4.

Sofia gli aveva dato appuntamento ai giardini del Lussemburgo.

Erwan parcheggiò in rue Bonaparte ed entrò nel parco dall’ingresso di rue de Vaugirard. Tenendo i due nipoti per mano, passò accanto alle piste da bocce e ai campi da tennis. L’italiana gli aveva detto che lo avrebbe aspettato fuori dall’area giochi, poco più lontano. Fremeva di eccitazione al solo pensiero di incontrarla.

La prima volta che l’aveva vista aveva tremato come un bambino, la seconda non aveva spiccicato parola, la terza aveva tartagliato. Soltanto la quarta o la quinta era riuscito finalmente ad assumere un contegno più rilassato. A quel punto aveva potuto osservarla. Sofia non era bella: era perfetta. La sua era un’avvenenza da riviste patinate, da schermo cinematografico, ma quella grazia non era in vendita. Il fatto che fosse milionaria non faceva che accentuare la sua regale aria di superiorità.

Quando Loïc l’aveva portata a casa con sé da New York nel 2003, Erwan si era chiesto come avesse fatto quel coglione di un tossico a conquistare una simile dea. La stessa domanda se l’era posta anche il padre. Da bravi sbirri avevano condotto delle ricerche scoprendo, con loro grande stupore, che Sofia era molto più ricca di Loïc. Suo padre, un ferravecchio di Firenze che aveva fatto fortuna con il commercio dei metalli, aveva sposato la contessa Balducci la quale, per quanto ormai economicamente in rovina, era imparentata alla lontana con l’illustre famiglia Aldobrandeschi. Sofia aveva ereditato la bellezza paterna (un volto dai tratti signorili) e l’eleganza della madre, la durezza dell’uno e l’atteggiamento sprezzante dell’altra. Il resto lo si doveva alla sua educazione: infanzia a Saint-Moritz con precettrice tedesca, scuole private a Milano, Bocconi e IULM. Si era fatta le ossa a Wall Street e aveva infine scoperto l’amore tra le braccia di Loïc.

I due Morvan non ci volevano credere: erano uomini, ma soprattutto poliziotti. Il fascino che un tipo come Loïc esercitava sulle donne per loro era incomprensibile. Non si accorgevano del suo bel viso, delle mani sottili, del sorriso disarmante. E nemmeno capivano il misterioso magnetismo che un drogato esercita sulle ragazze. Quel vizio le seduce perché, grazie alle loro antenne femminili, capiscono che sarà sempre più forte di loro. Per non parlare dello charme irresistibile del ragazzo cattivo che gioca con la morte...

Qualche mese dopo erano cominciati i preparativi per le nozze. Erwan aveva potuto apprezzare la segreta rivalità fra i due padri: alla sua destra, la vecchia volpe africana, il superpoliziotto maneggione che gestiva affari loschi in Congo; alla sua sinistra, Giovanni Montefiori, detto il Condottiero, vicino al clan Berlusconi e senz’altro colluso con la mafia. Due predatori che istintivamente si detestavano perché rappresentavano due facce diverse della stessa corruzione.

I giovincelli si erano sposati a Zermatt, sotto la neve, su una slitta. Una di quelle cretinate da figli di papà. Montefiori aveva affittato tutti gli chalet disponibili e Morvan aveva pagato il pranzo in uno dei lussuosi alberghi della località turistica.

Erwan, relegato in un cottage da guardacaccia, aveva deciso il giorno stesso che si sarebbe preso cura di quei ragazzini che non sapevano nulla della vita. A poco a poco sarebbe diventato per loro una specie di guardia del corpo, un collaboratore familiare, alla pari degli altri domestici. Quel ruolo gli piaceva: il duro che indossava vestiti a buon mercato, il bruto privo di ogni eleganza e incapace di fare conversazione ma al quale la principessa si rivolgeva per proteggere il «piccolino».

Erano diventati alleati: Sofia controllava il marito e tentava di limitare il suo consumo di cocaina (Loïc non toccava più né eroina né alcol); a Erwan spettava il compito di ritrovarlo quando spariva per intere nottate e a volte anche per settimane.

Con il passare degli anni aveva creduto di conoscere meglio l’italiana. A forza di cene eleganti, fine settimana a Portofino e crociere su principesche barche a vela, pensava di avere scoperto i limiti della cognata. Sofia amava Loïc, ma senza sconfinare dall’ambiente sociale da cui proveniva: quel matrimonio era soltanto una tappa come molte altre nella sua comoda vita. Pur non essendo una donna arrogante né conservatrice, in quanto prodotto della borghesia italiana era incapace di rinunciare ai privilegi e alle convenzioni del proprio mondo. Una macchina programmata per essere perfetta e affascinante nella quale qualcuno aveva dimenticato di inserire il pezzo più importante: il cuore.

Erwan si sbagliava. A svelare la sua vera natura sarebbe stata la nascita di Lorenzo. Il grande amore di Sofia erano i suoi bambini. Loïc era stato soltanto un preambolo, un passaggio obbligato. Ma perché scegliere un padre tossico? Per la sua bellezza? Il suo sorriso? La sua intelligenza? Qualche tempo dopo, quando era incinta di Milla, Sofia aveva definitivamente gettato la maschera. Con Loïc ormai tirava aria di tempesta, ma la cosa non sembrava preoccuparla troppo. Il marito aveva adempiuto il suo ruolo: se non si fosse dimostrato capace di assicurare loro un futuro, avrebbe dovuto andarsene; altrimenti sarebbe stata lei a eliminarlo, come i ragni femmina che uccidono il maschio dopo l’accoppiamento.

«La mamma!»

Era seduta su una panchina davanti allo spazio riservato ai giochi. Milla e Lorenzo lasciarono le mani dello zio e corsero verso di lei. Sofia si alzò per andare loro incontro, poi lo cercò con lo sguardo. Gli fece un cenno, pagò il biglietto perché i figli potessero entrare nell’area giochi e si voltò verso di lui.

D’un tratto tutto passò in secondo piano: il brusio che lo circondava, il viavai della gente, le prime foglie morte che mulinavano nel vento... Sofia gli apparve come in un film, quando l’inquadratura è centrata sull’attrice e lo scenario diventa sfocato.

Si sarebbe detto che i tratti del suo viso rispondessero a una proporzione aurea applicata a ogni minimo particolare: fronte, sopracciglia, naso e zigomi avevano tutti la medesima linea, la medesima splendida perfezione. La pelle bianca ricordava la superficie levigata e regolare di un ciottolo di fiume e le labbra, quasi incolori, sembravano una semplice venatura della pietra. Sofia non si truccava per coprire quel pallore, anzi, lo esibiva con disinvoltura. A incorniciare il tutto, lunghi capelli neri pettinati con la riga in mezzo, come in una vecchia foto di David Hamilton. Sembrava più una contadina amish che una bambola italiana.

Quell’aria austera era tuttavia mitigata da due dettagli. Un rossore diffuso sulle guance le donava un’aria giovanile e sbarazzina. L’altra particolarità era la piega molto bassa delle palpebre superiori, che faceva quasi pensare a un’origine asiatica e le conferiva un alone di mistero, un’espressione di malinconica spossatezza che ti intorpidiva l’anima.

«Come va?»

«Bene», le rispose. Quando parlava con lei, non riusciva mai a essere particolarmente ispirato.

«Hai cinque minuti?»

Obbedì come un soldato chiamato a rapporto.

«Vieni. Voglio tenere d’occhio i bambini.»

Erwan la seguì nell’area giochi dopo che il cassiere gli ebbe impresso un timbro sulla mano. Gli ronzavano le orecchie e aveva il polso accelerato. Sentì la terra cedergli sotto i piedi. All’inizio pensò che fosse a causa dell’agitazione, ma poi si accorse che la superficie dell’area giochi era coperta da una specie di gomma per evitare che i bambini, cadendo, si facessero male.

«Rilassati, dannazione», si disse a bassa voce. «Rilassati