Capitolo XIII

 

 

 

 

 

Dove Proverbio prende in esame il problema della dignità personale. La parabola dei vecchioni ritorna, almeno per questa volta, nei libri di catechismo. Ma esistono ancora uomini coraggiosi?

 

In quei giorni Primo aveva una sorta di percorso fisso: l’ospedale, prima per vedere come stava Proverbio e poi per controllare come stava andando la faccenda dei vecchioni, poi una controllata ai due ragazzi, la reazione di Maite non l’aveva convinto del tutto. Nel reparto di rianimazione si diede praticamente il cambio con Maria, che aveva passato quasi tutta la mattina al capezzale di Proverbio, il vecchio stava molto meglio ed era stato trasferito in una stanza che ammetteva le visite, in attesa di tornare al reparto di chirurgia.

Trovò il suo vecchio amico di pessimo umore, aveva ripreso a leggere i giornali locali dopo un lungo digiuno e aveva trovato l’annuncio della scomparsa di due suoi amici, stessa data di nascita o quasi, stesso tavolo di maraffone per mezzo secolo.

«L’è vnù mânc unôium int e’ mi filēr», disse, è mancato un olmo nel mio filare.

«T’am maravèi, t’al sé cl’è un filēr stil», lo sai che il tuo filare è sottile, gli rispose Primo, quando Proverbio era di quell’umore voleva dire che pensava alla morte e l’unica cosa da fare era assecondarlo. Ma Proverbio aveva un problema nuovo, qualcosa che riguardava la morte, sì, ma in un modo al quale non aveva mai pensato.

«Mi ha fatto ragionare la morte di quei vecchi, anzi mi ha costretto a pensare alla qualità di quel tanto di vita che gli rimaneva. Le infermiere mi hanno raccontato la storia della madre del prete, lei gli aveva detto che una volta andata via di testa non voleva cure, voleva essere lasciata morire. Gli aveva fatto giurare che non l’avrebbe lasciata attaccare a una macchina, lei ne faceva un discorso di dignità. Ci ho molto ragionato su, quella donna aveva ragione e che il figlio non abbia saputo mantenere le promesse, a me pare una cosa molto brutta. Ci pensavo oggi mentre era qui Maria, tu sai quanto chiacchieriamo, lei vuole sapere tutto e io le racconto tutto, gli scherzi, i fatti, i giochi, le storie, e lei ride e ride, e io so che mi vuol bene come a un padre. Se dovesse venire qui un mattino e le dicessero che non mi sono svegliato, che me ne sono andato durante la notte, piangerebbe, ma si ricorderebbe di me così come ero questa mattina e io continuerei a vivere nella sua memoria esattamente come desidero essere ricordato. Ma tu sai come vivevano quei vecchioni? Se non c’era qualcuno che a intervalli regolari li andava a liberare della loro merda ci morivano affogati dentro, di loro io ricordo i rumori dell’intestino, i rantoli, i cattivi odori. Io non voglio che Maria abbia questo ricordo di me in testa, mi vergogno a pensarlo. Quindi Primo, te lo dico una volta sola, se tu lasci che questa gente mi attacchi a una macchina anche se non c’è nessuna speranza per la mia testa di tornare a funzionare io ti perseguito finché il diavolo mi dà forza».

Questo era proprio il genere di problemi che a Primo non piaceva affrontare, così che si sentì veramente nel suo giorno sfortunato quando il dottor Aquilani lo intercettò, praticamente per riproporgli gli stessi argomenti.

«Intanto penso che debbo ringraziare lei, almeno una parte dei problemi sembra essersi risolta da sola, questa mattina sono venuti da me i parenti dei vecchioni, un bel gruppo davvero, molto solidali tra loro, mi hanno detto che non avevano niente da ridire sulle decisioni dei medici, e che se avevano chiesto una verifica era solo per capire meglio, niente di più. E poi, per sovrappiù, mi hanno parlato di lei, temo che la venerino, sarà meglio che stia in guardia. Invece c’è l’accenno di un dissenso, o forse di qualcosa di peggio, tra don Giulio e il suo vescovo, se ci finiamo in mezzo veniamo stritolati. Fino a quando questo problema non si risolve, penso che il sostituto procuratore traccheggerà, cercherà di non prendere decisioni. Comunque le farò sapere, ormai è come se fossimo diventati parenti».

Secondo Primo, che era ateo ma superstizioso, la morte avrebbe dovuto essere più semplice di così, complicarla con tutte quelle storie non era una buona cosa, poteva persino portare sfortuna.

 

Quello stesso pomeriggio, proprio mentre Primo stava facendo una lezione a Pavolone sulle nuove tecniche di procreazione medicalmente assistita – era fresco fresco da un complicato viaggio su Internet, che aveva compiuto alla ricerca di una soluzione semplice e non troppo onerosa ai problemi dei due ragazzi – Maite era seduta su una scomodissima pseudo-poltrona della sala d’aspetto dell’ambulatorio del dottor Reggiani, specialista in medicina della riproduzione, in attesa di una visita. Quando aveva telefonato per ottenere un appuntamento, la segretaria del dottore le aveva prospettato tempi lunghissimi, almeno un mese le aveva detto, ma lei si era inventata un’urgenza, aveva citato quasi casualmente un paio di personaggi influenti della città – che lei non aveva mai conosciuto – dichiarando che sarebbero stati molto delusi se il dottore non l’avesse potuta vedere quello stesso giorno, insomma era riuscita ad avere un appuntamento. Stava aspettando, dicevamo, il proprio turno, ma stava anche calcolando quali potevano essere gli introiti del medico, visto che ogni paziente che entrava veniva riaccompagnata alla porta dopo un massimo di dieci minuti. Così Maite, che non aveva trovato Reggiani tra i contribuenti più importanti della città, stava prendendo appunti mentali in vista della stesura di una lettera che certamente avrebbe scritto agli uffici della Guardia di Finanza, un uomo che non paga le tasse, dovrebbe almeno essere una brava persona. E mentre tra sé e sé faceva questi saggi ragionamenti, sentì chiamare il suo nome, erano arrivati i suoi dieci minuti, doveva farne un buon uso.

Una volta seduta davanti alla scrivania, Maite decise che non era il caso di lasciare l’iniziativa al medico, dieci minuti erano talmente pochi che non era nelle condizioni di sprecare nemmeno un secondo. E poi si portava dentro, da quando la dottoressa Piccolomini le aveva spiegato con quale tipo di cattiva persona aveva finito con l’imbattersi, una grandissima rabbia, che esigeva di esplodere, subito e integralmente. Così si era appena seduta che diede inizio alla conferenza che si era preparata con cura: a favore del dottor Reggiani bisogna dire che non ebbe mai nemmeno la tentazione di interromperla, cosa che sarebbe stata difficile, ma non impossibile, e che durante il discorsetto di Maite – durata complessiva ben al di sotto dei dieci minuti – passò attraverso una ridda di sentimenti – iniziale e legittima sorpresa, preoccupazione crescente, incredulità, timore di aver ammesso nel proprio studio una demente, realizzazione di trovarsi di fronte a una donna assolutamente priva di scrupoli, fastidiosa sudorazione fredda, paura – ma il pensiero di sbatterla fuori dalla porta, con l’eventuale accompagnamento di alcune espressioni di forte critica personale, non gli passò mai per l’anticamera del cervello. Per esigenze di spazio, riferirò solo un sunto, oltretutto emendato di alcune espressioni italo-argentine molto vicine ai limiti della decenza, dell’ampio, documentato ed efficace discorso di Maite, durato, come dicevo, molto meno di dieci minuti:

«Caro dottore, non so se ha già avuto occasione di sentir parlare di me, dipende dai rapporti che lei ha con il suo fratello dermatologo (in realtà, in genere l’espressione preferita da Maite quando doveva fare il nome di persone che non gradiva era Quel cabron di eccetera eccetera, ma non mi sembra che una maggior fedeltà ai dialoghi reali possa essere di qualche utilità per una migliore comprensione del discorso). Io sono quella ragazza che lui ha fatto spogliare nuda e che poi ha cercato di toccare col pisello, dopo essersi sbottonato i pantaloni, cosa che mi ha fatto molto arrabbiare (sorpresa, lieve senso di agitazione). Glielo dico perché voglio che capisca che se solo mi chiede di spogliarmi le rompo quel portacenere sul naso, non vorrei che si trattasse di un problema della vostra famiglia. (Fine della sorpresa, inizio delle preoccupazioni e della perplessità). Io sono anche quella ragazza sieropositiva, per l’AIDS, della quale le ha parlato la dottora Piccolomini, io e il mio fidanzato vogliamo fare una di quelle cose artificiali che fa lei, ma sembra che lei, dico lei, non la dottora, non sia d’accordo e che non voglia. Io le dico cosa faccio se sento una volta sola, anche una volta sola, che lei non è d’accordo su una cosa che io e il mio fidanzato dobbiamo fare. (Timore di aver a che fare con una demente, consapevolezza iniziale dell’esistenza di un rischio personale, inizio di una fastidiosa sudorazione fredda). Io l’aspetto, da qualche parte, mentre lei esce dal cinema, o da un ristorante, o dal suo studio, con una siringa infetta, e gliela infilo in qualche posto. Per il suo bene (inizio della paura vera e propria), mi dicono che i medici migliori sono quelli che sono stati malati. Mi raccomando».

E con un cortese sorriso sulle labbra, dopo averlo salutato con esagerata gentilezza, Maite uscì dallo studio e passò impettita e regale davanti alla segretaria, che avrebbe voluto fermarla (la parcella!?) ma non osò. Dopo quasi un minuto, quando ormai Maite doveva essere per strada, si affacciò alla porta dello studio il dottor Reggiani, francamente stravolto, che disse con voce un po’ incerta e senza in realtà rivolgersi a qualcuno in particolare: «Grazie e a rivederla signora»; dopo di che si diresse con decisione verso il bagno, dal quale uscì solo dopo dieci minuti, il tempo di una visita specialistica ambulatoriale.