capitare che qualche volta zavagliazze un po’, insomma, come si dice, non fosse sempre lì con la testa. Il suo medico lo aveva avvertito che prima o poi gli sarebbe successo qualcosa al cuore, e così è andata, un arresto che non è durato molto ma che per alcuni minuti non ha pompato sangue al cervello, che è rimasto offeso, scusi la scelta delle parole, io non sono un dottore. Ma il medico stesso della rianimazione, al momento che me l’ha preso dentro, mi ha detto testualmente che il danno c’era, ma lui non sapeva quantificarlo, anche se poi il primario ha detto una cosa un po’ diversa, che era un coma irrazionale».

«Irreversibile» corresse Primo.

«Irreversibile, mi scusi, io non sono un dottore. In ogni caso la diagnosi definitiva non l’avevano ancora fatta, in cartella non c’era scritto niente, almeno fino al mattino di sabato, e l’infermiera Gloria mi aveva detto di andare a casa, perché, così mi aveva detto, era una gugliata lunga, non so se lei conosce il modo di dire. E così, mi scusi l’arroganza, come fanno a dirmi, dopo meno di otto ore, c’è stato un encefalogramma piatto, una cosa improvvisa, non c’era più niente da fare, lo abbiamo staccato dalla macchina? A parte il modo, che manca di qualsiasi attenzione alla psicologia della gente, specie trattandosi di un figlio, le chiedo, è possibile secondo lei che la stessa cosa succeda, in pratica nello stesso momento, a quattro diverse persone, tutte ricoverate nello stesso reparto? Non credo che l’encefalogramma piatto sia diventato l’influenza dei maiali, non sarà una cosa che si attacca».

Il signor Ermenegildo si fermò, Primo gli sembrava interessato e attento, ma non voleva caricarlo di troppe informazioni, c’era sempre il rischio di sottovalutare qualcosa: per mestiere lui sapeva che le persone che ricevono valanghe di lettere sono costrette a buttar via tutte quelle che contengono solo della pubblicità, e in questo modo è anche possibile che possa andare perduta anche una lettera importante. Ma Primo non sembrava affatto in difficoltà.

«Chi sono gli altri tre – gli chiese – e perché è venuto solo lei?».

«Allora – riprese Ermenegildo, pieno di buona volontà – glielo dico. Al letto numero 3, c’era Fuzzi Adrasto, che avrà avuto intorno agli ottant’anni e che era lì da un bel po’, lui aveva proprio avuto un danno al cervello, aveva la pressione molto alta, ma i medici dicevano ai suoi due figli, quei due uomini che si assomigliano, tutti e due senza un capello in testa, li ho visti parlare con lei, gli dicevano che era un uomo di ferro, chissà quanto poteva campare. Encefalogramma piatto sabato sera. Al numero 4 c’era Zattoni Spartaco, una volta faceva il sindacalista per i metalmeccanici, lo avrà visto in giro, da giovane era uno molto grosso, da vecchio era diventato piuttosto grasso, i muscoli se li era mangiati il sangiovese; c’era sempre sua figlia col marito in anticamera, qualche volta è venuta anche la nipote, la Zaira, la ricorderà, una gran bella ragazza. Spartaco avrà avuto 85 anni, forse anche meno, si era rotto un femore e dopo non si era più ripreso, una mattina l’hanno trovato che non rispondeva più. Fibra molto forte, diceva il medico, ma sabato sera tac, encefalogramma piatto anche lui. E al letto numero 8 c’era la madre di don Giulio, il parroco della chiesa della Baia del Duca, lei non c’era stata con la testa per tanti anni, adesso ne aveva quasi 90, cosa sia successo alla fine non lo so, comunque anche per lei, stesso destino, encefalogramma piatto, sempre sabato sera. I parenti di Spartaco e di Adrasto mi hanno delegato a parlare con lei, don Giulio era molto agitato, ha detto che bisognava rispettare il suo dolore e che lo dovevamo lasciare in pace. Anzi, a essere onesti, mi ha proprio detto di non rompergli gli zebedei».

«Ma secondo voi – gli chiese Primo – cosa è effettivamente successo?».

«È successo che sabato sera quattro pisquani, sbronzi ancor prima di cominciare a bere, si sono infilati giù per una scarpata con la macchina. A dire la verità, erano cinque, ma uno è stato catapultato fuori prima che la macchina andasse giù, e non si è fatto niente, anche se adesso è anche lui in ospedale, perché la macchina la guidava lui e uno dei genitori dei ragazzi l’ha picchiato. Gli altri quattro, il più vecchio di tutti ha 23 anni, sono tra la vita e la morte, ma se camperanno lo dovranno al fatto che nel reparto di rianimazione c’erano quattro letti liberi, pronti per loro. Di letti liberi, come lei sa bene, in quel reparto non ce n’erano, il posto gli è stato fatto spatassando via quattro persone innocenti che avevano il diritto di morire per i fatti loro, senza contributi».

Ermenegildo non sembrava poi tanto sicuro dei fatti suoi, l’aver fatto ricorso a un’espressione sindacale denunciava la sua incertezza. Guardò Primo con aria interrogativa e gli chiese:

«O no?».

«Non lo so, non lo so proprio, forse. Ma perché venire da me, perché non dalla polizia, o dal direttore sanitario?».

«Perché non vogliamo fare del male a nessuno, perché quello che vogliamo adesso è solo capire come sono andati i fatti. Vede, noi pensiamo che tra quattro vecchi senza speranza e quattro giovani che di speranze ne hanno ancora tante, non c’è gara. Ma non così, non in questo modo, alla luce del sole, senza inventarsi le robe piatte e senza usare parolone che capiscono solo loro. Su questo siamo tutti d’accordo. Una volta che sappiamo come sono andate le cose, decideremo cosa fare. Secondo noi, lei è la persona adatta, adatta anche a evitare uno scandalo. Guardi che non lo facciamo per soldi, nessuno di noi pensa a un rimborso o a cose così. Non per usare delle parolone, ma è giusto dire che lo facciamo per amore della giustizia».

Primo volle sapere altre cose, se erano stati avvertiti solo dopo che i loro congiunti erano stati staccati dalle macchine, o prima che le macchine fossero state staccate da loro, Primo non sapeva quale fosse l’espressione giusta. E se avevano avuto qualche spiegazione in più su quell’«encefalogramma piatto». Risultò che a lui, Ermenegildo, avevano telefonato, ma non l’avevano trovato in casa e, d’altra parte, il cellulare non l’aveva mai avuto; che i famigliari di Fuzzi e di Zattoni avevano avuto un breve colloquio con i medici, forse prima, forse nello stesso momento in cui avevano proceduto al distacco, e che il prete non aveva dato informazioni, ripeteva solo che voleva essere lasciato in pace, che non gli dovevano rompere gli zebedei. Risultò anche che non si sentiva di giurare che i medici avessero parlato solo di encefalogramma, anzi a pensarci bene avevano usato altre parole, parolone disse Ermenegildo, però lui e gli altri parenti si ricordavano solo dell’encefalogramma, qualsiasi cosa fosse. Alla fine, Primo aveva abbastanza informazioni da poter fare qualche cauta domanda in giro, senza impegno, disse. Per carità, nessun impegno, ribadì Ermenegildo, e così si lasciarono.