Capitolo XIV

 

 

 

 

 

Quattro chiacchiere tra amici. Indiscrezioni e curiosità sul contenuto di un misterioso pacchetto. Dove il racconto scade, per un breve momento, nel Grand Guignol. E dove si apprende la verità sul señor Pedro.

 

Siccome di questa visita – se si può chiamare così – Primo non sapeva assolutamente niente (né poi, per quanto ci è dato sapere, Maite e il dottor Reggiani diedero mai pubblicità a quel loro breve incontro), nelle sue meditazioni post-prandiali continuava a ritenere di essersi accollato, più o meno direttamente, tre problemi morali, tutti di difficile soluzione anche se di diseguale rischio. Quel pomeriggio le sue meditazioni furono interrotte da Giuseppe, che aveva rinviato l’inizio delle sue grandi manovre di almeno un paio di giorni, non poteva incontrare la sua morosa almeno fino alla domenica notte e, francamente, si annoiava. Ma quel pomeriggio, un pomeriggio che non sembrava promettere niente di nuovo di una giornata, tutto sommato, apparentemente priva di forti emozioni, si rivelò interessante, pieno e ricco per entrambi. Primo gli parlò del suo passato, gliene descrisse gli errori, i guai, la solitudine, e poi gli fece un quadro divertente e un po’ cinico della sua vita attuale, gli parlò dei suoi molti interessi, dei suoi amici strampalati, della Romagna, dei libri che scriveva e che avevano un successo che continuava a sembrargli un assurdo mistero. Giuseppe gli parlò di sé, di quello che era capitato alla sua famiglia da quando i suoi avevano lasciato la Romagna, gli descrisse il suo ambiente di lavoro, lo fece partecipe delle sue speranze. Si fece sera in un lampo, se ne accorsero solo perché Maria venne ad accendere la luce dello studio, fu un pomeriggio che nessuno dei due considerò sprecato. E fu anche un pomeriggio utile perché Giuseppe capì che Primo non era per niente un uomo pavido e non aveva alcuna tendenza a sopravvalutare i rischi, semmai aveva una pericolosa propensione a ignorarli. Questo fu uno degli ultimi pensieri che gli attraversarono la testa prima che arrivasse il sonno, doveva ripensare a quello che Primo gli aveva detto, anzi, ci avrebbe riflettuto certamente il mattino dopo.

 

Il mattino dopo, finalmente, era sabato, le bambine partivano di buonissima ora per fare una gita con la scuola, meta un misterioso santuario che Primo non aveva mai sentito nominare prima, ma che tutte le donne – lo aveva scoperto con grande sorpresa – conoscevano perfettamente per la sua particolare e benemerita capacità di interferire nei processi di dissoluzione dei matrimoni, rivitalizzando affetti morenti e ricostruendo affiatamenti che sembravano ormai demoliti dall’usura del tempo. Le bambine erano dunque uscite di casa alle sei del mattino, accompagnate fino all’autobus da Maria, che nel rientrare si era accorta della presenza di un pacchetto, non più grande di una scatola di sigarette, avvolto in carta da regalo, appoggiato per terra davanti alla porta d’ingresso della casa, il che voleva dire che chi lo aveva messo lì era entrato dal cancello e aveva percorso tutto il lungo viale d’accesso. Sul pacchetto, in caratteri minutissimi, con una calligrafia da maestra d’asilo, c’erano due nomi, Primo e Giuseppe: anzi, c’era scritto esattamente Primo o Giuseppe. Poiché Primo se ne era già uscito per la sua solita camminata mattutina – mezz’ora andare, mezz’ora tornare, passo veloce, ma non frenetico, evitare il debito d’ossigeno e le tachicardie – Maria aveva visto prima di lui Giuseppe, che se ne veniva lemme lemme verso la cucina per il caffè, e poiché il pacchetto era indirizzato anche a lui – o a Primo, o a Giuseppe – glielo aveva dato. Giuseppe, incuriosito, lo aveva aperto direttamente sul tavolo della cucina e aveva avuto una strana reazione: aveva tossito – ma avrebbe potuto benissimo essere anche un conato di vomito – e si era precipitosamente alzato per tornare in camera sua, portandosi dietro il pacchetto del quale Maria, anche lei naturalmente curiosa, non era riuscita a vedere il contenuto. Così quando Primo tornò dalla sua camminata, Maria lo bloccò prima che riuscisse a entrare nella sua camera per la consueta doccia e gli disse di andare a vedere cosa era successo a Giuseppe, qualcosa doveva esserci stato, perché da quando si era precipitato in camera sua non ne era più uscito, il caffè si stava raffreddando sul tavolo.

Quando Primo entrò nella sua stanza, Giuseppe stava seduto sul letto, aveva preso il tavolino da notte e lo aveva messo davanti alla finestra, in modo che la luce del giorno lo illuminasse bene. E sul tavolino c’era la piccola scatola, aperta, ma il cui contenuto era nascosto da una falda di cotone azzurro.

«Messa in scena in mio onore?» chiese Primo.

«Temo che sia in onore mio» replicò Giuseppe e indicò la scatola, facendo capire a Primo che voleva che l’aprisse del tutto. Senza sollevarla dal tavolo, Primo la strinse tra le dita e tolse con l’altra mano, molto delicatamente, lo strato di bambagia, chiedendosi, mentre lo faceva, per quale diavolo di ragione si stesse comportando in modo tanto cauto. E poi fece anche lui lo stesso rumore che aveva fatto Giuseppe, un colpo di tosse che avrebbe potuto benissimo essere anche un conato di vomito.

Capisco di averci girato un po’ troppo intorno a questo contenuto della scatoletta, ma a me piacciono poco i colpi di scena e ancor meno il Grand Guignol, e dentro alla scatoletta c’era un po’ di tutti e due e, se avessi potuto, avrei saltato questo argomento a piedi uniti. Se avessi potuto.

Per farla breve, nella scatoletta c’era un dito, il dito della mano di un uomo adulto, di un colore un po’ più scuro di quello che hanno generalmente i tessuti umani nella immaginazione collettiva – ma non in quella degli anatomo-patologi – un dito umano ornato di un vistoso anello con pietra, altrettanto vistosa, azzurra.

«Questo è proprio Pedro – disse Giuseppe, – o almeno una piccola parte di Pedro. Sarebbe interessante sapere dove è finito il resto. Sarebbe ancora più interessante sapere perché, perché gli hanno tagliato il dito, perché lo hanno mandato a noi. Perché quello che forse non sai ancora è che è arrivato fino alla porta di casa tua con sopra scritto che era per me o per te».

Primo sentì improvvisamente il bisogno di mettersi a sedere e di bere un bicchier d’acqua, non era più abituato ai modi della Gentile Segretaria, dire che lo sorprendevano era poco. Decise di optare per la massima franchezza.

«Questo è un messaggio per te, il mio nome c’era solo perché fosse chiara l’origine della scatola. Personalmente ero certo che qualcosa sarebbe arrivato, questa schifezza qui non me l’aspettavo, ma qualcosa del genere sì, qualcosa doveva arrivare. Vedi Giuseppe, la Gentile Segretaria è intenzionata a proteggermi, rapporti personali a parte, soprattutto perché il suo datore di lavoro non la perdonerebbe mai se accadesse qualcosa a me o alla mia famiglia. La ragione per la quale mi considera in pericolo porta il tuo nome, si chiama Giuseppe. La Gentile Segretaria pensava che tu avresti capito il suo messaggio fin da subito, quello che ti ha mandato a dire per mio tramite è che quell’uomo non è pane per i tuoi denti, e credo che quando le ho detto che tu non avevi dato molto credito alla sua opinione lei sia veramente andata su tutte le furie. Il dito di Alvise – sì, si chiama così, Alvise – è quanto lei ritiene sufficiente per farti capire che sta parlando seriamente, se pensasse che tu sei un testone che non dà retta a nessuno, sarebbe arrivato un pacco più grosso e ci avremmo trovato dentro la testa di quel cretino. Lui, se vuoi saperlo, in questo momento sta da qualche parte a succhiarsi il moncone e a maledire il momento in cui ti ha incontrato: lei usa sempre quella che ritiene sia la minima quantità di forza necessaria, non ci mette un muscolo in più. Quanto al tuo Pedro, è un pisquano di Barletta che ha passato qualche anno in Venezuela e ama far la parte del misterioso boss sudamericano. Quando ho saputo chi era, mi è venuto in mente tutto di lui, ai miei tempi non portava l’anello, ma aveva già la mania dell’accento. È un uomo pericoloso: io gli debbo la galera che ho fatto, mi aveva convinto a fare un po’ di soldi con il contrabbando di sigarette e poi mi fregò, la guardia di finanza nelle cassette ci trovò anche la droga, io dentro e lui naturalmente fuori. È falso di cuore, sanguinario, avido e vorace, ma adesso che ha capito con chi ha a che fare si è nascosto nel buco più profondo che ha trovato, perché è anche un pauroso. Ascolta, questa ragazza non la fermi, né con le buone né con le cattive, e quello che vuole adesso è che noi ci mettiamo buoni e tranquilli e lasciamo perdere gli scoop. In questo momento nessuno conosce le tue intenzioni, non sanno nemmeno che esisti, lasciamoli nella loro bestiale ignoranza, verranno tempi migliori. Almeno spero».

Giuseppe sembrava sollevato, era evidente che si era tolto un peso dall’animo.

«A parte il fatto che sono venuto a trovare il cuginetto della mamma, il parente di provincia, e mi sembra di aver incontrato Paul Muni in una delle sue migliori interpretazioni – “sono un evaso da Sing Sing” non era male, – a parte questo, ti chiedo una cosa soltanto, il permesso di raccontare questa storia al mio direttore, mi darà un grande prestigio».

«Ammesso che io possa conservare il privilegio di pormi al niego, qualsiasi cosa il tuo direttore mi possa chiedere. Sono un appassionato lettore di Machiavelli».

E così lo scoop sulla villa chiamata dagli abitanti della zona «La Voce del Padrone» sembrò, almeno momentaneamente, abbandonato.