3.

Gaëlle aveva preso l’abitudine di vomitare tutte le volte che usciva dalla casa dei genitori.

Si infilò in un caffè all’angolo tra rue de Monceau e rue de Lisbonne, dove i bagni non erano troppo disgustosi, e fece quello che doveva. Durante l’adolescenza aveva sperimentato ogni tipo di tecnica per rimettere, dall’acqua salata allo spazzolino da denti infilato in gola. Ora ci riusciva a comando. Per avvertire i conati le bastava pensare al cibo immondo della madre.

Quando lasciò il locale si sentiva già meglio. Il mese di settembre sembrava aver deciso di fare gli straordinari, anche se, tra l’estate uggiosa che l’aveva preceduto e un autunno precoce, un paio di pomeriggi soleggiati non erano da considerarsi chissà quale privilegio. Proseguì lungo avenue de Messine, approfittando di quello spettacolo. Le ombre degli alberi tremolavano sull’asfalto; squarci di luce filtravano tra il fogliame. La via era un tipico esempio della Parigi del secondo impero: balconi, atlanti e cariatidi a ogni piano, al di sopra delle rigogliose fronde dei platani. Gaëlle si sentiva come una regina lungo i viali di Versailles.

Percorsa rue de Miromesnil, svoltò a destra in rue de Penthièvre e arrivò davanti a casa. La strada era deserta. Nonostante il sole, le viuzze strette avevano un che di lugubre. Era rimasta incerta a lungo prima di decidersi a prendere quel monolocale a pochi metri da place Beauvau, la tana del mostro. Alla fine però aveva deciso di ignorare il suo nemico: solo così sarebbe riuscita a sconfiggerlo.

Pareti mansardate, abbaini, parquet a doghe larghe che amava sentire scricchiolare sotto i piedi nudi: non l’aveva arredato perché voleva che quello spazio rispecchiasse la sua vita, una pagina bianca ancora tutta da scrivere. L’unica cosa alla quale teneva era la libreria: i colori vivaci della PUF, le coste marroni, verdi e dorate della Pléiade, le tonalità sigaro dei saggi di Freud. Nei ripiani più bassi trovavano posto le biografie dai dorsi screziati e variegati come le sue passioni. Gaëlle sapeva tutto di Nietzsche e Wittgenstein ma era anche una lettrice appassionata delle vite di Shakira, Mylène Farmer, Annette Vadim... Si sentiva una rivoluzionaria e allo stesso tempo una donna oggetto; frivola e intellettuale. Non aveva le idee molto chiare.

Tè tostato giapponese. Maschera d’argilla sul viso. Scrivania. Dopo il pranzo domenicale e il vomito, il rituale prevedeva di mettere un po’ d’ordine nel suo universo professionale: aggiornare i profili sui social network, leggere le e-mail, postare qualche tweet... Per un’attrice era importante mantenersi in contatto con i fan, anche quando non erano troppo numerosi. Inviò un SMS alla sua agente per avvertirla che sarebbe andata da lei il pomeriggio dell’indomani: erano settimane che non le procurava un casting.

Si immerse nel proprio arsenale di battaglia: CV, foto, cartelle stampa... Amava profondamente lavorare seduta alla scrivania come un artigiano, a cesellare il suo profilo biografico, ritoccare foto, copiare le demo, scrivere ai registi... La sua carriera occupava appena poche righe sul curriculum: aveva presentato alcuni tornei di poker su Internet e interpretato ruoli secondari in qualche telefilm. Una volta aveva recitato la parte di una bionda bella e stupida in un vero film, ma poi la sua scena era stata tagliata.

Non era un granché, soprattutto se pensava a tutti gli sforzi che aveva fatto: centinaia di casting, cene, notti in discoteca in compagnia di sedicenti produttori celebri. Al momento non riusciva ancora a guadagnarsi da vivere e il Graal degli attori – le cinquecentosette ore di lavoro annuale che le avrebbero permesso di richiedere il sussidio di disoccupazione – le pareva irraggiungibile. Così si arrangiava in un altro modo.

Quando qualcuno la provocava sull’argomento, replicava: «Il femminismo va bene per le lesbiche e le borghesi. Le donne, quelle vere, quelle che non hanno il becco di un quattrino, fanno di tutto per cavarsela e se ne fregano delle quote rosa in parlamento o di sapere qual è il femminile di “ingegnere”». E se qualcuno le rinfacciava di essere una figlia di papà, ribatteva: «Sono chi ho deciso di essere. Ho ricominciato da zero».

Non mentiva. Compiuti diciotto anni, non aveva più toccato un soldo del padre. Aveva addirittura chiuso il conto in banca e se n’era fatto aprire uno nuovo, intestandolo a un’amica. In quel modo il bastardo non avrebbe potuto nemmeno farle dei versamenti.

Era vero, faceva la puttana, ma solo per difendere la propria integrità morale.

D’altronde, non credeva che la cosa potesse intaccare la sua purezza. La vocazione artistica si era conservata intatta. I suoi modelli erano Brigitte Bardot, Marilyn Monroe, Scarlett Johansson: donne sensuali e anche grandi attrici. Certo, il fisico era il loro punto forte. E con ciò? Immaginava di recitare il ruolo di Camilla nel Disprezzo, sdraiata a prendere il sole sulla terrazza di villa Malaparte, o quello di Zucchero «Candito» Kandinsky, che seduceva Tony Curtis a bordo dello yacht in A qualcuno piace caldo. Doti artistiche, sì, ma accompagnate da belle forme.

Tra i programmi della giornata rientrava anche la preparazione della documentazione necessaria per ottenere un visto di lavoro per gli Stati Uniti. Prima o poi tutte le attrici si dicono che faranno fortuna oltreoceano. Gaëlle non si faceva troppe illusioni, ma voleva comunque crederci e soprattutto provarci. Se avesse fallito, almeno non avrebbe avuto rimpianti.

Prese la pratica e sfogliò le carte che aveva messo insieme per l’appuntamento in ambasciata. Era tutto in ordine. Aveva raccolto una serie di testimonianze che attestavano le sue doti di attrice, la sua serietà e credibilità: lettere di raccomandazione ottenute a forza di fellatio e rapporti sessuali. Inoltre aveva alcune proposte di lavoro negli USA. Ottenerle non era stato difficile: i produttori che conosceva possedevano società anche in America. Erano stati loro a procurare tutte quelle carte, sia dall’una sia dall’altra sponda dell’oceano.

Davanti alla mazzetta di contratti e referenze fasulle fu colta da un improvviso moto di tristezza. Quel dossier era in tutto e per tutto uguale alla sua vita: una menzogna. Ma preferiva comunque quella bugia al baratro che le si sarebbe spalancato sotto ai piedi se avesse ammesso anche solo per una frazione di secondo la vanità dei suoi progetti. Rinunciare al suo sogno significava rinunciare a vivere.

Gli occhi le caddero sull’orologio a parete, un ciac cinematografico con quadrante e lancette, souvenir del suo unico viaggio a LA: le tre e un quarto. Trasalì. Si era completamente dimenticata del «casting» delle quattro. Era così che chiamava i suoi appuntamenti da ottocento euro.

Corse in bagno e si tolse la maschera all’argilla del Mar Morto. Si ricordava che il cliente era un uomo d’affari cinese. Il contatto le era stato procurato da una pseudoruffiana di avenue Hoche. Alzò la testa e si guardò allo specchio. Vedendo l’ovale del viso, gli zigomi mongoli e gli occhi da husky siberiano, riacquistò fiducia e strinse i pugni sul lavandino.

Un cinese. Era perfetto per quello che aveva in mente.