Ancora proverbi, non se ne può più. La parabola finisce sui giornali. Primo si schiarisce la voce. Un laico e un clericale, nello stesso ospedale, può finir soltanto male.
Proverbio aveva intuito che Primo era passato dalle sue parti e avrebbe molto voluto aprire gli occhi e salutarlo, ma si sentiva molto stanco e aveva poca voglia di parlare, così aveva rinviato i convenevoli alla prossima occasione, chissà, forse sarebbe venuta Maria, nel pomeriggio, dopo aver portato a casa le bambine. Intanto, in quella specie di dormiveglia in cui si ritrovano spesso le persone molto deboli, Proverbio ripassava i detti e i proverbi che il dialetto riservava alla malattia, li avrebbe poi ripetuti a Maria sicuro che lei li avrebbe apprezzati. La piò bróta malatì l’è l’avciàja, e mêl e vèn a livra e u’s la coj aônz, il male viene a libbre e se ne va a once, che poteva anche stare con e mêl e vèn a caval e e va vì a pè, viene a cavallo e se ne va a piedi, senza contare che s’e guarèss l’è sté e Signôr, e s’us mör l’è sté e dutôr, se guarisce è stato Iddio e se muore è stato il medico… ma c’erano voci vicine che lo infastidivano, gli impedivano di pensare, e così Proverbio le ascoltò. Erano due infermiere che parlavano tra loro e naturalmente l’argomento erano i quattro vecchioni:
«... e se poi dovessero mettergliela giù dura, lui ha giurato che questa storia del prete la fa diventare uno scandalo che nemmeno se lo immaginano, e io penso che se lo dice, lui è anche uno che lo fa…».
Le voci si erano allontanate, Proverbio non riusciva più a capire le parole. Pensò che avrebbe dovuto parlarne a Primo e subito dopo, come gli stava accadendo spesso in quei giorni, si addormentò.
Il mattino dopo Primo trovò un accenno al fatto dei quattro vecchioni nei giornali locali, la stampa nazionale li ignorava completamente. La storia era stata trattata con cautela dai giornali di destra e da quelli di sinistra, da quelli cattolici e da quelli laici: era una faccenda delicata, non se ne capivano ancora le possibili implicazioni, i giornalisti si limitavano a dire che c’era un’inchiesta, voluta soprattutto dalla Direzione dell’ospedale, non sembrava che ci fossero medici indagati, il magistrato stava solo raccogliendo informazioni.
Come era inevitabile, verso le dieci del mattino Primo ricevette una telefonata da Guidi Ermenegildo e alle undici si presentarono a casa sua lo stesso Ermenegildo, i due figli pelati di Fuzzi, Abrasto e la Zaira, la nipote di Zattoni Spartaco, in rappresentanza della madre, leggermente indisposta, roba di donne. Fu ancora una volta Ermenegildo a prendere la parola, anzitutto per ringraziare Primo per tutto il da fare che si dava, poi per chiedergli se poteva dir loro qualcosa di più. Primo ribadì che lui in quella storia non aveva alcun ruolo, e che lo stesso direttore generale dell’azienda glielo diceva tutte le volte che lo incontrava, era diventato un ritornello, «si ricordi che lei non ha nessun ruolo, si ricordi…». E che se proprio volevano lui gli poteva semplicemente dire cosa ne pensava, cosa ne pensava lui, Primo, che non aveva alcun ruolo, nella speranza di poter essere utile, che era poi la ragione per cui aveva accettato all’inizio di rappresentarli. Ci fu uno scambio di complimenti, parole gentili da una parte e dall’altra, e poi Primo disse quello che pensava:
«Adesso c’è un magistrato che indaga, quindi di cose legittime e di cose illegittime noi non abbiamo alcuna ragione di parlare; ma la nostra opinione su quello che, al di là della legge, è giusto o ingiusto, beh penso proprio che abbiamo il diritto di dirla. Quello che ho capito, parlando col direttore dell’azienda, è che in quel reparto c’erano quattro persone molto anziane e molto malate. Su tutte queste definizioni, si deve ragionare e discutere. Erano persone? Io personalmente penso che una persona è un individuo che è capace di ragionare, pensare, immaginare il proprio futuro, ricordare il proprio passato, confrontare ricordi e speranze, fare progetti, provare emozioni. Se non è capace di nessuna di queste azioni, per me non è una persona, io lo piango perché ci ha lasciato, non ho sentimenti di affetto per il suo corpo, come non li ho per la sua casa o per la sua macchina, tutte cose che lui ha lasciato dietro di sé, li ho per la memoria che ho di lui. Se mi chiedete se quel corpo è vivo o morto, mi mettete in difficoltà, probabilmente mi fate ammettere che è ancora vivo, ma si tratta di vita biologica, l’intestino che si muove, il cuore che batte, la barba che cresce, ma questo corpo non è una persona, il suo valore è solo simbolico, lo rispetto perché era suo, mi commuove perche mi ricorda lui. Posso anche inginocchiarmi davanti a quel corpo, ma lo faccio anche davanti alla sua tomba, o mi posso commuovere davanti a una sua fotografia. Bene, adesso succede che per mantenere la vita biologica di quel corpo, la barba che cresce, l’intestino che si muove, devo usare uno strumento raro e prezioso che può diventare indispensabile per la sopravvivenza di una persona, e so che se potrò usare quello strumento quella persona tornerà a ragionare, pensare, ricordare, sperare, esattamente come faceva prima di ammalarsi. Non è nemmeno una scelta, è un obbligo, lo strumento che mi serviva per conservare la vita biologica di un corpo vuoto lo uso per aiutare una persona a sopravvivere. Per questo dico che bisogna pensare bene alle parole che usiamo. Ad esempio, erano persone malate? Se una persona ha lasciato il suo corpo, non si può nemmeno dire che quel corpo è malato, ma semmai che è stato malato e che la malattia ha costretto la persona ad andarsene e nello stesso momento ha cessato di essere attuale. Allora, per quanto posso capire, i medici potranno dimostrare che hanno fatto tutte le cose giuste per poter dire che quei vecchioni erano morti, morti anche biologicamente, ma non potranno mai cancellare il sospetto che nasce quando si considera la stramberia dei fatti, quattro persone che muoiono tutte insieme, nello stesso momento in cui altre quattro persone bussano alla porta e chiedono di poter dormire nel loro letto. Di questo, però, si occuperà la giustizia. Se mi chiedete se hanno fatto bene o hanno fatto male, considerato tutto quello che vi ho detto, io dico che hanno fatto bene. E vorrei che se le mie figlie si dovessero trovare nelle condizioni di quei quattro ragazzi, vorrei che anche per loro ci fossero medici che fanno le stesse scelte e persone come voi capaci di accettarle».
In realtà Primo aveva fatto un discorso molto più lungo, perché aveva ripetuto e rispiegato ogni concetto, usando le parole più semplici che riusciva a trovare, cercando il consenso negli occhi delle quattro persone sedute di fronte a lui. Alla fine ci fu un silenzio piuttosto lungo, poi i quattro si alzarono e presero commiato, dissero che ci avrebbero pensato, che ne avrebbero parlato a casa, ma prima di uscire, tutti, Zaira per prima, baciarono Primo.
Fino al venerdì mattina non successe più niente che fosse degno di essere ricordato: i giornali non diedero altre notizie sull’inchiesta, Maite e Pavolone completarono i loro esami, Giuseppe non si fece vivo, ci fu solo un intero paginone di un importante settimanale dedicato interamente al concorso per miss B e B, con la fotografia delle favorite, addirittura due foto di Dorotea, una in un costume da bagno che Maite – che aveva dell’italiano una opinione ancora personale – definì stringatissimo, in quanto fatto unicamente di stringhe. Le cose cominciarono a muoversi verso le dieci del mattino, quando arrivò una telefonata della dottoressa Piccolomini che spiegò di aver concluso gli esami sulla coppia, se Primo aveva un po’ di tempo avrebbe fatto un salto da lui per parlarne. Arrivò dopo circa mezz’ora, con una grande carpetta di plastica rossa in mano e quasi contemporaneamente arrivarono Maite e Pavolone, la faccia piuttosto tirata. La dottoressa non fece preamboli, spiegò quali esami erano stati fatti e perché, mise da parte tutti quelli che non avevano presentato problemi e infine tirò fuori dalla carpetta alcune lastre:
«Questo esame è stato fatto per capire se Maite ha una normale fertilità meccanica, il che significa accertare se le sue tube sono capaci di fare il loro lavoro, prendere l’uovo quando si apre il follicolo nell’ovaio, portarlo fin dentro all’utero. È un esame che ha un notevole margine di errore, cioè in moltissimi casi finisce col dire che una o entrambe le tube hanno sofferto per qualcosa, e che molto probabilmente avranno difficoltà nell’adempiere ai loro compiti, ma non darà certezze, potrà solo far nascere dei dubbi. Per saperne di più dovrei andare a vedere, mettere un occhio dentro alla sua pancia, c’è un esame che consente di farlo, ma è un esame invasivo, è un atto chirurgico, lo si fa solo molto raramente. Questo esame stabilisce invece non solo se le tube sono aperte, ma se hanno conservato la loro capacità funzionale, se sono capaci di fare il mestiere per il quale la natura le ha messe lì. Di fronte a un esame come questo, la conclusione più logica è che le probabilità di una gravidanza spontanea sono così basse che non vale la pena aspettare, meglio considerare la coppia come sterile e indirizzarla verso una fecondazione assistita: pur sapendo – ascoltatemi bene – che Maite non è sterile, è solo poco fertile, forse molto poco fertile, ma, lo ripeto, non sterile. Questa mattina con tutti questi esami sono andata da Reggiani e gli ho spiegato il caso, punto per punto. Lui ha sbirciato le lastre, ha detto che comunque le tube erano aperte e che dovevo dire ai pazienti che dovevano cercare di aver un figlio con le loro forze per almeno 18 mesi, se non avessero avuto successo durante questo periodo di tempo allora, e solo allora, ci avremmo pensato noi. Abbiamo avuto un breve battibecco e io gli ho ricordato che i due ragazzi non possono avere rapporti sessuali completi, per via della sieropositività di lei; a questo punto lui mi ha rammentato a sua volta che il caso non è previsto nelle linee guida. Stupida dimenticanza, ho detto io. Come si permette, mi ha detto lui. Per finire gli ho chiesto se si poteva almeno programmare una inseminazione intrauterina, poca roba ma meglio di niente, e lui mi ha chiesto se ero proprio sicura di voler continuare a lavorare nel suo reparto. A questo punto, ho scritto un elenco dei centri pubblici più vicini, nome del direttore e numero di telefono, e una lista dei centri convenzionati. Eccoli qua. A proposito, ha anche detto che siccome non sono sposati, porrà un quesito all’ufficio legale dell’ospedale, secondo lui se non sono sposati non si può certificare nemmeno una sterilità idiopatica, sinceramente non ho capito perché».
Pavolone aveva allungato la mano per prendere i fogli di carta che la dottoressa Piccolomini stava cercando di dargli, ma Maite gli diede uno schiaffetto sulla mano e lo fece desistere.
«Vorrei fare un tentativo io – disse, – uno solo piccolo piccolo. Mi scoccia rinunciare ai miei diritti, certo che questo è un paese un po’ loco, i diritti dei cittadini magari se li scorda, ma i cittadini possono sempre ricordarglieli. Un piccolo tentativo».
La dottoressa Piccolomini era piuttosto perplessa, ma non sembrò del tutto contraria a un «piccolo tentativo». Chi aveva invece la sensazione di avvertire un pericolo che si avvicinava era Primo, ma Maite in quel momento sembrava l’immagine stessa del buon senso e lui dovette fare buon viso al suo gioco misterioso.