In realtà si dovrebbe dire «quistioni». Di quante morti si può morire? Un tronco senza radici. Considerazioni sul momento in cui si spegne la luce. Mani operose e prudenti.
Primo andava tutti i giorni a trovare Proverbio in ospedale e ormai molti degli sgomenti che gli avevano procurato per anni la vista dei camici, gli odori che uscivano dagli ambulatori, i parenti in lacrime, si erano attenuati, si fa l’abitudine a tutto. Gli era rimasta però una forte sensazione di disagio ogni volta che doveva avvicinarsi a un reparto di terapia intensiva, tutta colpa dei suoi brutti ricordi, ci era dovuto passare anche lui e per molto tempo gli incubi lo avevano svegliato alla notte.
Capita a tutti di avere un incidente, magari un incidente molto brutto, morti, feriti, tu stesso non sai più da che parte stai e quando cominci a connettere di nuovo scopri di esser stato ricoverato nel reparto di rianimazione di un ospedale specializzato in chirurgia del cervello. A lui però era andata peggio, un incidente è una cosa comune, può capitare a tutti: lui invece lo aveva mezzo ammazzato un delinquente che era riuscito solo a metà, l’intento era quello di ammazzarlo del tutto. Primo aveva subito un brutto danno alla spina dorsale, era stato lì lì per morire, poi era tornato lentamente alla vita, ma i segni di quella storia li aveva ancora addosso, era atassico, il che voleva dire che aveva perso una buona parte dell’equilibrio, e poi aveva perso sensibilità al dolore e al calore, quando entrava nella vasca da bagno doveva stare attento a farlo con la gamba giusta, se no che l’acqua fosse troppo calda glielo diceva per prima cosa l’odore di bollito. Piano piano era riuscito a eliminare gran parte dei cattivi ricordi, molte delle sue sofferenze le aveva proprio sepolte da qualche parte, sotto qualche mucchio di neuroni rinsecchiti e smessi, ma il luogo, la gente, le sofferenze degli altri, chissà perché, erano rimasti lì a galleggiare, non se ne era mai liberato. E adesso andava in ospedale a parlare di sofferenze che riguardavano proprio persone che erano state ricoverate in un reparto di terapia intensiva, una cosa che lo rendeva piuttosto nervoso e gli ravvivava proprio quei ricordi.
Il Servizio di Rianimazione nel quale era stato ricoverato per molti giorni se lo ricordava molto bene: era un enorme stanzone, diviso da un gran numero di paratie in una decina di loculi, ognuno con un solo letto e una quantità inverosimile di macchinari. Le paratie erano alte sì e no due metri, non c’era soffitto, il soffitto vero era lassù per aria, così che i rumori di tutto il reparto non sembrava che avessero una vera origine, era come se l’intero edificio fosse un unico grande generatore di suoni, dai quali, in effetti, non c’era alcuna possibilità di riparo. Dopo un po’ aveva imparato a distinguere il rantolo del 9 dal respiro stridulo del 5, e poi a interpretare i rumori strani, come quelli che faceva a intervalli regolari l’intestino del 6, qualcosa che gli ricordava l’apertura dei tini, aria e acqua che uscivano insieme gorgogliando, e a distinguerli da quelli meno consueti e più drammatici, come le grida di chi stava riprendendo conoscenza dopo una lunga anestesia e si trovava circondato dalle fiamme del dolore. Verso mezzanotte si sentivano gli infermieri che stappavano una bottiglia di vino, in realtà facevano un minimo, proprio un minimo di schiamazzo, ma qualcuno gli aveva detto che non era proprio possibile farne a meno: ogni giorno due o tre dei ricoverati se ne andavano per sempre, un mestiere di merda, se non trovi il modo di sopravvivere diventi pazzo. Recentemente ne aveva parlato a Proverbio, che stava facendo le sue stesse esperienze, per giustificare quelle innocenti festicciole nel cosiddetto «tempio del dolore», ma non aveva trovato alcuna comprensione, il vecchio si era semplicemente incazzato e non aveva per niente apprezzato la sua allusione sarcastica alla retorica.
Ricordava. Nel letto alla sua destra c’era il dottor R., una brutta manovra del suo massaggiatore gli aveva praticamente schiacciato le arterie vertebrali, una sindrome di Wallemberg come la sua, ma molto peggiore, i medici erano apparentemente soddisfatti, due casi così, insieme, nessuno li aveva mai visti, e poi tutti e due pieni di interessanti complicazioni, ci scappava proprio fuori una pubblicazione, un «lavoro» dicevano gli assistenti. Il dottor R. era morto lo stesso giorno in cui Primo aveva lasciato il reparto: lesioni troppo gravi, meglio così, avevano detto gli infermieri, che avevano un concetto molto pragmatico del bene e del male, del meglio e del peggio. L’unica persona che Primo aveva visto in lacrime – lacrime sommesse, silenziose – era stata la moglie, la seconda, piena di una dignità che la gente non capiva e apprezzava poco. Il dottor R. aveva due figli di primo letto che non lo avevano mai amato e che erano soprattutto preoccupati che non avesse fatto qualche scherzo col testamento, a chi non li conosceva potevano sembrare due bravi ragazzi sgomenti e addolorati.
Dal cubicolo alla sua sinistra gli erano arrivati, per tutto il periodo della sua degenza, i rumori ritmici dell’apparecchio che manteneva in vita un ragazzo di poco più di 20 anni, tradito dalla moto che si era impennata senza una ragione plausibile e lo aveva scaraventato contro un muro, a testa in avanti. Gli infermieri gli avevano spiegato che aveva una sindrome strana e rara, gli americani la chiamavano locked in syndrome, il suo cervello era vivo e funzionava normalmente, ma non era in grado di dare ordini al suo corpo, nessun ordine, per cui nessun segnale di vita, tutti lo avevano a lungo creduto in coma profondo. Dentro alla sua prigione doveva essere stato terrorizzato dall’idea che i medici non si accorgessero che lui era ancora lì, vivo, perdio, vivissimo, a immaginare cose terrificanti e a cercare di capire cosa stesse accadendo tutto intorno, ma la sua prigione non aveva finestre ed era fatta di buio e di silenzio. Erano arrivati alla diagnosi dopo cinque giorni, un’eternità. Primo sapeva che in seguito era riuscito a comunicare muovendo una palpebra e che era morto dopo più di un anno per complicazioni polmonari.
Due letti più in là, al cubicolo numero 6, c’era un farmacista di 30 anni, operato per un tumore al cervello. L’intervento era andato abbastanza bene, così dicevano i medici, il guaio era che di vivo, in lui, era rimasto solo il corpo, l’intestino che si muoveva, la barba che cresceva, il cuore che batteva. Quel corpo, che lui aveva abitato con entusiasmo per tanti anni, proprio non voleva morire, come lui si era sempre augurato, ed era destinato a sopravvivergli anni, assistito dalle macchine. Sua madre, donna molto pia che aveva molto sofferto vedendoselo sfuggire dalle grinfie e diventare autonomo e indipendente, era tornata finalmente ad avere il controllo del suo ragazzo e aveva fatto piani per il futuro. Poiché non c’era nessuno disposto a combattere in suo nome, la madre aveva potuto ottenere che quel corpo senza padrone fosse mantenuto in vita e per anni lo aveva assistito come se fosse stato ancora vivo. Primo le aveva parlato una volta, molto tempo dopo, nella farmacia, e aveva capito che aveva dovuto combattere con il marito, che le ricordava continuamente le idee del figlio, completamente diverse dalle sue: chiacchiere, diceva la donna, sciocchezze che si dicono, tutti sanno che sui problemi della vita e della morte l’unica saggezza ti viene dalla fede. E poi a confortarla nella sua scelta, c’era il fatto che quando gli suonava, al pianoforte, le arie delle romanze che gli erano tanto piaciute, qualche volta, se uno sapeva guardarlo bene negli occhi, era chiaro che le apprezzava e che era lieto di essere lì, ancora vivo. Vivo?
Dalla parte opposta dello stanzone c’era un vecchio professore di filosofia, vedovo, senza figli. Si era sparato un colpo di rivoltella in testa, perché non riusciva a trovare più una sola motivazione per continuare a vivere, ma forse la mano gli era tremata, chissà, e così si era risvegliato lì, ancora vivo, con metà del corpo che non gli ubbidiva più, e con i medici che lo avevano operato che dicevano che c’erano speranze. Gli infermieri gli si avvicinavano mal volentieri, raccontavano che era un uomo pieno di odio, che aveva persino maledetto chi gli aveva salvato la vita, li aveva chiamati imbecilli, malevoli, disumani imbecilli.
Primo ricordava anche una donna che era stata ricoverata nel reparto per un solo giorno, una donna in coma profondo, il marito, sempre ubriaco e sempre violento, le aveva praticamente spappolato il cranio sbattendolo, più e più volte, contro il tavolo della cucina. I medici l’avevano operata due volte, a distanza di poche ore: puro esercizio avevano detto gli infermieri; non bisogna mai demordere avevano detto i chirurghi. Uscito dall’ospedale, Primo aveva cercato di scoprire se ci fosse qualcuno che si prendeva cura dei suoi due figli, gli dissero che una sorella che viveva in Abruzzo li aveva presi con sé. Anni dopo si era chiesto se non avesse dovuto fare qualcosa anche per gli altri, per il giovane farmacista, per il vecchio professore, e per un momento si era sentito a disagio con se stesso, come se quei brevi momenti di vita comune avessero creato dei legami dei quali non si era voluto preoccupare. Adesso, ogni volta che andava a trovare Proverbio o che si avvicinava a quel particolare reparto, quella sensazione di disagio gli tornava, una cosa che lo infastidiva molto.
Il dottor Aquilani aveva fatto carriera sempre all’interno degli ospedali, il mestiere che aveva fatto più a lungo era stato quello di direttore sanitario. Considerato da tutti un uomo onesto e capace, era riuscito in un compito improbo, quello di essere stato candidato dalle opposte fazioni politiche per la direzione dell’ASL, qualsiasi altro nome era sembrato inadeguato. Le qualità che Macbetto considerava opposte a quelle di Primo erano soprattutto una grande (esagerata?) prudenza e l’abitudine di non pronunciarsi mai se non dopo avere studiato un problema fin nei suoi più insignificanti particolari. Si fece raccontare da Primo tutta la storia, almeno come lui l’aveva appresa, lo portò a mangiare alla mensa dell’ospedale, dove chiacchierarono del più e del meno e poi lo riportò nel suo studio per continuare la conversazione.
«Dunque – disse Aquilani – intanto sono contento che sia lei a presentarmi questo problema, anche se temo che al termine della nostra conversazione ne dovrò fare oggetto di una relazione al magistrato, è un dovere al quale non mi posso sottrarre. Non c’è bisogno che le spieghi quanto queste questioni – in realtà, il dottor Aquilani diceva “quistioni”, il che denunciava una antica comunione di vita con i moralisti – quanto queste quistioni, dicevo, riescono a suscitare profonde e immediate risonanze affettive, da ogni angolo di strada salta fuori un cattolico intransigente per il quale anche la vita puramente biologica, se solo è umana, è sacra, e su di lui si paracaduta un laico altrettanto intransigente che ritiene che per essere considerati persone viventi bisogna dimostrare un quoziente di intelligenza che almeno rientri nella deviazione standard della media nazionale. Le proporrò le due facce del problema, poi potremo entrare nel merito. Una faccia è quella medico legale. Intanto è necessario stabilire che diancine è la morte, se non la definiamo non possiamo affrontare il problema di come accertarla. Guardi, proviamo a fare un gioco io e lei, mi dia una risposta secca, senza pensarci: cos’è la morte?».
«L’assenza della vita» rispose Primo, sospettoso.
Il dottor Aquilani prese un dizionario dalla libreria che stava dietro alle sue spalle, cercò un po’, poi lesse: «“Morte: cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali o in ogni altro organismo vivente o elemento costitutivo di esso”. Praticamente le sue stesse parole: solo che entrambi chiamate in causa un’altra definizione, quella di vita, definite la morte in negativo, adesso voglio vedere come ve la cavate se vi chiedo di definire la vita».
«Però – a Primo non piacevano le trappole dei sofisti – però io ho imparato che in medicina le definizioni sono essenziali, nessuno le può ignorare, e non mi pare che ci siano accenni a definizioni in positivo o in negativo».
«Bravo – disse Aquilani, – è proprio così. Il che complica ancora le cose, perché per i medici la morte ha inizio quando cessano in modo definitivo tre funzioni, quella cardiocircolatoria, quella respiratoria e quella nervosa e le definisce rispettivamente morte clinica, reale e legale, partendo sempre dal principio che comunque, tranne casi eccezionali, immagini ad esempio la decapitazione, la morte non è mai istantanea, è sempre un processo. In secondo luogo, sono gli stessi medici a criticare le definizioni della medicina, perché non considerano corretto parlare di morte cardiocircolatoria, respiratoria e neurologica, perché la morte è un evento unitario: quelli che ho citato sono solo criteri che possono essere utilizzati per la diagnosi».
«Se lei mi vuole dimostrare che si tratta di un argomento complesso, ci è riuscito. Ma a me piacerebbe capire qual è il criterio ultimo, quello che non ammette ripensamenti».
«Infatti questo è il punto. Una volta, quando la gente moriva a casa sua senza tanti contorcimenti, era relativamente semplice: se il cuore smetteva di battere e la persona non respirava, non arrivava più sangue al cervello e dopo pochi minuti era tutto finito. Oggi solo una piccola percentuale dei pazienti che hanno subito una lesione cerebrale acuta va incontro a morte, grazie soprattutto alla medicina intensiva. Adesso, se una persona non respira spontaneamente le macchine provvedono a sostituire la funzione perduta, e questo ci fa correre il rischio di somministrare cure inutili, quelle che i giornali chiamano “accanimento terapeutico”. Tutta l’attenzione si è quindi spostata sulla morte del sistema nervoso, sui cui criteri però non c’è accordo assoluto, la maggior parte dei medici condiziona la diagnosi all’accertamento della morte cerebrale, cioè della cessazione di qualsiasi attività del cervello, incluse quelle del tronco encefalico; altri vorrebbero considerare sufficiente la perdita irreversibile dell’attività della corteccia, dalla quale dipendono le capacità razionali; altri ancora sono alla ricerca di nuovi criteri, basati su una maggiore prudenza ed è significativo che le varie parti si trovino in profondo disaccordo persino sulla definizione di prudenza. Naturalmente la maggiore difficoltà consiste nello stabilire se la condizione di danno con la quale il medico si confronta è irreversibile. La vedo perplesso».
«Non so cos’è il tronco encefalico».
«Le risparmio l’anatomia, pensi a tutta quella parte del cervello che controlla le fondamentali funzioni del corpo, dalla regolazione della temperatura agli automatismi respiratori, insomma tutti i processi biologici e chimici essenziali per la vita. Ricordi però che la medicina non è fatta di certezze assolute. Se da un lato lo standard neurologico di morte comporta la perdita irreversibile di tutte le funzioni encefaliche e la perdita, altrettanto irreversibile, del cervello e delle sue funzioni di integratore dell’organismo, dall’altro esistono casi, che pure sono coerenti con lo standard neurologico di determinazione di morte, in cui sono evidenti alcune funzioni encefaliche residue e in ogni caso permane un minimo livello di integrazione biologica che prolunga le funzioni extracerebrali, soprattutto quella cardiocircolatoria. In altri termini anche nei casi in cui è stata fatta la diagnosi di morte cerebrale si può dimostrare la presenza, sia pur residua e temporanea, di minuscole isole di funzionalità del cervello, di qualche attività elettrica, di una minima irrorazione dei vasi cerebrali. Quello che però cancella ogni dubbio è il fatto che non è mai stato osservato un recupero delle funzioni encefaliche sulle quali si basa lo standard neurologico di morte cerebrale».
«Questa gente, le persone che sono venute da me, affermano che la giustificazione dei medici era più o meno questa: abbiamo fatto un elettroencefalogramma, era privo di attività nervosa, piatto, per cui era inutile che quel corpo, anzi quel cadavere, continuasse ad occupare un letto di ospedale che in quel momento era prezioso e indispensabile per salvare un’altra vita. Il che significa, mi corregga se sbaglio, che un encefalogramma piatto è indicativo di una morte cerebrale, dimostra che in quella particolare testa non c’è più niente che funziona, né corteccia né tronco encefalico. È così?».
«Assolutamente no, tanto che io ritengo che i suoi amici abbiano fermato nella memoria solo le parole che li hanno colpiti di più, nessun medico farebbe un discorso del genere, soprattutto un medico che lavora in un reparto di terapia intensiva. Già l’uso del termine “piatto” è scorretto, si parla di “silenzio elettrico assoluto” o di “elettroencefalogramma silente”. Poi lei fa riferimento a un esame che non dà mai l’assoluta certezza che un cervello sia irreversibilmente spento, tanto che non lo si può mai utilizzare da solo, ma sempre e soltanto insieme a un elettrocardiogramma che deve essere eseguito senza interruzioni per 20 minuti».
«Stavo cercando di fare un test su di me, per vedere quanta parte di quello che lei mi ha detto sono in grado di ricordare, e mi rendo perfettamente conto del fatto che, per quanto io sia stato attento a quanto mi diceva, la mia capacità di rievocazione è poco affidabile, non riesco a ricordare che alcune cose. D’altra parte non c’è dubbio che su tutto questo lei dovrà sentire i medici. Immagino che esistano regole molto precise e puntuali per accertare la morte in casi come questi».
«Per ora, diciamo per ora. Le regole attuali sono state siglate ad Harvard, sono contenute in un celebre documento che qualcuno recentemente ha cominciato a contestare, e poiché questo qualcuno ha avanzato le sue perplessità sull’Osservatore romano è improbabile che la cosa si fermi lì. Insomma c’è chi ritiene che le nuove conoscenze mettano in dubbio il fatto che i criteri adoperati sinora siano effettivamente in grado di accertare la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo. Ma c’è di più. Se l’encefalo garantisce l’integrazione dell’intero organismo, i pazienti ai quali è stata diagnosticata una morte cerebrale dovrebbero andare incontro a un arresto cardiocircolatorio in brevissimo tempo, cosa che non è completamente vera. Insomma, si torna a ragionare su altri e differenti criteri di morte, una cosa che spaventa chi si occupa di trapianti di organi, la gente è sempre molto sensibile agli argomenti di chi li accusa di essere dei predatori. Per ora, però, ha ragione lei, ci sono regole precise».
Il dottor Aquilani prese una carpetta da una fila di documenti, ne trasse alcuni fogli, chiamò la segretaria e le chiese di farne una fotocopia.
«Qui troverà le norme, è un decreto del 2008 che rivede il vecchio regolamento del ’94. Si renderà conto che si tratta di accertamenti complessi e accuratissimi, che non lasciano spazio ad errori e che prevede tutte le possibili circostanze del morire. Lo legga. Se vuole lo dia o lo spieghi ai suoi amici. Posso dirle qualcosa, diciamo, di molto personale, come commento finale?».
«Certamente, ma poi mi dovrà concedere due soli minuti per una domanda di tenore del tutto diverso».
«Comunque finisca questa storia è un gran peccato che sia cominciata, qualcuno deve per forza aver commesso qualche errore. Già la gestione di quei benedetti otto letti è un problema molto delicato e che deve essere affrontato con grande cautela, ma anche con assoluta trasparenza: ci sono casi nei quali l’assoluto rispetto della legge può avere conseguenze dolorose, lasciare morire un ragazzo di vent’anni per non rimuovere da un letto di assistenza un vecchione che non ha alcuna probabilità di ritornare a essere cosciente non è solo doloroso, è anche profondamente ingiusto. In secondo luogo, su questi temi si apre sempre immediatamente un conflitto tra laici e cattolici. Poi c’è un problema più generale, che riguarda un fantasma del quale è difficile liberarci, quello di essere sepolti vivi, o di essere vittime di una errata constatazione di morte, la tafofobia: leggende metropolitane e racconti di Poe a parte, questo timore si riflette in modo negativo sulla donazione degli organi e non c’è niente di peggio di una notizia come questa, magari data nel modo sbagliato, per farlo dilagare. Comunque adesso debbo sentire i medici e poi mandare una relazione al magistrato di turno, speriamo bene. Dica ai suoi amici di lasciare un recapito alla mia segretaria, li terrò informati e certamente troverò il modo di incontrarli».
Primo lo ringraziò, lui era stato solo un ambasciatore, non aveva alcuna veste per occuparsi del problema, sperava di non doverne seguire l’evoluzione sui giornali. Aveva però un altro problema, di natura completamente diversa, un suo dipendente che si era scoperto sterile e con una serie di complicazioni aggiuntive, voleva sapere a chi avrebbe potuto rivolgersi, possibilmente in ospedale.
«Scelta obbligata – gli disse Aquilani, – queste cose passano per forza sotto il controllo delle mani operose e prudenti, molto, molto prudenti, del dottor Reggiani, che ha la direzione di questa unità di cura che si occupa di sterilità. Purtroppo io e il dottor Reggiani non ci possiamo soffrire, sentimento intenso e reciproco, non gli faccia mai il mio nome».
«Stesso cognome del dermatologo – azzardò Primo, – non è che…».
«Fratelli, non mi ci faccia pensare».
«Non è che lei per caso ha sentito una storia che riguarda il fratello dermatologo e che ha a che fare con una bastonatura?».
«Cinque o sei volte, credo, versioni diverse ma base del racconto identica».
«Ebbene, il mio protetto è il bastonatore».
«Questo potrebbe aiutarlo, i due fratelli non si possono vedere».
Mentre usciva, Primo udì la voce di Aquilani al citofono che chiedeva alla segretaria di chiedere al primario della rianimazione di andare da lui. Subito. La voce non prometteva niente di buono.
Primo era un uomo che manteneva le promesse, e poiché aveva promesso a Giuseppe di trovargli qualcuno che potesse fare un po’ di luce sui misteri (ma c’erano misteri?) di Villa La Voce, appena arrivato a casa chiamò al telefono il Padrone, quello che aveva il controllo di un mondo apparentemente parallelo a quello della politica, sapendo bene che i due mondi tendevano a tracimare l’uno sull’altro con imbarazzante frequenza, perché questo signore, proprio quello al quale Primo aveva deciso di chiedere una consulenza, controllava una buona fetta del malaffare italiano.