Dove si accenna a una teoria sulla disonestà dei medici più famosi. La Gis, segretaria che unisce, alla proverbiale cortesia, un modo di fare piuttosto perentorio. Minacce fondamentalmente gradevoli.
Primo avrebbe avuto bisogno di un po’ di tempo tutto per sé per ragionare sulle cose che gli stavano capitando, i vecchioni che morivano tutti insieme e le leggi astruse che punivano i cittadini che avrebbero dovuto aiutare, ma non erano i giorni giusti, la Piccolomini era appena uscita che lo chiamò la Gentile Segretaria, sempre molto efficiente e, con lui, anche un po’ affettuosa. Dunque aveva parlato al Padrone, naturalmente lui era addolorato di non poter intervenire direttamente, ma aveva delegato a lei, cioè al suo braccio destro, il compito di venirgli in aiuto, di qualsiasi cosa si trattasse. La Gis era all’aeroporto, sarebbe arrivata da lui entro un paio d’ore, tre al massimo. Primo cercò in tutti i modi di dissuaderla, non era poi così importante, eventualmente sarebbe andato lui… Niente da fare, del resto aveva avuto modo di mettere alla prova alcune delle doti di quella ragazza, una straordinaria determinazione era tra quelle. Così Primo decise di andare a prenderla all’aeroporto, fece un po’ di conti, c’era anche il tempo di passare da Proverbio e forse persino di parlare ai suoi medici.
Proverbio stava molto meglio, non ancora bene ma certo in rapido miglioramento, Primo lo capì dalle prime parole che gli disse, «st’an l’è un bròt an, pri vëcc», quest’anno è un brutto anno per i vecchi, frase che generalmente andava completata da un «is môr tòt», muoiono tutti, che questa volta gli fu risparmiata. Doveva essere stato anche molto vigile, perché sapeva che erano venuti i carabinieri a sequestrare quattro cartelle, quelle dei vecchioni morti (morti?) tutti insieme sabato notte, si parlava di una denuncia anonima. Proverbio aveva un concetto piuttosto basso della moralità media dei medici, diceva che quelli che si comportavano bene lo facevano per paura della galera, e che i più disonesti erano i più famosi, perché, diceva, «la lèz l’è una tlaràgna, i bigarò i scapa, i muslèn i s’ingavàgna», la ragnatela della legge prende i moscerini, non gli insetti più grossi. Medici disponibili per un colloquio non ne trovò, e così Primo andò all’aeroporto ad accogliere la Gentile Segretaria.
Arrivò fresca come un fiore, e certamente per arrivare così presto si doveva essere svegliata di buonissima ora, una bellezza molto composta, un po’ mascherata dalla mancanza di trucco e da un abbigliamento molto severo, quello appunto che consente di identificare le Gentili Segretarie. Primo, che l’aveva vista all’opera, sapeva che in realtà quella ragazza era più pericolosa di una mantide religiosa per i suoi mariti, ma non poteva nascondersi di esserne attratto, l’attrazione che – si dice – esercitano i precipizi e i burroni. Si salutarono come due vecchi amici, Primo temeva che anche la ragazza fosse in qualche modo attratta da lui e comunque doveva ammettere che la fama di donna dura e spietata per quanto lo riguardava non la meritava proprio. Decisero di fermarsi in aeroporto, il posto più sicuro era la macchina di Primo: lei aveva prenotato un aereo che partiva dopo un paio d’ore, doveva essere a Napoli nel pomeriggio, gli affari del Padrone meritavano un’attenzione che non ammetteva soste.
Primo si scusò ancora, l’aveva costretta a un viaggio faticoso per una cosa di poco conto, ma lei scrollò le spalle, era felice di potergli essere utile anche nelle sciocchezze, e poi era meglio che lasciasse giudicare a lei. Le raccontò la storia fin dal principio, il secondo cugino che di mestiere faceva il giornalista in una televisione commerciale, un ragazzo che aveva tutte le doti per ottenere successo nella professione, il concorso di bellezza e bravura (la Gis si degnò di sorridere), le voci sulla villa e sul suo proprietario, l’occasione per un’inchiesta che avrebbe potuto essere uno scoop di quelli che lasciano il segno. Dunque Giuseppe cercava informazioni che collegassero la villa con attività non del tutto legittime, o anche solo meritevoli di essere riferite al grande pubblico, lui gli aveva dato qualche indicazione, si chiedeva se fosse possibile mettere Giuseppe in contatto con qualcuno che ne sapesse di più. Naturalmente non voleva creare imbarazzo a nessuno, voleva, molto semplicemente, un consiglio.
Era sempre molto difficile capire cosa la Gis stesse pensando, la sua espressione era in pratica sempre la stessa, cortese attenzione condita da un pizzico di indulgenza, ma questa volta Primo ebbe la sensazione che il suo volto si fosse leggermente rabbuiato. Comunque, la ragazza rifletté per un po’ prima di rispondere, poi gli disse:
«Vede Primo, se il Padrone, il mio Padrone, avesse dovuto risponderle personalmente, mi avrebbe chiesto un parere e poi glielo avrebbe riferito senza cambiare una virgola. Questo per dirle che è come se lei stesse parlando con lui. Per quanto mi riguarda, però, una differenza c’è: se dovessi dare un parere al Padrone, lo motiverei. Con lei, non lo posso fare, deve accontentarsi del parere. Le basta?».
Primo accennò di sì con la testa.
«Posso farle due domande, Primo?».
«Certo».
«La prima riguarda suo cugino, questo Giuseppe. Vorrei sapere quanto ci tiene, quanto conta per lei».
«Esiste, come lei può capire, un problema di sangue, e poi sua madre è stata una mia compagna di giochi, quando eravamo ragazzi o poco più. Lui lo conosco da un paio di giorni, non lo avevo mai incontrato prima. Debbo anche dire però che è un uomo di molte qualità, semplice, senza troppe pretese, anche piuttosto ingenuo e fragile per certi rispetti. È astemio, vegetariano e non sa nuotare, tre qualità che da queste parti non vengono apprezzate, eppure riesce simpatico, la gente gli sorride, sembra contenta di parlargli. Insomma, mi dispiacerebbe se si cacciasse in un guaio».
«Capisco. La seconda domanda è solo una curiosità. Non ricordo che età hanno le sue figlie».
Primo glielo disse e notò che lei era visibilmente contenta che fossero ancora due bambine. Dopo di che, finalmente, arrivò alla conclusione:
«Dica a suo cugino di stare lontano da quell’uomo e da quella casa, di non fare domande in giro, di non mostrarsi curioso. Gli dica che se si è già esposto deve cercare di cancellare le tracce del suo passaggio. Gli dica che quella casa è un nido di calabroni, e che non è pane per i denti di nessuno: non per un giornalista, o per un poliziotto, o per un padrino della mafia, proprio per nessuno, non ora, probabilmente non per molto tempo ancora. Direi la stessa cosa al Presidente della Repubblica. Le dirò di più: se fossi in lui, il solo pensiero di essere venuta qua avendo in mente questa inchiesta mi farebbe paura. Lei mi conosce, non parlo a vanvera. E se vengo a sapere che lei si è immischiato in questa faccenda, la faccio emigrare in Australia, con tutta la sua famiglia».
C’era ben poco da aggiungere, Primo sapeva che lei non avrebbe aggiunto altro, domande non gliene venivano in mente, la ringraziò, le assicurò di aver capito bene – d’altra parte non erano possibili equivoci – e adesso era persino un po’ spaventato, si chiedeva se non avessero già attratto l’attenzione delle persone sbagliate. Così si salutarono, e questa volta fu un saluto un po’ troppo affettuoso, lei gli diede un bacio di quelli che hanno poco a che fare con l’amicizia e molto col sesso, e prima di scendere dalla macchina gli disse qualcosa del tipo «che avrebbe fatto in modo di rivederlo in un luogo più riservato». Primo era così confuso che capì solo una parte del discorso e bofonchiò alcune parole di ringraziamento, così che la Gis se ne andò ridendo allegramente, un miracolo. Ma anche se quest’ultima minaccia poteva avere aspetti gradevoli, Primo era tutto preso dal pensiero di aver messo la testa in un nido di calabroni ed era molto turbato.
A casa trovò una sorpresa, Giuseppe era ripartito in tutta fretta, richiamato dal suo direttore, lasciando un breve biglietto nel quale spiegava che comunque, per tutte le cose che lui sapeva, ci sarebbe stato il tempo di riparlarne il prossimo sabato, sarebbe tornato sicuramente in tempo per essere presente al primo dei due giorni del concorso, per ogni evenienza gli lasciava il numero del cellulare. Primo lo chiamò immediatamente, ma c’era la segreteria telefonica, dovette accontentarsi di lasciare un messaggio. Nella sua segreteria telefonica, quella del telefono di casa, c’erano diversi messaggi, quasi tutti amici o conoscenti che avrebbero richiamato, uno sconosciuto che invece desiderava essere richiamato per una cosa di qualche urgenza, tale signor Garibaldi, anzi tale commendator Garibaldi: era al Grand Hotel, impaziente di sentirlo. Primo chiamò l’albergo, gli trovarono il commendator Garibaldi, uomo piuttosto pomposo, affettato, magniloquente, che gli disse che non aveva la fortuna di conoscerlo, ma aveva bisogno di parlargli, perché non faceva un salto all’Hotel? Primo gli rispose di essere molto dispiaciuto, purtroppo per ragioni personali non poteva frequentare gli alberghi, se riteneva di avere motivi seri per incontrarlo, gli avrebbe certamente fatto spazio tra i suoi impegni del pomeriggio, a casa sua, naturalmente, non aveva altri recapiti. Il signor Garibaldi si raffreddò notevolmente, forse non era abituato a certe villanie, ma prevalse la necessità, trovarono un accordo per incontrarsi vero le cinque del pomeriggio, Primo gli raccomandò la puntualità, il signor Garibaldi gli chiese il massimo riserbo.