Capitolo III

 

 

 

 

 

Ma essere scaramantici, porta sfortuna? Il latte acido della domenica. Del modo tenuto da Pavolone e Maite per complicarsi la vita. Ulteriori commenti sui nomi di Romagna.

 

Uno dei più cari e vecchi amici di Primo era un ex questore della sua città, chiamato da qualche tempo a Roma al Ministero, che rispondeva – di malavoglia – al nome verdiano di Macbetto, Macbetto Fusaroli. Primo gli telefonò, una lunga telefonata, quando si mettevano a chiacchierare tendevano a perdersi tra i ricordi, e alla fine riuscì a riferirgli tutto ciò che Ermenegildo gli aveva raccontato.

«È brava gente – concluse – non gente che va a soldi o cerca di speculare su queste cose, ma sono persone che hanno un forte senso della giustizia, mi piacerebbe che potessero ottenere le risposte giuste alle loro domande senza fare danni a nessuno».

Macbetto gli chiese di pazientare fino al giorno dopo, forse aveva un amico nella direzione dell’ospedale, uno che avrebbe potuto essergli utile, ma voleva controllare. Non gli ci voleva molto, lo avrebbe richiamato lui.

Primo, arrivato all’età matura – aveva ormai passato i 50 –, era arrivato alla conclusione che le superstizioni erano certamente un mucchio di sciocchezze, ma che sul fatto che la domenica fosse il giorno più sfortunato della settimana, almeno su questo, non ci poteva essere il benché minimo dubbio. Così, quando il telefono squillò e capì che dall’altra parte del filo c’era Elsa, una delle sue cugine, con la quale non si sentiva almeno da un paio di anni, immaginò che si trattasse dell’annuncio di una sventura: invece non era così, almeno per il momento, era solo un inconveniente, e anche piuttosto modesto.

Come molte persone della sua generazione, Primo aveva una moltitudine di primi cugini, e se contava anche i loro figli (era corretto definirli secondi cugini? Primo lo ignorava) si arrivava a numeri di tre cifre. Di tutti questi consanguinei, Primo ne aveva frequentati pochissimi e sempre in modo molto formale. L’Elsa era una delle poche cugine con le quali aveva intrattenuto un rapporto di amicizia, che per un breve periodo di tempo, quando erano entrambi molto giovani e Primo veniva considerato da tutti uno scavezzacollo senza avvenire, era diventato qualcosa di diverso e se non erano andati a letto insieme lo si doveva più ai sensi di colpa di Primo che alle resistenze di Elsa, i problemi eventuali della genetica non sfioravano nemmeno l’anticamera del cervello di entrambi. Poi, per caso, l’Elsa gli aveva presentato la sua compagna di banco, e Primo se ne era subito invaghito, una passione che era durata almeno un paio di mesi, un record personale che non era riuscito a battere per vari anni: da quel momento, com’è naturale, i suoi rapporti con Elsa si erano un po’ inaciditi, il pH era tornato normale solo dopo molti anni e comunque la cuginetta, quando poteva, un paio di cattiverie riusciva sempre a dirgliele.

L’Elsa viveva a Torino con il marito – un funzionario di banca prossimo alla pensione – e i suoi due figli, Andrea, che aveva seguito le orme del padre e lavorava in banca, e Giuseppe, che faceva il giornalista, era stato recentemente assunto da una importante televisione commerciale e stava facendo, a detta di molti, una rapida carriera. Elsa gli telefonava proprio per un problema di Giuseppe, stava partendo per andare proprio lì, nella città dove Primo viveva, si trattava di un servizio, lui stesso gliene avrebbe parlato. Ebbene, Giuseppe avrebbe avuto bisogno di qualcuno che conoscesse bene la città, che lo aiutasse a entrare nei circoli giusti, magari gli scoprisse qualche altare segreto. Beh, non proprio segreto, poco conosciuto. Chi meglio di lui?

«Chi peggio di me – replicò Primo, – io sono completamente fuori da tutti questi giri, non conosco nessuno...».

«Ascolta Terzo – ribadì Elsa – non diventare odioso, non sai nemmeno di che cosa si tratta, non cambi proprio mai…».

Lo aveva chiamato Terzo, il che voleva dire per lo meno che lui l’aveva offesa, e che gli avrebbe messo contro ancora una volta il resto della famiglia, non che contasse, ma era sempre un ostacolo di più nella vita. Così Primo cambiò atteggiamento, disse alla cugina che sarebbe stato feliiice – disse proprio così, feliiice, allungando la i fino a triplicarla – di incontrare Giuseppe.

A questo punto – l’arrivo a casa propria di un parente pressoché sconosciuto non può essere considerato un evento fortunato – Primo si augurava di essersi succhiato tutto il latte acido della domenica, sperava di aver il tempo di passare dall’ospedale per una chiacchierata con il medico che aveva in cura Proverbio e contava ancora in un po’ di tempo residuo per andare avanti con la correzione delle bozze di un libro al quale teneva molto. Non era così, certe domeniche sono proprio imprevedibili.

Telefonò Pavolone, ansimando un po’ come gli accadeva sempre quando doveva parlare al telefono, un aggeggio che lo intimoriva:

«Stiamo tornando a casa, abbiamo proprio bisogno di parlarti, Maite dice che dobbiamo parlare anche a Maria...».

Si sovrappose la voce di Maite, piuttosto irritata:

«Te capisci sempre tutto all’indietro, io non ho detto che Maria deve essere presente, basta che sia informata...».

«Non si dice all’indietro, si dice alla rovescia...».

«Non fare il sofistico, ringraziami che ti parlo nella tua stupida lingua, pensa se dovessi parlare tu la mia, pobrecito...».

Primo li interruppe, alzando un po’ la voce:

«Non litigate senza una ragione, piantatela. Comunque, Maria è a una festa di compleanno con le bambine, torna tra un paio d’ore, in tempo per preparare la cena. Possiamo mangiare e poi parlare. Adesso smettete di litigare».

Ma quando riattaccò stavano ancora strillando, le loro liti erano quasi sempre così, stupide e inutili. Primo decise che non era il caso di preoccuparsi troppo, molto probabilmente gli avrebbero sottoposto un problema privo di importanza, e poi aveva bozze da correggere, lettere da scrivere...

Sto rievocando eventi realmente accaduti e cerco di farlo con ordine e senza farmi distrarre dai particolari, si tratta oltretutto di fatti complessi ed è necessario che io rimanga aderente all’essenziale. Ogni tanto, però, qualche eccezione il lettore me la deve concedere: a questo punto, dovrò spiegargli chi accidenti sono Pavolone e Maite, che non sono personaggi secondari, sapere qualcosa di loro è molto importante nell’economia stessa del racconto. In secondo luogo, debbo convenire che la maggior parte delle persone che ho citato sinora, non tutte per fortuna, sono indicate con nomi che possono sembrare bislacchi. Lo dico meglio, che possono sembrare bislacchi a persone che non conoscono la Romagna. No, non mi voglio rituffare nell’elencazione dei nomi strani e inusuali, chi ne ha proprio la curiosità si legga uno dei tanti libri che sono stati scritti su questo tema, o vada a consultare i documenti degli archivi arcivescovili (ce n’è uno, molto antico, nel quale tra i nomi di donna emergono Primavera, Rengarda, Donna Bella, Canciana, Auria, Tramontana, Dolcecara, Prosperina, Bonissima, Amabile, Aica, Ostasia, Zarenana, Novolia, Tedilinda, Zoncola e Zonda, tralasciando nomi più perigliosi). Voglio solo spiegare che una certa tendenza a chiamare i propri figli con un numero esiste in tutta l’Italia, solo che in Romagna è particolarmente accentuata: e non ci sono solo Primo, Secondo, Terzo, Quarto e Quinto, ci sono numeri ingentiliti (Primino, Terzilio, Quintilio, Ottavio), complessi (Primosecondo, Terzina, Ventina) e compositi (Sisto Sesto, Tiziano Secondo, Primo Decimo). Molti di questi nomi rappresentano una scommessa con il destino e molti finiscono per rappresentare un problema per chi li porta, cosa che giustifica la frequenza con la quale molte persone scelgono di farsi chiamare con un soprannome o con un nome del tutto diverso. Faccio solo un esempio, so che si tratta di un argomento per specialisti: se chiamate vostro figlio Decimo, per dire, significa che siete certi di avere tutte le possibili garanzie che diventerà una persona brillante e intelligente, perché la traduzione dialettale di decimo è disum, che però vuol dire anche scemo, stupidello, e capite quanto sia importante evitare di dare un alibi alle persone maligne. Tutto questo per spiegare la ragione per cui Primo veniva chiamato da qualcuno – e in particolare da persone che lo avevano conosciuto in un certo momento della sua vita – Terzo, per sottolineare il fatto che, malgrado il nome augurale, lui in realtà primo, nella vita, non era mai arrivato. In quel periodo, e solo in quel periodo, che lo aveva visto commettere molti errori e durante il quale aveva anche conosciuto il disonore della prigione, questa malevola presa in giro aveva un fondo di verità, ma c’erano persone maligne e moleste che quel nome continuavano ad usarlo, malgrado il fatto che le ragioni per farlo si fossero dissolte al sole come la neve farinosa.

E veniamo alla coppia di persone che sta per entrare in scena.

Pavolone aveva, all’epoca in cui si stanno svolgendo i nostri eventi, poco più di 28 anni e c’era gente che, solo per averlo incontrato, si era presa tanta paura che gli aveva messo il portafoglio in mano, ignorando di aver di fronte un ragazzo buono come il pane, incapace – a meno di provocazioni irresistibili – di fare del male. La sua vita non era cominciata così, quando era nato del male ne aveva fatto, e molto, a sua madre, che pur essendo un donnone di notevole corporatura non poteva essere attrezzata per partorire un gigante; e del male ne aveva fatto anche a se stesso, le difficoltà del parto lo avevano un po’, come si può dire, ecco, frenato nello sviluppo dell’intelligenza. Tutta la famiglia di Pavolone lo aveva accolto come si riceve una maledizione, come i contadini accettano la grandine, la timpèsta: del resto aveva persino fatto la pipì nel fonte battesimale, una cosa che in Romagna porta una disgrazia maledetta. Poi Pavolone, incurante di tutte le previsioni che gli attribuivano pochi mesi di vita, era cresciuto come un giovane Ercole, arrivando a oltre due metri di altezza, spalle da colosso, gambe da Maciste, a impedirgli la carriera che sembrava aperta per lui nel campo del body building si era sempre frapposto il suo sederone irrimediabilmente troppo grasso e che nessun tipo di ginnastica – e nemmeno un intervento di plastica – erano riusciti a ridimensionare. Pavolone aveva tentato diversi mestieri, dal buttafuori delle discoteche alla guardia giurata, e aveva scoperto di non essere adatto per nessuna delle attività che aveva intrapreso: poi il caso gli aveva fatto incontrare Primo, e con lui Proverbio, Maria e le gemelline, e per Pavolone era cominciata una vita del tutto diversa, in una famiglia che gli voleva bene e che si fidava di lui, e che gli aveva consentito di diventare un uomo felice e realizzato. Pavolone aveva sempre avuto una vita sessuale molto semplice che, malgrado alcune marachelle che aveva fatto quando doveva portare a casa dalle discoteche le ragazze che per qualche ragione a casa da sole non ci sarebbero mai arrivate, aveva visto sempre, come co-protagoniste, le prostitute, e Primo si era sempre fatto un dovere di catechizzarlo ogni volta che usciva di casa per «dar sfogo alla piena dei suoi sentimenti» (chissà chi gli aveva insegnato questa espressione) per far sì che non si innamorasse. Ubbidiente e rispettoso, Pavolone si era innamorato solo quando aveva incontrato Maite, una ragazza argentina che stava ancora dalla parte giusta dei vent’anni, che veniva tutti i giorni ad aiutare Maria nelle faccende di casa e che aveva una grande propensione alla vita licenziosa. E Maite, pur consapevole dei limiti di Pavolone, del resto molto evidenti, un po’ disgustata dalla vita piuttosto grama che era costretta a fare per sopravvivere, ferita da alcune recenti disavventure, aveva finito col cedere, chiedendo solo a Pavolone la grazia di non parlarle mai di matrimonio, sarebbe stato il tempo a farle prendere una decisione. Primo e Maria avevano fatto ristrutturare per loro una costruzione agricola che doveva servire a tutt’altro e i due sembravano entrati in una luna di miele eterna, tutto il tempo libero che avevano lo spendevano a letto, e l’unico problema che si era posto era stato con le gemelle, che consideravano Pavolone una loro proprietà e per un po’ erano state gelose, ma che poi si erano lasciate affascinare dall’arte magica con la quale Maite raccontava le favole e avevano adottato anche lei.

I due innamorati erano partiti quella stessa mattina, molto presto, con la macchina di Maria per andare non si sapeva dove, e il fatto che la prima cosa che avevano in animo di fare al ritorno a casa fosse quella di andare a parlare a Primo – e non di andare a letto – faceva proprio pensare che l’argomento del quale volevano discutere fosse molto, molto serio. Così, quando sentì la macchina entrare nella corte, Primo mise via le bozze e cominciò ad apparecchiare la tavola, predisponendosi psicologicamente all’ascolto.

Pavolone non poteva essere certamente definito il marito ideale, ma era buono e onesto, trattato come un figlio da chi gli dava lavoro, capace di darle molte delle cose che lei stava cercando. Ah, finale ma non ultima: Maite aveva cominciato a desiderare di avere un figlio, un pensiero con il quale da qualche tempo si svegliava al mattino e si addormentava alla sera, e quando ne aveva parlato a Pavolone lo aveva visto commuoversi fin quasi alle lacrime, insomma, se per il momento erano solo una coppia, ben presto, almeno questo era il loro progetto prioritario, sarebbero diventati una famiglia.

In Argentina Maite aveva avuto un’amica che di mestiere faceva l’infermiera e che l’aveva molto aiutata a evitare i guai che, con tutti gli uomini disattenti e distratti che circolavano, potevano sorprendere un’innocente fanciulla ad ogni svolta di strada. Questa amica, una ragazzona di nome Maru, che si era anche fatta un gruzzoletto interrompendo gravidanze alle ragazze che avevano pochi soldi da spendere e volevano mantenere un rigoroso silenzio sulle loro scelte di vita, le aveva insegnato a scegliere i corretti mezzi anticoncezionali, a difendersi dalle malattie veneree, a riconoscere gli uomini che amavano la violenza in tempo per non doverla subire, insomma molte cose che una ragazza priva di inibizioni deve sapere; aveva molto insistito sui rischi delle gravidanze e le aveva molte volte ripetuto che prima di decidere di avere un bambino bisognava sottoporsi a esami accurati per evitare sgradevoli sorprese, sorprese che l’avevano terrorizzata perché riguardavano la possibilità di partorire bambini mal conformati o stupidi. Per Maite, le parole dell’amica erano sempre state oro colato, ragione per cui, quando le era venuta per la prima volta l’idea di avere un figlio da Pavolone, la prima domanda che gli aveva fatto, dopo averne registrato il consenso, era stata: dove si fanno gli esami? Pavolone ne aveva parlato a Primo, che non aveva capito bene di che stesse parlando e l’aveva deviato su Maria; da Maria era andata Maite e finalmente la risposta giusta era arrivata, esistono esami che si chiamano pre-concezionali, li fanno i consultori.

Affretto il passo: gli esami erano stati fatti nel giro di un paio di settimane, quindi con un buon grado di efficienza, poi Maite aveva ricevuto una lettera nella quale le si chiedeva di presentarsi il giorno tale, alle ore tali nell’ufficio della dottoressa Mazzucato nel consultorio di via Faentina. Sola. Naturalmente questo aveva creato molta ansia in entrambi, perché da sola, che accidenti dovevano dirle che Pavolone non potesse sentire? Così si erano presentati insieme dalla dottoressa Mazzucato, che non aveva trovato niente da ridire, contenti loro…