Capitolo VII

 

 

 

 

 

Storia di una amicizia acritica. Vi presento la Gis. Pettegolezzi su Maite e sul dermatologo arrapato. Medicina curiale. Gli scherzi dell’ormone della crescita. Già che ci sono, vi presento anche Dorotea.

 

Come fossero nati i rapporti tra Primo e il Padrone è una storia lunga, appartiene a quella parte del passato alla quale Primo non tornava volentieri con la memoria e non sarebbe cortese nei suoi confronti approfondirla: vi dovrebbe bastare sapere che in circostanze particolari erano stati quasi casualmente utili l’uno all’altro, e che da questi eventi era nata una sorta di simpatia acritica, si piacevano e non si giudicavano. Da quei giorni lontani, si erano cercati pochissime volte, ma quando si erano cercati si erano trovati. Al telefono rispose però la Gis, acronimo di Gentile Segretaria, persona di fondamentale importanza nella vita del Padrone, altra figura importante nei ricordi di Primo: come sempre la ragazza si mostrò sinceramente lieta di sentire la sua voce, ma gli disse che purtroppo, da qualche anno, il Padrone passava quasi tutto il tempo in una villa che si era comprato alle Bermude. Ormai il suo principale veniva in Italia molto raramente, una parte dei suoi affari li delegava ad alcune persone fidate, una parte, con molta generosità, li affidava proprio a lei. Era molto improbabile che potesse pianificare un viaggio in Italia prima di qualche mese, ma trattandosi di Primo, lei avrebbe fatto tutto il possibile perché si potessero parlare. Poteva accennarle il motivo della telefonata? Meglio di no? Cose che al telefono… Benissimo, tempo poche ore lo avrebbe richiamato.

Giuseppe non era nelle vicinanze, adesso Primo poteva dedicare un po’ di tempo a Pavolone e a Maite, che si aggiravano con aria agitata nella corte, in attesa di potergli parlare. Ma prima di chiamarli in casa, Primo fece un paio di telefonate ad alcuni amici che sapevano tutto quello che era possibile sapere di tutti i medici dell’ospedale che contassero anche solo un po’. Poi si affacciò alla finestra, li chiamò, e non aveva ancora chiuso le imposte che i due erano già seduti di fronte a lui. Insomma, avevano fretta.

«Maite, Pavolone, la prima cosa che vi debbo dire non è proprio splendida, per una di quelle circostanze casuali che possono capitare nella vita di tutti, il medico che si dovrebbe occupare di voi, il medico che dirige il reparto dell’ospedale che cura la sterilità, è il fratello di quel dermatologo che ti ha messo le mani addosso in ambulatorio, Maite, quello stesso al quale hai rotto metà delle ossa, Pavolone. Ma questa è solo la prima parte della fregatura».

La storia del dermatologo che aveva messo le mani addosso a Maite durante la visita era diventata molto nota nella città, anche e soprattutto perché il dermatologo aveva fatto sforzi degni invero di miglior causa per tenerla nascosta. Pavolone era venuto a conoscenza di quell’approccio in modo piuttosto inconsueto e aveva provveduto a dare al malcapitato medico una informazione altrettanto concreta quanto perentoria di quello che pensava di lui. Come ho cercato di spiegare – so quanto è difficile credermi, in verità tutta la vita di Pavolone era una sorta di contraddizione in termini di quanto mi sto affannando a ripetere circa le sue straordinarie doti umane – il ragazzo era di ottimi sentimenti, di cuore gentile e ben educato, tanto che anche nella fattispecie, bastonato ben bene che ebbe il dermatologo, lo aveva salutato con un sonoro e rotondo A rivederlo. E il giorno dopo, sollecitato da Primo che lo aveva ripreso un po’ bruscamente, di propria e spontanea volontà aveva scritto una lettera di scuse e di giustificazioni, che per il solito caso balordo che mette sempre il naso nelle buone intenzioni era finita nelle mani della moglie del dermatologo, evento dal quale era derivato un ulteriore livido che si era aggiunto a quelli, già sufficientemente numerosi, a firma Pavolone. La moglie del medico ne aveva parlato, piangendo, alle amiche, le amiche ai loro mariti, insomma era nata una ulteriore saga romagnola che già si era arricchita di particolari altrettanto coloriti quanto completamente falsi.

La seconda parte della fregatura, quella che Primo stava per rivelare a Pavolone e a Maite, riguardava le caratteristiche dell’«uomo» Reggiani, così come Primo le aveva appena apprese con l’aiuto di qualche telefonata. Secondo l’opinione dei suoi colleghi, non esisteva, in tutto l’albo professionale – che oltretutto in quella provincia annoverava un numero particolarmente elevato di iscritti – un individuo più pavido e ipocrita, infido, bugiardo e malevolo di lui. La voce comune gli attribuiva un numero imprecisato di lettere anonime, di falsi, di alterazioni di cartelle cliniche, di ricatti, insomma di porcherie di vario genere che a pensarci bene non era tanto poco credibile perché si adattava male all’uomo, ma solo in quanto il numero complessivo di cattive azioni di ogni genere che gli veniva addebitato era talmente alto che una sola persona avrebbe dovuto impiegare almeno tre vite per compierle tutte.

A dirigere quel servizio ci era arrivato per caso, una serie di assurdi incidenti avevano interrotto le carriere di un considerevole numero di medici che erano davanti a lui nella graduatoria, cosa che aveva aggiunto, alle altre accuse, anche quella di essere uno iettatore professionale. Infine si diceva che i risultati che il suo servizio riusciva a ottenere erano interamente dovuti all’abilità dei suoi collaboratori, e che di suo lui aggiungeva solo una supina e ipocrita ubbidienza ai desideri della curia locale, alla quale delle varie forme di terapia della sterilità, in pratica, non ne andava bene neanche una. È molto probabile che il vero guaio del povero dottor Reggiani consistesse nel fatto di essere molto antipatico e molto pauroso e che tutte le altre accuse fossero ingiuste. Ma mentre la simpatia non poteva essere considerata utile per risolvere i problemi dei due ragazzi, la patologica preoccupazione di evitare qualsiasi atto che potesse irritare il vescovo, Primo lo aveva ormai ben capito, avrebbe potuto pesare, e molto.

I colloqui che Primo aveva avuto al telefono gli erano serviti anche per esaminare l’ipotesi di una differente soluzione, qualche trucco che consentisse ai due ragazzi di evitare la visita del primario, o in alternativa la possibilità di affidarsi alle mani di un assistente con sufficiente autonomia da poter gestire il loro problema senza dover chiedere permessi, ma gli era stato detto che questo non era proprio possibile, o prima o dopo tutti i casi gli dovevano essere sottoposti; gli era stato fatto però il nome di una dottoressa, tale Luigia Piccolomini, una ragazza molto brava anche se un po’ troppo (così gli era stato detto) laicista, che almeno fino a un certo punto li avrebbe potuti guidare: poi, bisognava sentire lui, il Primario.

Primo si era fatto dare il numero del telefono cellulare della dottoressa Piccolomini, e così decise di parlarle subito, in presenza dei due ragazzi. La dottoressa fu molto cortese, disse che lo conosceva, che aveva letto i suoi libri, aveva sentito anche le sue conferenze, l’ultima soprattutto, alla festa dell’Unità, le era molto piaciuta; Primo le spiegò, in termini molto generici, qual era il problema, le disse che riguardava due ragazzi che per lui erano come figli, le chiese di poterle parlare.

«Guardi – gli disse la dottoressa – che io abito a due passi da casa sua. Anzi – e qui si mise a ridere – io vado in ospedale quando le sue gemelle vanno a scuola, e credo che loro ce l’abbiano su con me perché gli faccio mangiare un po’ di polvere se le supero prima di arrivare alla statale. Per questo mi scrivono “giraffona” sulla macchina, sa, col dito, sul vetro impolverato. E delle volte ci scrivono un’altra parola, qualcosa come zarbèla, ma quella non la capisco, non c’è nemmeno nel vocabolario».

«Allora lei deve essere la ragazza che giocava a pallacanestro – disse Primo, – so chi è, l’ho incontrata spesso e l’ho anche vista giocare. Temo che la storia della “giraffona” sia colpa mia, ho sempre chiamato così le ragazze molto alte. La zarbëla è il palo che sostiene il pagliaio, quella gliela deve aver insegnata la Maria, mia moglie. Se posso permettermi un consiglio, lei dovrebbe restare lontana dalle parole romagnole, non vi fate del bene a vicenda».

«Lo so, sembra che io sappia dire bene solo le parolacce, non le dico quante volte sono stata diffidata. Lei ricorda bene, pivot, tanti anni, qui e anche in nazionale. Purtroppo 1,96, sapesse la difficoltà di farsi un moroso! Se posso muoverle anch’io una critica, in questa regione siete un po’ piccolini».

Decisero che il mattino dopo, prima di andare in ospedale, si sarebbe fermata da lui e così avrebbe incontrato i ragazzi.

«Preferisco così – disse, – domani glielo spiego».

 

Quella sera Giuseppe portò a cena, per presentarla a Primo e a Maria, nientepopodimeno che Dorotea, che si era sganciata dalla madre con una scusa molto complicata anche se abbastanza credibile: la madre, spiegò Giuseppe, era terribilmente sospettosa, anche se non poteva immaginare che ci fosse un moroso che girava da quelle parti.

Dorotea era certamente una bella ragazza, Primo la incluse nell’elenco di quelle molto belle che diventano molto grasse appena si sposano, per qualche stramba ragione era convinto che questo fosse un destino che accomunava molte ragazze spagnole. Piacque soprattutto alle gemelle, più per come era vestita – una minigonna che la costringeva a stare tutto il tempo diritta e rigida come un palo – che per la sua bellezza, che peraltro era molto simile a quella delle loro bambole. Rimase pochissimo – la mamma! – e disse pochissime parole, così che nessuno poté giudicare se era intelligente e simpatica. Quello che fu chiaro a tutti fu che Giuseppe ne era innamorato, si comportava proprio come un imbecille. Le persone più critiche furono Maite, che si limitò a scuotere la testa guardando Giuseppe, e Maria, che quando erano già a letto disse a Primo: «Ragazze così ci sono anche in Cina, finiscono a fare le troie non perché ne hanno bisogno, ma proprio perché gli piace». Maria pesava male le parole, inseriva sempre molte espressioni dialettali, faceva discorsi complessivamente un po’ grevi, ma Primo le aveva sempre dovuto riconoscere un particolare intuito nel giudicare le persone.

La giornata si chiuse così, Primo stentò ad addormentarsi, aveva affrontato tre differenti problemi, uno dietro l’altro, e nessuno dei tre progrediva in modo soddisfacente. E tutti e tre – questo fu l’ultimo pensiero prima che il sonno arrivasse – tutti e tre avevano a che fare con la morale.