Capitolo IV

 

 

 

 

 

Implicazioni inattese del plurale maiestatis. I reali bisogni del proletariato: più crema nei bomboloni, preservativi più comodi. Ma chi sono gli imbecilli che comprano i «van»?

 

La dottoressa Mazzucato doveva essersi preparata un discorso standard per quelle occasioni, partiva da lontano, per preparare il terreno, e cominciava con alcuni ragionamenti altrettanto vaghi quanto poco pertinenti, ma impregnati di un falso ottimismo, il progresso della medicina, la scienza che prima o poi sconfigge tutti i nemici della salute dell’uomo, cose così. Terminati i preamboli, la dottoressa – non un fulmine come psicologa – arrivava, con inattesa brutalità, al cuore del problema: cara signora, purtroppo (ma i progressi della scienza?) lei è risultata positiva al test per l’AIDS, e questo ci pone dei problemi (anche alla dottoressa Mazzucato? E perché?) che dobbiamo affrontare con grande tranquillità e soprattutto cercando di non perdere la testa (oddio, mi sta dicendo che ho un tumore al cervello!).

La dottoressa aveva un grosso plico di fotocopie sul tavolo, tabelle e grafici ai quali dava un’occhiata ogni tanto, soprattutto quando voleva citare dati e percentuali; per il resto, almeno nell’opinione di Pavolone, aveva un linguaggio un po’ bislacco, non sempre facile da capire; in più ogni dieci parole ripeteva «e quant’altro», una espressione che sembrava alludere a fatti che tutti loro dovevano necessariamente conoscere, ma che a Pavolone risultavano del tutto ignoti. In ogni caso fu molto paziente, tornò più volte sullo stesso argomento e alla fine dell’incontro quello che i due sapevano per certo era che Maite aveva una malattia, «quella malattia», che era inutile dilungarsi nelle spiegazioni perché ne parlavano continuamente i giornali, che peraltro ai giornali bisognava credere fino a un certo punto, in ogni caso, mai disperare.

«Ci sono cose – disse la dottoressa – che dovete imparare a proposito della vostra vita di coppia, problemi che hanno a che fare con il sesso e con le gravidanze, per evitare che anche lui si ammali e per non avere figli che nascano già ammalati. Per queste informazioni c’è una persona apposta con la quale dovete prendere appuntamento. Poi c’è il problema della progressione della malattia, anche per questo c’è un ambulatorio apposta, vi diranno quali sono i rischi e di cosa dovete preoccuparvi...».

«Non si guarisce mai?» la voce di Maite non tradiva alcun tipo di preoccupazione, sembrava solo piena di curiosità.

«Alla guarigione – rispose la dottoressa – è forse meglio non pensare, ma ci sono persone che sono particolarmente resistenti al male e che sembrano non peggiorare mai...».

«Raccomandati?» chiese Maite

«Come dice?»

«Dai – Maite sembrava quasi divertita – lo sappiamo come vanno le cose in questo paese...».

La dottoressa era evidentemente confusa.

«Non credo di capire – disse. – Comunque per tutte queste cose, la prognosi, le cure necessarie, gli esami, c’è un ambulatorio: il numero di telefono è il secondo dell’elenco, è bene telefonare subito, hanno una lista d’attesa».

«Ti avevo detto che bisognava andare a pagamento – questa volta Maite si stava rivolgendo a Pavolone – questa qui non sa niente...».

«Ascolti signorina...» cominciò irritata la dottoressa.

«Lasci stare – disse rassegnato Pavolone, – questa qui quando si convince di una cosa... Mi dica invece cosa si può fare per avere un figlio, stavamo proprio pensando...».

«C’è un Centro Universitario – la dottoressa era evidentemente ansiosa di liberarsi di quei due, – sì e no un’ora di macchina, sono molto attrezzati per queste cose, anche per il loro ambulatorio...».

«A lui i preservativi vanno tutti stretti – la interruppe pensierosa Maite, – ha un caraco come un palo del telegrafo. Faglielo un po’ vedere...».

«Per carità, non è il caso – la dottoressa sembrava sempre più agitata, – sono certa che se cercate meglio...».

«Lasci stare – adesso era Pavolone a sembrare perplesso – sembra proprio che lei di queste cose ne sappia poco. Forse era meglio andare a pagamento».

«Chiediamo a Primo» disse Maite lanciando un’ultima occhiata di disprezzo alla dottoressa.

«Chiediamo a Primo» acconsentì Pavolone.

Al termine di quella conversazione, Maite poteva dire di aver capito solo che la dottoressa era molto ignorante, non sapeva niente di malattie e di preservativi e l’unica cosa importante che le aveva saputo dire era che avrebbe dovuto prendere farmaci per tutta la vita. Dal canto suo, Pavolone aveva capito ancor meno e si era soprattutto incuriosito per un riferimento poco comprensibile che la dottoressa aveva ripetuto molte volte (a lui erano venute in mente le parole incrociate) – trasmissione orizzontale, trasmissione verticale – del quale si proponeva di chiedere chiarimenti a Primo.

E così erano andati al Centro Universitario specializzato nel trattamento delle malattie infettive nelle coppie che volevano avere un figlio, e adesso avevano le idee più chiare, ma molti problemi da risolvere. La cosa forse più importante e positiva era che avevano trovato un medico straordinariamente gentile, che si era appassionato al loro caso, aveva fatto un mucchio di domande sulla loro vita passata, divertendosi un mondo; ma il suo pregio maggiore era stato il linguaggio, niente gergo medico, parole semplici, facili da capire, uno che parlava come gli aveva insegnato la maestra. Un bravo medico gentile che, dopo aver dato loro tutte le informazioni utili e necessarie, si disse stupito di vederli così lontani da casa: nel loro ospedale, disse, c’era uno dei migliori centri del paese.

Spiegarono a Primo (in realtà parlò solo la ragazza, Pavolone fece energici cenni di assenso ogni volta che gli parve opportuno) quello che stava loro capitando: Maite era sieropositiva, dunque non potevano avere rapporti senza usare un preservativo, erano stati già abbastanza fortunati, fino a quel momento gli esami di Pavolone erano negativi; Maite poteva avere un bambino: se avesse fatto le cure giuste e avesse partorito con un taglio cesareo, le probabilità di trasmettere il virus in gravidanza a suo figlio non superavano il 3-4%. Per avere un bambino, visto che l’uso del preservativo era obbligatorio, avrebbero dovuto utilizzare una tecnica medica, una cosa artificiale, che poteva essere più o meno semplice a seconda del risultato di alcuni esami che dovevano ancora fare. Anche la tecnica semplice, che pure per certi rispetti era talmente facile che l’avrebbero potuta imparare e usare da soli, in realtà avrebbero dovuto affidarla ai medici, per ragioni che non avevano capito bene, ma che al momento avevano ritenuto sagge; ma tutte le tecniche delle quali stavano discutendo erano regolate da una legge e questa legge proibiva alle coppie che potevano avere figli spontaneamente di essere ammesse ai trattamenti; in ogni caso la maggior parte degli ospedali non era attrezzata per trattare coppie sieropositive. Tutto era poi complicato dal fatto che un ministro della salute, conosciuto soprattutto per essere più ignorante di un bambino dell’asilo in materia di sanità, aveva cercato di cambiare le regole per cercare di far ammettere anche le persone come loro ai trattamenti; che però adesso c’era un ministro molto religioso che diceva che le proibizioni non potevano essere toccate, era una questione morale. Ah, da ultimo, Maite non avrebbe potuto allattare.

«Cabron, maricon!» esplose Maite e Primo capì che si riferiva al ministro e non al fatto di non poter allattare. Naturalmente la sua prima preoccupazione era stata per le bambine, erano sempre su e giù dalle ginocchia di Maite, avrebbe dovuto informarsi meglio sulle possibilità di un contagio, anche se gli pareva di aver letto che si trattava di una paura irrazionale. Quanto al resto, immaginava che una soluzione l’avrebbero trovata, in un modo o nell’altro, questa era l’Italia, mica la Svezia, questo era il famoso paese delle scappatoie, il paese dove si riesce ad arrangiare ogni cosa. I due ragazzi si tranquillizzarono, adesso il loro problema era in buone mani e in più si era fatta l’ora di andare a dormire.

«No – disse Pavolone – prima dobbiamo comprare i preservativi».

Uscirono discutendo delle varie marche, a Maite ne piaceva una che però a Pavolone andava un po’ stretta, anche nella misura maggiore. Primo sentì la ragazza che diceva «e poi, a te va sempre stretto tutto, ormai lo sai e ci dovresti aver fatto l’abitudine…» ma non riuscì a capire la fine della frase.

 

Lunedì mattina, giorno particolare per la maggior parte delle persone, giorno in cui si ricomincia a lavorare, davanti ci sono almeno cinque giorni di fatica, bisogna rimediare agli errori del fine settimana, e poi le cose che il venerdì sera abbiamo pensato di rinviare, lo facciamo lunedì, ci pensiamo lunedì, tanto mancano due giorni interi. Per Primo il lunedì era un giorno come gli altri, come il giovedì e la domenica, lui non aveva un impegno fisso, il suo lavoro consisteva nello stare dietro a un tavolo e scrivere, fermarsi ogni tanto e leggere, smettere di leggere e scrivere, un lavoro così non prevede l’esistenza del lunedì. Il lunedì, certo, le bambine andavano a scuola, ma le accompagnava Maria, e questo, a pensarci bene, rendeva quel giorno diverso anche per Primo, se suonavano il campanello doveva andare lui ad aprire, Maite arrivava più tardi e da qualche tempo anche Pavolone sembrava soffrire della stessa sindrome, e mêl dla nóna, la chiamava Proverbio, il male della nonna, che in realtà alludeva al mal caduco, ma che si poteva anche semplicemente riferire al piacere di poltrire un po’ di più sotto le coperte, al mattino.

Tutti quelli che erano già stati almeno una volta a casa di Primo (che poi era la casa di Proverbio, ma nessuno ne teneva più conto) sapevano che il cancello che dava accesso al lungo viale che conduceva alla dimora principale si apriva a spinta, per cui scendevano dalla macchina, aprivano, risalivano in macchina e percorrevano il vialetto per arrivare fino alla corte sulla quale la casa si affacciava: per ragioni che non avrebbero saputo spiegare, né Proverbio né Primo avevano fatto inserire un marchingegno che aprisse le due ante senza bisogno di farsi quei duecento metri a piedi, forse avevano pensato che la soluzione più semplice era quella di tenere il cancello sempre aperto, quasi tutte le persone che li andavano a visitare lo sapevano, si erano risparmiati una spesa. Questa volta, però, il campanello suonò di nuovo dopo un paio di minuti, questo voleva dire che chi suonava non conosceva le abitudini della casa. Primo fece un rapido esame dei suoi impegni, visitatori non ne attendeva, c’era solo la concreta possibilità che si trattasse di quel tale Giuseppe, il suo secondo cugino, naturalmente l’Elsa si era ben guardata dal dirgli che il figlio era già sul sentiero di guerra. E così Primo si fece i duecento metri a piedi e arrivò fino al cancello, dove lo aspettava, naturalmente, proprio Giuseppe, chi altri poteva essere?

Fuori dal cancello c’era, parcheggiata con noncuranza, una delle cose che Primo odiava di più al mondo, una vettura costruita ad imitazione di un gippone militare, ma più alta e più larga, che da sola occupava più della metà della carreggiata della maggior parte delle strade, un insulto al buon senso che secondo Primo dava ragione di alcune caratteristiche specifiche che la maggior parte dei proprietari condivideva: boria, arroganza, grande sicurezza di sé, insomma tutte quelle qualità negative che secondo Proverbio si concentravano nell’antico termine romagnolo (ma non solo) di sburôn, che sarebbe uno che quando eiacula produce una grande quantità di sperma, alternativa a dês dla rânda, andare sempre a vele spiegate, oppure lasêr la basa a e gêval, star solo sui luoghi elevati, per lasciare quelli più bassi al demonio, tutte cose che chi non conosce il dialetto e parla solo in italiano è costretto a tradurre in uno striminzito «darsi delle arie», niente da fare, l’italiano sarà forbito quanto vi pare, ma per esprimere i concetti è proprio un disastro, specie se volete parlare di cose che richiedono delle sottili distinzioni.

Questa volta, però, almeno d’aspetto, il proprietario della mostruosità non sembrava per niente coincidere con lo stereotipo che Primo aveva in testa, né uno snê né un sachêri, né lezioso né spaccone: era un ragazzo di poco più di trent’anni, di aspetto educato e gentile, vestito in modo sportivo, ma non trasandato, barba fatta, camicia pulita, modi educati, niente da fare, a prima vista era decisamente simpatico.

«Tu sei…?».

«Giuseppe. E tu sei…».

«Primo».

«Detto Terzo».

«Farina del sacco di tua madre».

Il ragazzo sorrideva, un bel sorriso largo e cordiale che confermò l’impressione che Primo aveva avuto a pelle, simpatico, malgrado il carro armato dal quale era sceso.