Gli piaceva stare lì.
Sotto quello schifoso cavalcavia, immerso nel puzzo di piscio e grasso bruciato.
Lui, Loïc Morvan, enfant prodige della finanza, direttore di uno degli hedge fund più stimati di Parigi, che indossava soltanto completi da cinquemila euro e guidava un’Aston Martin V12 Vanquish costata più di trecentomila euro, si sentiva a casa in fogne come quella, luridi recessi dove i tossici si nascondevano per spararsi una dose.
Un semplice ritorno alle origini. Perché erano quelle le sue radici: la droga. Ormai era quasi riuscito a uscirne («quasi» era la parola giusta, dal momento che stava aspettando il suo spacciatore sotto un binario sopraelevato del metrò all’angolo tra rue de Crimée e rue d’Aubervilliers), ma non aveva dimenticato gli anni bui della sua gioventù.
Dopo pranzo, risvegliatosi dal torpore che lo aveva assalito a casa dei genitori, era stato colto da una di quelle crisi di angoscia per le quali conosceva bene il rimedio. Senso di oppressione al petto, testa in fiamme e due pezzi di ghiaccio al posto delle mani. Si era occupato di Milla e Lorenzo, aveva dato un bacio alla madre e al padre e se l’era filata.
Aveva fatto una telefonata e fissato un appuntamento. In momenti come quello la sola cosa che lo spaventava era finire le scorte. Secondo il suo psicoanalista si trattava di un passo avanti: ora soffriva di un’unica angoscia che, per quanto infondata (aveva sempre un po’ di coca in tasca o nel cruscotto, e molta di più a casa), poteva placare immediatamente.
Ancora nessuno sotto il ponte.
Bloccò le portiere dell’auto e si rannicchiò nell’abitacolo. La pioggia si era calmata, ma l’acqua sgocciolava ancora sopra di lui come una gigantesca flebo dai lati del cavalcavia. Regolò il climatizzatore al minimo (voleva avere freddo) e, ispirato dal posto, si abbandonò ai ricordi.
Grégoire Morvan voleva che i suoi figli fossero autentici bretoni, vale a dire provetti navigatori. Iscrizione alla scuola di vela Glénans a sei anni. Corsi intensivi ogni estate. Erwan, che dei due era il più testardo, aveva rifiutato di continuare. Lui, invece, il ragazzo modello, era diventato il migliore nella sua categoria. Derive, cabinati a chiglia fissa, catamarani. Gli anni passavano e i premi fioccavano...
Il Vecchio gongolava: finalmente in famiglia c’era un figlio che sapeva tenere la rotta! Un vero bretone che fendeva i flutti! Loïc invece non esultava mai troppo: vinceva le sue regate con un sorriso distratto, riceveva i trofei con aria umile, accettando timidamente le avance delle figlie di papà che gli ronzavano intorno. Le cose serie erano altre.
Quando si passa tutto il giorno al timone, la sera si finisce sempre in qualche bar. Molto presto Loïc aveva collezionato tutta una serie di altri primati: il più giovane ubriacone della costa (a dodici anni), il miglior trincatore di tutto il Finistère (a tredici), la sbronza più lunga del Conquet (settantadue ore, a quindici anni)...
Aveva portato il vizio con sé a Parigi. La situazione era peggiorata ed era subentrata la noia. Si stordiva nel giro di pochi minuti a forza di shottini, bottiglie, magnum. Le sue serate erano diventate lunghi coma etilici inframmezzati da accessi di vomito. Era stato in quel periodo che aveva scoperto la coca, la sostanza miracolosa che cancellava gli effetti collaterali della sbornia. La polvere che gli consentiva di aumentare le quantità d’alcol ingerite in una notte e resistere fino al mattino, per approfittare appieno di quelle ore di intossicazione.
A diciassette anni aveva strappato per miracolo la maturità e si era iscritto a economia. Suo padre avrebbe preferito scienze politiche e, perché no, l’ENA, la scuola per la formazione degli alti funzionari pubblici francesi. Loïc invece voleva guadagnare un sacco di soldi, e alla svelta. All’epoca beveva come un clochard, solo che lui tracannava vodka invece di vino da discount. Frequentava altri ragazzi nelle sue condizioni, relitti umani con una tessera studentesca che navigavano a vista, con il fegato spappolato e il cervello ridotto a una spugna.
In Bretagna ormai lo conoscevano più per le sue prodezze etiliche che per i trofei vinti in mare. Loïc spergiurava che quando era in barca non beveva. Niente di più falso: nascondeva sotto coperta bottiglie e cocaina e veleggiava in solitaria in preda allo stordimento, completamente incosciente. Le sue vittorie si erano fatte più rare e gli sponsor gli avevano voltato le spalle, lasciandolo a terra, in tutti i sensi.
Lui se ne fregava. Aveva vent’anni ed era preda del fascino delle droghe. Crack, hashish, datura, popper, buprenorfina, trielina... C’erano così tanti mondi da scoprire! In un certo senso era ancora un esploratore. Un cacciatore di paradisi artificiali.
Nei rave aveva cominciato a fare uso di ecstasy. Aveva sperimentato un nuovo tipo di postumi dello sballo: dopo due giorni di trance il ritorno alla realtà era tremendo, un mix di depressione e pulsioni suicide. Anche in quel caso era riuscito a trovare un rimedio: l’iniezione di eroina del lunedì mattina. Grazie alla bianca riusciva a spazzare via ogni effetto e a ricominciare da capo. Ma la bianca non è un’amante da prendere alla leggera. Nel giro di poche settimane era già dipendente. Di lì a qualche mese viaggiava alla deriva verso la morte.
Continuare a frequentare l’università o lavorare era impossibile. Aveva prosciugato il conto in banca e suo padre non gli pagava più l’affitto. Loïc aveva cominciato ad andare a letto con chiunque: uomini o donne non gli importava, bastava che gli dessero la grana per comprarsi una dose.
Finché un giorno, senza spiegazioni plausibili, nessuno aveva più avuto roba per lui. Era successo come nel film Giorni perduti, quando Ray Milland cerca disperatamente qualcosa di alcolico da bere ma trova soltanto negozi chiusi. Di colpo realizza che è kippur e che gli ebrei quel giorno non lavorano. Per Loïc era come se tutti i giorni fossero kippur e non riusciva a capire le ragioni di quella tragedia. Le avrebbe apprese soltanto più tardi dalla bocca del padre.
Sorvegliare il figlio nelle sue scorribande etiliche non era stato niente di che per un poliziotto che aveva smantellato la rete terroristica responsabile degli attentati di rue de Rennes e arrestato i membri di Action directe. I primi anni aveva lasciato correre: i giovani dovevano pur fare le loro esperienze. Ma una volta scoperto che Loïc si drogava, aveva fatto spargere la voce tra gli spacciatori: chiunque avesse venduto la polvere a suo figlio si sarebbe ritrovato in galera. O al cimitero.
Loïc aveva toccato il fondo. Un’agonia intervallata da periodi di fame chimica, un desiderio smodato e compulsivo di droga, alcol e medicinali che cercava di saziare facendosi di qualsiasi cosa. Un giorno incontra un altro tossico nelle sue stesse condizioni. Quello non fa che ripetere: «Ho la soluzione». Lo porta a casa sua senza smettere di farfugliare: «Ho la soluzione». La soluzione Loïc la scopre una volta giunto nel grande appartamento che i genitori del suo nuovo amico hanno nei pressi del Trocadéro. Il padre non vuole dargli nemmeno un centesimo. Il ragazzo prima lo supplica, poi lo minaccia. Alla fine va a prendere un martello e gli sfonda il cranio. Gli vuota le tasche e poi sfascia i cassetti di un secrétaire alla ricerca di altri bigliettoni.
Tremante, paralizzato dai crampi, Loïc assiste pietrificato alla scena. C’è sangue dappertutto, pezzi di cervello sul parquet e frammenti d’osso sulle pareti. Non appena l’assassino esce, si rifugia nella stanza della sorella minore (è il periodo delle vacanze scolastiche). Quello torna con la roba. Si sparano tutti e due una dose tra le Barbie e i passeggini e si addormentano sulla moquette color rosa pallido.
Quando Loïc si sveglia, Morvan è al suo capezzale. «Va tutto bene, tesoro.»
Uomini vestiti di bianco stanno ripulendo la moquette, lucidando ogni superficie, aspirando ogni granello di polvere. Altri iniettano una dose al suo compagno privo di sensi. Prima di svenire, Loïc capisce che lo stanno uccidendo.
«Va tutto bene...»
L’indomani Morvan gli propone un accordo. Lui ha cancellato il suo delitto con un colpo di spugna, nel senso letterale del termine, ma ora il figlio dovrà andare alle Antille per rimettersi in sesto. Loïc accetta, senza condizioni.
Ma quella volta era stato lo sbirro a peccare di ingenuità, convinto che i paradisi tropicali fossero ancora sinonimo di uno stile di vita sano e sobrio, quando ormai la droga circolava in tutti i porti turistici. Bello, bisessuale, skipper esperto, Loïc era il candidato ideale per un certo tipo di crociere. Pere, sniffate, orge in cabina e pasta allo scoglio...
Era di nuovo in rotta verso l’inferno, e questa volta fuori dalla portata del padre. Una deriva che lo aveva spinto fino alle Andamane e al golfo del Bengala. Si era ritrovato a Calcutta, ancora una volta al verde, disposto a tutto pur di sniffare anche solo un batuffolo di cotone usato per bucarsi.
Era stato allora che un uomo l’aveva salvato...
Qualcuno bussò sul finestrino. Loïc, perso nei propri pensieri, sobbalzò sul sedile. Un tipo con una faccia da faina lanciava sguardi obliqui all’interno dell’abitacolo. Dreadlock, pelle gialla e butterata, denti marci... Con i suoi mezzi e i suoi contatti Loïc avrebbe potuto trovare spacciatori molto più presentabili ma preferiva avere a che fare con i peggiori sballati. La droga era qualcosa di sordido. Era quella la sua quintessenza. Perché ammantarla di rispettabilità?
Abbassò il finestrino e allungò un rotolo da trecento euro in banconote di piccolo taglio. L’altro gli passò una bustina di plastica. Quando cominciò a rialzare il vetro, lo zombie lo bloccò. «Mica male il tuo catorcio.»
«Lasciami andare.»
«Non mi porti a fare un giro, bello?»
Nonostante Loïc fosse il più gran fifone mai vissuto su questa terra, sentendosi protetto dal suo involucro di lamiera e d’acciaio diventò aggressivo. «Smamma.»
Il tizio lo afferrò per il collo e tirò fuori un taglierino. Loïc ebbe l’impressione di spandersi come una diarrea calda sul sedile in pelle, ma con il piede sinistro riuscì a mettere in folle e subito inserì la seconda, premendo sull’acceleratore. La macchina fece un balzo in avanti con un rombo amplificato dalle pareti del cavalcavia, e lo spacciatore si scostò ululando di dolore.
Su boulevard Macdonald, Loïc sporse la testa fuori dall’abitacolo per respirare l’aria rinfrescata dal temporale. Porte de Clichy. Porte d’Asnières. Seguì il traffico fino a boulevard Malesherbes e si fermò in place Wagram, completamente deserta.
Estrasse la roba dal sacchetto da freezer, si preparò una striscia sul dorso della mano come si fa quando si ha fretta e notò che la polvere puzzava di urina e che era asciutta e compatta al tocco. Buon segno...
Aspirò. Una volta. Due volte. «L’unica via è dal naso», gli aveva detto una volta un regista di film porno conosciuto in un locale notturno. «Tutto il resto sono stupidaggini sentimentali.»
Si sentì subito meglio. I muscoli si rilassarono, la cassa toracica si ampliò. Tutto il suo corpo cominciò a iperventilare. L’aria condizionata, sempre gelida, gli entrava da ogni poro della pelle come un vento che soffiasse direttamente dal polo nord. Rabbrividì e fece un altro tiro. Aveva la camicia madida appiccicata al petto. La staccò e si asciugò il collo. Nell’abitacolo si diffuse un puzzo di sudore misto al profumo che portava e all’odore di coca.
Si accorse con un attimo di ritardo di avere gli occhi pieni di lacrime. Anche il naso colava, rilasciando la polvere che aveva appena inalato. “Cazzo.” Si asciugò occhi e narici con le dita arrossate. Regolò lo specchietto retrovisore e vide una faccia da clown beffardo, imbrattata di polvere, sangue e lacrime.
Con il gomito (non voleva sporcare la plancia in alluminio) aprì il cruscotto e afferrò un pacchetto di fazzoletti di carta. Ne prese uno e si strinse le narici. Dovette restare così per alcuni minuti, con la testa piegata all’indietro, appoggiata allo schienale.
Quando gli sembrò che l’emorragia si fosse fermata, recuperò dalla tasca un gel antisettico, se ne mise un po’ sulle mani e si pulì la faccia come quando era piccolo e sua madre gli sfregava il viso dopo aver sputato su un fazzoletto.
Poi si fece un’altra striscia per il viaggio e inserì la prima.
L’unica via è dal naso...
Fino a quando avrebbe potuto mantenere quel ritmo?