Secondo le informazioni che aveva ricevuto, il capitano Philippe Ferniot, trentotto anni, comandante di pattuglia dal 2009 e al momento comandante dello squadrone di caccia Gascogne, aveva partecipato a venticinque missioni di guerra e contava milleottocento ore di volo, di cui millecento sui Rafale. L’eroe aspettava Erwan nella stanza riservata agli interrogatori, un anonimo refettorio con lunghi tavoli e una lavagna a fogli mobili dalle pagine stropicciate.
Seduto in fondo alla sala davanti a un caffè, Ferniot indossava ancora sotto la giacca a vento della marina una tuta ricoperta di distintivi e mostrine colorate che gli conferiva l’aspetto di una vecchia valigia. Erwan lo salutò, gli si sedette di fronte e aprì il computer, mettendosi a scrivere senza dire nulla, come se fosse da solo. Alla fine gli chiese la sua versione dei fatti.
Fin dalle prime risposte capì di avere a che fare con una specie di automa privo di sentimenti. Ferniot non manifestava né dispiacere né tristezza per la morte di un ragazzo di ventidue anni il cui corpo era stato ridotto in poltiglia dal missile che lui stesso aveva lanciato. Sembrava addirittura che su quella faccenda non avesse nemmeno un’opinione.
La sua testimonianza era riassumibile in poche parole: sabato 8 settembre, ore 7.10, decollo dalla Charles-de-Gaulle. Direzione: isola di Sirling. Obiettivo: sconosciuto. Con altri due Rafale, Ferniot, pilota operativo e comandante di pattuglia, aveva effettuato più passaggi sul sito in attesa di ricevere ordini. Identificato l’obiettivo, si era limitato ad avviare un programma preregistrato (ogni potenziale lancio seguiva una procedura diversa). Il missile aveva centrato il bersaglio. Attivazione del postbruciatore del Rafale (un impianto che consentiva di imprimere all’aereo una violenta accelerazione, o almeno questo era quanto aveva capito Erwan). Atterraggio sulla CDG alle 7.38. Secondo i computer, i radar e i superiori la missione era stata un successo.
«Non ho altro da aggiungere», concluse il pilota. «In questa storia sono solo un anello della catena. I piloti sugli altri due aerei mi guardavano le spalle, il controllore radar si occupava dello spazio aereo e di quello terrestre e gli ingegneri analizzavano tutti i dati. Senza contare che i miei superiori hanno seguito ogni secondo del volo.» Si alzò in piedi e tirò su la cerniera della giacca a vento. «Se ci sono delle responsabilità, le cerchi a terra, tra gli imbecilli che hanno spinto quella povera matricola ad andare a nascondersi sull’isola.»
«Si sieda.»
«Stiamo soltanto perdendo tempo, sia io sia lei.»
«Potrebbe doverne perdere molto di più.»
Il pilota si chinò verso Erwan. Fisicamente era come ci si poteva aspettare che fosse uno che parlava in quel modo: capelli corti, mascella quadrata, volto completamente inespressivo. «Cosa vorrebbe insinuare?» sibilò.
«Non sto insinuando proprio niente. Per il momento lei è tra i sospettati in un’inchiesta per l’omicidio colposo di un soldato. Dovrò tenerla sotto stretta sorveglianza in attesa che si concludano le indagini preliminari. Quindi si sieda, prima che il tono di questa conversazione cambi davvero.»
Il pilota aprì la bocca per mettersi a gridare ma lasciò perdere e sorrise. Osservandolo in volto, Erwan notò che aveva riacquistato il suo sangue freddo.
«Molto bene», acconsentì Ferniot. «Spari pure le sue domande.»
«Qual era la ragione ufficiale della missione?»
«Ogni anno i piloti devono sottoporsi a una valutazione terra-aria, un test che vale anche come addestramento. In qualità di comandante di pattuglia non sono esentato dalla procedura.»
«Non mi sembra particolarmente scosso per ciò che è successo.»
«Le ho già detto che non lo sono per nulla. Ho semplicemente eseguito gli ordini. Se le informazioni che mi sono state date non corrispondevano alle circostanze reali, sono problemi loro. Non posso essere contemporaneamente alla cloche e a terra, per controllare che la zona sia in sicurezza. A ciascuno il suo mestiere.»
Nonostante Ferniot avesse tutte le ragioni di questo mondo, Erwan aveva comunque voglia di provocarlo. «Insomma, fa quello che le dicono di fare.»
«Come lei. Se uno vuole agire di testa propria, è meglio che non entri nell’esercito o nel servizio pubblico.»
«Ha lanciato lei il missile contro il bunker, sì o no?»
«No. Mi ascolta quando parlo? È tutto informatizzato, gliel’ho appena spiegato. Sia il volo sia il lancio. Quando alla base viene individuato l’obiettivo, sono i computer a fare tutto.»
«E chi è che decide l’obiettivo da abbattere?»
«Nessuno. È un programma a sceglierlo in modo completamente casuale. L’informazione ci viene data all’ultimo momento.»
«Se avesse saputo che c’era qualcuno nel bunker, avrebbe potuto sospendere l’operazione?»
«Naturalmente. C’è un pulsante che permette di fermare tutto quanto: IMMEDIATE EXIT. È possibile anche disinserire il pilota automatico.»
«Mi dica qualcosa sul missile che ha distrutto il bunker.»
«La smetta di chiamarlo bunker. Il mio obiettivo era un tobruk.»
«Che missile ha lanciato?»
«Non ha parlato con i miei superiori?»
«Non ancora.»
«Avrebbe dovuto cominciare con loro. Io non sono autorizzato a dirle nulla. Segreto militare. E comunque non ne so niente. Non ci vengono mai date informazioni precise sull’OPIT.»
«Su cosa?»
«Obice perforante incendiario tracciante.»
Nella mente di Erwan riaffiorarono alcuni ricordi. Aveva condotto diverse inchieste nei territori d’oltremare in occasione di morti sospette. Aveva interrogato numerosi alti ufficiali ed era rimasto colpito dal contrasto tra la loro intelligenza strategica, la loro esperienza militare, e la totale imbecillità che esibivano nella vita civile. Individui con licenza di uccidere, capaci di torturare un uomo rimanendo impassibili o in casi estremi di amputarsi una mano o un piede per salvarsi la vita, erano gli stessi che poi pisciavano nella bottiglia dello shampoo di un commilitone e si spanciavano per le barzellette di Pierino.
Ferniot si batté le mani sulle ginocchia e si alzò di nuovo. «Bene. Basta cazzate. E comunque può trovare le informazioni nel mio rapporto di volo. Le dico solo che, per quanto ci riguardava, era tutto a posto. Altrimenti non avremmo mai sparato.»
Erwan lo imitò. Gli era venuta un’idea. «Se qualcuno fosse entrato nel tobruk un attimo prima del lancio, sarebbe stato possibile individuarlo?»
«Certo. Quando l’obiettivo viene selezionato, i radar sono puntati su di lui.»
«Quali radar?»
«Sismici, termici: quelli che ci trasmettono le informazioni prima dell’impatto, che controllano che all’interno dell’obiettivo non ci sia niente in movimento, che sul sito non sia presente nessuna fonte di calore.»
Mentre pronunciava quelle parole, Ferniot cambiò espressione. Si era appena reso conto di un fatto di fondamentale importanza: se le sue strumentazioni non avevano riportato niente, significava che Wissa era già morto.
Erwan non reagì. Prima regola: mai far capire al testimone l’importanza delle informazioni che sta rivelando. Seconda regola: mai mostrarsi sorpresi. «Conosceva Wissa Sawiris?»
«No.»
«E gli altri allievi ufficiali di Kaerverec?»
«Nessuno. È la prima volta che vengo qui. Sulla CDG sono in missione. La mia base è a Carcassonne.»
«Andrà al funerale?»
«Come tutti. Ci prenderemo le nostre responsabilità.»
«Non sembra molto contento all’idea.»
«Mi dispiace per il novellino, ma nessuna cerimonia potrà riportarlo in vita. La colpa è solo di coloro che si trovavano a terra: quello che è successo non è professionale e non voglio essere io a pagare per delle teste di cazzo.»
Era la prima volta che tradiva un’emozione. Collera, in questo caso.
Erwan decise di chiudere su un terreno neutrale. «Anche lei quand’era matricola ha dovuto essere iniziato?»
«Ovviamente sì.»
«Dove?»
«In un’accademia dell’aeronautica a Salon-de-Provence.»
«Com’è andata?»
Il pilota scoppiò a ridere. Passava da un’emozione all’altra come un computer che cambi programma: indifferenza, rabbia, divertimento... «Qualche scherzo. Niente di veramente cattivo.»
Erwan accompagnò Ferniot alla porta borbottando qualcosa su formulari da riempire, scartoffie da firmare, superiori da informare.
Una volta rimasto solo, riaccese il cellulare. Durante l’interrogatorio Michel Clemente, il medico legale della Cavale blanche, l’aveva cercato.