Grégoire Morvan avanzava su una spiaggia: ciottoli scuri, cielo di marmo nero. I ciottoli erano in realtà uova grandi come palloni da rugby che dovevano senz’altro ospitare una qualche forma di vita ripugnante, rettiliana. Procedeva con cautela per non romperle. Si accorse di essersi sbagliato ancora: non erano uova, bensì teste. Teste umane rapate a zero. Si inginocchiò (era ancora giovane) e tentò di liberarle dalla sabbia vulcanica.
Erano vive: donne con i capelli rasati, una croce uncinata incisa sulla fronte, sepolte fino al collo. Alcune avevano enormi occhi bianchi, senza iride né pupilla; altre li avevano leggermente a mandorla, come chi è affetto dalla sindrome di Down; altre ancora avevano una lingua color cenere contornata da un’infinità di minuscoli denti.
Le donne della sua vita.
Le donne della sua morte.
Quando una di loro cercò di morderlo, Morvan si svegliò di soprassalto e si alzò immediatamente dal letto, come per farsi passare un crampo. Barcollò un attimo, poi fu costretto ad appoggiarsi a una parete. Gli girava la testa. Aveva la gola secca. Era sempre stato convinto che durante il sonno l’inconscio si vendicasse della censura che gli impediva di esprimersi nel corso del giorno. Quella teoria in tal caso c’entrava ben poco: il suo incubo non era un sogno, bensì un ricordo.
Guardò l’orologio: le sei del mattino. Non valeva la pena di rimettersi a letto. Brancolando nel buio afferrò il flacone degli antidepressivi. Évian. Pillole. Sorsata d’acqua. Ormai non sapeva più se a fargli ancora tenere botta era il principio attivo o più semplicemente la ritualità di quel gesto.
Fece qualche altro passo nell’oscurità. Dormiva da solo da così tanto tempo che non ricordava più nemmeno di aver diviso una camera matrimoniale con qualcuno. Bagno. Crema idratante. Si massaggiò a lungo la pelle senza accendere la luce. Se tempo prima gli avessero detto che un giorno si sarebbe impiastricciato la faccia con quella roba...
Andò alla finestra e tirò la tenda. A quell’ora non c’era niente di più deserto e vuoto di avenue de Messine. Contemplò la propria immagine riflessa nel vetro. Una composizione degna di Hopper: il blu di una notte di settembre, la luce soffusa dei lampioni, gli spigoli vivi dei bordi dei marciapiedi e lui, in piedi, alla destra del quadro, nella sua tuta Calvin Klein che tratteneva a stento l’adipe incipiente.
Gli spazzini erano già al lavoro: i suoi compagni notturni. Neri che raccoglievano i rifiuti della città senza una parola, senza un gesto superfluo. Solo i sospiri del cassone del camion e lo stridio dei freni risuonavano sotto i platani. Tutti gli anni i residenti chiedevano che la raccolta fosse spostata a un’ora più tarda della mattinata, e ogni volta lui si assicurava che nessuno si facesse carico di quella richiesta di modo che i vicini non dimenticassero il loro pattume e il fatto che c’erano persone pagate per farlo sparire.
All’inizio della sua carriera lo avevano soprannominato il Ripulitore. Aveva raccolto l’immondizia della Repubblica, nettato il culo a tutti i suoi stronzi. E sempre in silenzio. Ora se ne pentiva: avrebbe dovuto fare più baccano possibile in modo che gli scandali finissero sotto gli occhi di tutti e notabili, politici e potenti fossero obbligati a guardarsi in faccia. Ecco perché nel suo quartiere quei fantasmi dell’alba, suoi simili, potevano fare tutto il chiasso che volevano.
Si sedette alla scrivania – un mobile Jean Prouvé che aveva sottratto da una scena del crimine – e accese il computer per controllare la posta. Nessuna novità su Kaerverec. Non che si aspettasse davvero una svolta, almeno non prima che se ne occupasse il figlio.
In quella faccenda c’era qualcosa che non gli quadrava. Se la versione ufficiale non avesse retto, si sarebbe spalancato il vaso di Pandora. Ma, anche in caso fosse stata confermata, avrebbe causato solo rogne. A preoccuparlo era soprattutto com’era cominciata. A Erwan non aveva raccontato tutta la verità. Prima dell’arrivo del cablogramma c’era stata una telefonata: l’ammiraglio Di Greco, la cui voce bastava da sola a fargli riaffiorare i peggiori ricordi.
Morvan non avrebbe mai dovuto affidare l’inchiesta a suo figlio, ma come sempre aveva agito d’istinto. Erano quarant’anni che passava per un calcolatore, per uno stratega machiavellico. Niente di più sbagliato: aveva sempre preso le proprie decisioni sul momento, senza il minimo tentennamento. Del resto, era giusto che mandasse al vecchio ufficiale il suo uomo migliore: Erwan, sangue del suo sangue.
Passò alle cose serie: i suoi messaggi segreti. Ai bei vecchi tempi gli sarebbe bastato sollevare la cornetta di un telefono rosso o leggere qualche bigliettino anonimo portatogli da un agente dei servizi; ora, invece, doveva connettersi via Skype a un server criptato collegato a un IP cecoslovacco e digitare la serie di numeri che un calcolatore gli avrebbe restituito dopo aver inserito una prima password. Nel giro di pochi anni il suo lavoro era diventato una sorta di astrusa branca dell’ingegneria informatica ed elettronica: gli agenti dell’intelligence ormai passavano la maggior del tempo in formazione o nei negozi di cellulari.
Aprì la sua scatola nera. Ad attenderlo trovò un unico messaggio: «Colpo a segno»; un’espressione laconica che significava che la missione era stata portata a termine. Da circa un mese Jean-Philippe Marot, un giornalista impiccione che conosceva da molti anni, stava investigando sulla Franciafrica in generale e su di lui in particolare. Morvan aveva dato degli ordini. L’appartamento del giornalista era stato messo a soqquadro, il suo computer posto sotto controllo, le persone che aveva potuto interrogare «briffate». Marot era sulla buona strada per riesumare i suoi vecchi scheletri. Le minacce non avrebbero sortito altro effetto che quello di incoraggiarlo. Comprarlo era fuori questione: Marot non si sarebbe fatto corrompere; a interessargli non erano né la grana né la verità, bensì la gloria e la stima dei suoi pari. Grégoire avrebbe potuto anche calunniarlo, ma comunque non sarebbe servito a niente. Chi meglio di un corrotto era in grado di smascherarne un altro?
Alla fine si era risolto a occuparsi del problema ricorrendo a «tutti i mezzi necessari». Quell’espressione di Malcolm X gli era sempre piaciuta, anche se preferiva le ultime parole del leader nero agli assassini che gli avevano sparato più di venti proiettili: «Calma, fratelli».
«Colpo a segno» significava che il pericolo era stato sventato. Una soluzione definitiva: uno sfortunato incidente o un suicidio con un biglietto d’addio. Pernaud, l’incaricato di queste esecuzioni sommarie, aveva senz’altro provveduto a fare scomparire eventuali appunti e documenti manoscritti e a cancellare ogni traccia informatica. Se anche un editore, un parente o un avvocato fossero stati al corrente di quel progetto, nessuno avrebbe potuto provare nulla, e comunque sarebbero stati paralizzati dalla paura.
Morvan non avrebbe chiesto altro al suo boia: ormai era troppo vecchio per interessarsi ai particolari. In compenso gli divenne improvvisamente chiara una delle ragioni inconsce per cui aveva deciso di mandare Erwan in Bretagna: suo figlio non sarebbe stato nei paraggi per ficcare il naso nella morte di un giornalista...
Tornò a stendersi sul letto e chiuse gli occhi. Le palpebre gli bruciavano e avvertiva un dolore alla nuca, oltre naturalmente al mal di schiena. L’idea che qualcuno avesse cercato di ficcanasare nella sua vita lo metteva a disagio. Cominciò a immaginare il capitolo che avrebbe potuto scrivere sui suoi anni giovanili in un’ipotetica autobiografia.
Tutto era cominciato con la violenza. Di sinistra, naturalmente.
1966: Grégoire Morvan ha ventun anni ed è un maoista convinto, tendenza rosso sangue. Si occupa del servizio d’ordine nelle manifestazioni, fa volantinaggio, spacca il muso a chiunque non la pensi come lui. Non è un rivoluzionario utopista: ai lunghi discorsi preferisce il manganello. In realtà non sopporta già più nessuno: quegli stronzi dei fasci, i gaullisti che ammorbano la vecchia Francia, i borghesi che con i loro soldi corrompono tutto, i proletari che non capiscono niente e perfino i suoi compagni gauchisti, tanto bravi a parlare ma senza palle.
Soprattutto detesta sé stesso. Sbucato dal nulla, senza il becco di un quattrino né lo straccio di un titolo di studio, entra in polizia come agente. Un rivoluzionario in chepì, mantellina e fischietto non è certo il massimo...
Il maggio del ’68 è la sua grande occasione. I superiori, che hanno sentito delle sue simpatie politiche, gli suggeriscono di infiltrarsi tra i ranghi dei trotzkisti e dei maoisti. Lui li manda a cagare, ma quella proposta gli fa venire un’idea. Si iscrive al SAC – Servizio di azione civile –, la polizia paramilitare gaullista, un’accozzaglia di violenti, ex militari e delinquenti muniti di un distintivo tricolore.
Integrarsi non è un problema. Essere un poliziotto è la sua miglior garanzia. Nel giro di qualche giorno sa già tutto: i blitz, le finte ambulanze (gli sbirri del SAC, in camice bianco, raccolgono gli studenti feriti e li massacrano di botte nella loro sede di rue de Solferino), le operazioni sotto copertura (sempre loro, camuffati da studenti, salgono sulle barricate e provocano la polizia per far precipitare la situazione).
Dopo una settimana incontra Benny Lévy, leader della sinistra proletaria, per passargli queste informazioni. Lévy è entusiasta, ma Morvan vuole essere pagato. L’altro resta deluso. Il poliziotto gli risponde citando Mao: «Lo sterco di vacca è più utile dei dogmi: serve come concime». Lévy brontola, però alla fine capitola e propone malvolentieri una cifra. Affare fatto.
Per settimane Morvan si muove sullo sfondo di macchine incendiate e slogan ridicoli: «La società è una pianta carnivora», «Amatevi gli uni gli altri», «Mi sono rotto della società e la società si è rotta di me». Di giorno è in servizio in uniforme nel V arrondissement. La sera bazzica l’università vestito come un hippie. Qualche ora dopo, nuovo cambio d’abito: camicia bianca e manganello. All’alba vende le sue informazioni ai maoisti e ricomincia.
Non dorme più. I katanga, attaccabrighe accampati alla Sorbona, gli passano delle anfetamine. Una notte un reparto del SAC è chiamato d’urgenza per sgomberare gli uffici del generale De Gaulle. Morvan fa parte della spedizione. Svuota cassetti, trasporta scatoloni, li carica sui camion. E nel frattempo sottrae qualche fascicolo.
Un’altra notte la sua squadra interviene in uno scontro di strada. I ragazzi del movimento di estrema destra Occident hanno scritto su un muro: «A morte tutti i comunisti ovunque essi siano!». E in effetti non sono lontani. I gauchisti si fiondano su di loro. Scatta la rissa. I sicari del SAC si uniscono alla mischia. Morvan è confuso. Con una catena massacra uno stronzo fascista che sta riempiendo di botte uno studente. I camerati del SAC non capiscono più niente. Cercano di fermarlo, lui reagisce, cominciano a picchiarlo e lui scappa.
Si rintana in commissariato, cercando di tenere un profilo basso, ma la faccenda arriva alle orecchie dei superiori, con l’aggravante che l’estremista che ha pestato altri non è che Pierre-Philippe Pasqua, figlio di Charles, all’epoca vicepresidente del SAC. Il corso esige la testa del traditore ma ottiene il risultato opposto: i poliziotti, molti dei quali sono iscritti all’Internazionale socialista francese, non tollerano di ricevere ordini dal SAC. Morvan riesce ad avere salva la pelle, però deve rassegnare le dimissioni.
È in quel momento che si ricorda dei fascicoli rubati a De Gaulle, densi di informazioni su operazioni «clandestine», come venivano chiamate all’epoca. Negozia. Lo tengono in polizia ma lo spediscono in Gabon con l’incarico di addestrare la guardia personale del presidente Bongo. Deve farsi dimenticare.
Grégoire si alzò e andò in bagno. Luce. La solita faccia da coccodrillo. Non aveva la forza di ripensare a quello che era successo dopo. A come in Africa fosse entrato in rapporti con i suoi vecchi nemici, al fatto che la feccia di destra – reduci dell’organizzazione paramilitare OAS, agenti dei servizi in esilio, mascalzoni che sapevano troppo – gli avesse insegnato il mestiere, all’arresto dell’Uomo Chiodo, quando aveva visto in faccia il diavolo...
Si buttò sotto la doccia. Tornato a Parigi non aveva mai più fatto nulla per ragioni politiche. Si era limitato a tutelare l’ordine, a preservare una forma di immutabilità nel cambiamento.
Camicia. Bretelle. Giacca e cravatta. Come ogni mattina, il contatto con quei tessuti raffinati gli trasmise una misteriosa sensazione d’invulnerabilità. Effetto dei soldi? Del potere? O più semplicemente dell’abitudine? Provava ciò che doveva sentire un generale nell’indossare la propria uniforme.
Pensò al breve viaggio in Congo in compagnia del figlio. Come al solito a Erwan aveva detto un decimo della verità. Non gli importava un tubo della morte di Nseko – si trattava di sicuro di una questione tra negri – e il suo probabile successore, Mumbanza, gli andava più che bene. Morvan si era scomodato soltanto per assicurarsi che nessuno avesse fiutato i suoi progetti. Non escludeva che Nseko fosse stato torturato e che per tentare di salvarsi la pelle avesse rivelato alcune informazioni ai suoi assassini. Ma da quanto era riuscito a capire nessuno era al corrente dei suoi piani. Tutto bene, dunque; anzi, la morte dell’africano poteva tornargli comoda: uno in meno a conoscenza del suo segreto. Aveva approfittato di quel soggiorno a Lubumbashi anche per fare qualche telefonata ai suoi uomini sul posto: salvo prova contraria, nel Nord tutto procedeva come aveva sperato...
Mentre si annodava la cravatta, accese la radio. France Info. La sera prima il presidente François Hollande aveva annunciato per l’anno successivo un calo della disoccupazione e un aumento senza precedenti della spesa pubblica. Le bombe cadevano su Aleppo. Zainab, sette anni, sopravvissuta al massacro di Chevaline, era uscita dal coma. Bernard Arnault, prossimo a trasferirsi in Belgio, assicurava che avrebbe continuato a pagare le tasse in Francia. Un giornalista free lance, Jean-Philippe Marot, si era ucciso buttandosi dalla finestra del suo appartamento al nono piano...
Morvan controllò la posta mentre si vestiva. Due buone notizie. Silenzio totale su Kaerverec. Qualche parola sulla scomparsa di un giornalista...
Infilò il Macbook nella ventiquattrore con le chiusure cromate. In piedi in mezzo alla stanza cercò qualche frase a effetto con cui archiviare quella breve rievocazione del passato.
Non riuscì a trovarla.
Rimettersi al lavoro era l’unica cosa da fare.