Poltrone di velluto rosso e soffitto scuro dai riflessi dorati. Seduto in un ufficio del ministero degli Esteri sotto un enorme lampadario che diffondeva una luce eccessivamente bianca, Grégoire Morvan aspettava. Era stato convocato d’urgenza alle sei di sera da Éric Deplezains, segretario di stato del governo Hollande.
Inizialmente aveva temuto che quella convocazione avesse a che fare con il suicidio del giornalista Jean-Philippe Marot, ma Deplezains si occupava di tutt’altro: quai d’Orsay era lontano dal ministero degli Interni. E se il suo uomo aveva lavorato bene nessuno sarebbe riuscito a collegarlo con quella morte. Era più probabile che Deplezains volesse consultarlo riguardo a qualche questione africana, la specialità di Morvan.
In ogni caso se la stavano prendendo comoda. Altro che urgenza.
Era già più di mezz’ora che stava aspettando. Avrebbe potuto fare una sfuriata a qualche usciere ma non voleva concedere questa soddisfazione a Deplezains. Lo conosceva da quando era un ragazzo, un giovane lambertista che prendeva a sprangate i fasci. Grégoire l’aveva visto imborghesirsi e diventare dirigente dell’MNEF, l’associazione sanitaria nazionale degli studenti francesi. Quando era scoppiato lo scandalo – i socialisti vivevano come nababbi a spese degli studenti –, aveva insabbiato il caso e salvato le chiappe a quella banda di parassiti.
Costringendolo ad aspettare Deplezains voleva fargli capire che quel giorno era lui ad avere il coltello dalla parte del manico. A Morvan non importava. Non aveva nessuna fretta di rivedere quella brutta faccia dai capelli impomatati: lui e i suoi uomini l’avevano soprannominato Coglionanatra laccata.
Facendo buon viso a cattivo gioco, cominciò a sfogliare il taccuino in finta pelle su cui prendeva appunti per un libro che aveva in mente di scrivere, una specie di carrellata sulle morti più ingiuste e assurde della storia. “Vasto programma”, avrebbe detto De Gaulle. Ogni volta che trovava un minuto, annotava qualche caso che gli era venuto in mente o rileggeva quanto aveva già buttato giù. Era il suo modo di misurare la vanità dei destini.
Ai funerali di Guillaume Apollinaire, nel novembre del 1918, al passaggio del feretro la folla aveva gridato: «A morte Guillaume!», riferendosi in realtà a Guglielmo II, l’imperatore tedesco, che quello stesso giorno aveva abdicato al trono. Nel 1958 Ruben Um Nyobe, rivoluzionario camerunese, era stato ucciso e sfigurato dai soldati francesi dopo un lungo inseguimento nella giungla. L’unica cosa che era stata ritrovata accanto al cadavere era una cartella contenente un quaderno su cui appuntava i suoi sogni... A Morvan piaceva anche la storia di Sid Vicious, il bassista dei Sex Pistols sospettato di avere ucciso la propria fidanzata e morto di overdose a ventun anni a New York. Secondo la leggenda, la madre era talmente sbronza quando era atterrata a Heathrow per recuperare le sue ceneri che aveva fatto cadere l’urna in un bar dell’aeroporto. Quello che restava del punk era stato ripulito a forza di candeggina e colpi di straccio. Such a life, such a death... Altri esempi: il proiettile che aveva ucciso Gandhi era stato ritrovato fra le sue ceneri dopo la cremazione; l’aneddoto dei figli di Rinaldo di Capua, operista del diciottesimo secolo, che alla morte del padre avevano venduto come carta straccia le partiture che questi in vita aveva conservato con la massima cura; il cervello di Einstein, rubato dal medico incaricato della sua autopsia, o quello di Walt Whitman che, scivolato di mano a un inserviente dell’obitorio, era finito per terra, spappolandosi, ed era stato buttato nella spazzatura.
Morvan richiuse il taccuino e osservò il soffitto: fregi dorati, modanature, affreschi. Dopo due secoli di diritto di sciopero e democrazia non era cambiato niente: il magniloquente apparato della pompa regale. Come lo Zietto di Francia, che tuonava contro i fasti della presidenza ma che, una volta eletto, non aveva più preso un aereo se non accompagnato da una scorta della guardia repubblicana.
Al ricordo di Mitterrand ebbe un pensiero per Marot, che aveva voluto riesumare il suo passato. Cosa aveva scoperto di preciso? Era davvero qualcosa per cui valeva la pena di morire? Gli venne in mente un altro episodio che risaliva alla seconda parte della sua vita, dopo le intemperanze giovanili e i successi africani.
Rientrato in Francia, Morvan era diventato uno stimato poliziotto e un agente dei servizi estremamente efficace. Quei due mestieri non erano incompatibili. Anzi, spesso si occupava personalmente di cancellare le tracce che lui stesso aveva lasciato.
All’epoca del mandato di Giscard era stato particolarmente attivo: aveva eliminato un architetto del dipartimento del Var che aveva commesso l’imprudenza di andare a letto con la moglie di un presidente africano. Aveva insabbiato – o comunque contenuto – lo scandalo dei diamanti di Bokassa. Quella faccenda era costata a Giscard il secondo settennato, ma erano riusciti perlomeno a scongiurare il rischio maggiore: che si facesse luce sui traffici francesi nella Repubblica Centrafricana.
Quando il potere era passato nelle mani di Mitterrand, Morvan aveva fatto in modo che nessuno andasse a ficcanasare dalle parti di quai Branly o indagasse sulla figlia illegittima del presidente. Nel 1985 aveva «convinto» Charles Hernu, all’epoca ministro della Difesa, ad assumersi la responsabilità dell’affondamento della Rainbow Warrior. Nel 1994 si era precipitato nell’appartamento di Grossouvre quando questi si era suicidato, per aiutare l’amante a raccogliere le proprie cose e ad andarsene. Era anche stato il responsabile di tutte le intercettazioni dell’Eliseo (e all’epoca dello Zietto ne erano circolate di voci...). Al termine del secondo settennato, avevano dovuto usare giganteschi inceneritori per distruggere tutti gli incartamenti, i dossier e i documenti riservati prima di consegnare le chiavi di casa a Chirac. Morvan aveva osservato il fumo di tutte quelle scartoffie levarsi in cielo pensando alla fumata che in Vaticano annuncia l’elezione del nuovo papa. Loro stavano facendo più o meno la stessa cosa, anche se con uno spirito diverso...
Aveva continuato anche sotto Chirac. Era stato incaricato di «smarrire» la videocassetta di Jean-Claude Méry e aveva fatto in modo che la stampa non parlasse che di quello: dov’era finito il nastro? Chi lo aveva perduto? Nel mentre, tutti avevano dimenticato le rivelazioni che conteneva sui finanziamenti occulti all’RPR. A Chirac, che si era complimentato con lui per come aveva saputo confondere le tracce, Morvan, parodiando L’avaro di Molière, aveva declamato: «La mia videocassetta? Chi ha rubato la mia videocassetta?». Sorriso tirato del presidente.
Si era occupato anche di molte altre faccende, incarichi ben più sanguinosi. Non ricordava nemmeno più quanti scandali avesse soffocato, quante fogne avesse ripulito. Le sue vittorie più belle erano quelle di cui nessuno aveva mai sentito parlare.
Morvan si era sempre mantenuto incorruttibile. Non votava, non aveva mai accettato alcuna nomina ufficiale né un solo centesimo dal governo per una carica politica. Come Jacques Foccart, il suo modello, aveva conservato la propria indipendenza accontentandosi dello stipendio da poliziotto e dei guadagni provenienti dai suoi traffici in Africa.
Solo una cosa non gli era riuscita: avrebbe voluto restare freddo e distaccato, mantenere una neutralità inoppugnabile, e invece viveva dominato dalla collera e dall’odio. Era cominciato tutto nel ’68 e da allora non aveva più cambiato rotta. A muoverlo non erano né il patriottismo né l’indifferenza, bensì la rabbia.
Detestava gli alti funzionari, i dirigenti amministrativi, i colletti bianchi, tutti coloro che sembravano aver dimenticato che la storia, prima di essere scritta nei libri, è fatta da colpi di mano, rivolte di strada, intrallazzi nei bassifondi.
Odiava le associazioni, i clan, le corporazioni. Tutti quelli che avevano bisogno di essere in tanti per sentirsi qualcuno. Partiti politici, massoni, razzisti, antirazzisti, ecologisti, sindacati, lobbisti, magistrati, poliziotti, militari, oltre naturalmente a ebrei, cattolici, musulmani e finocchi... Tutti uguali, tutti miserabili.
Non sopportava i figli di papà, che non avevano dovuto dimostrare nulla per arrivare dove si trovavano, e ancora meno i parvenu, che erano arrivati troppo in alto in troppo poco tempo. Senza contare chi non andava mai da nessuna parte e viveva alle spalle della bestia: cortigiani, imboscati, leccaculo di ogni tipo.
Ma soprattutto detestava i giornalisti. Quelli erano i peggiori di tutti perché non volevano sporcarsi le mani. Segnavano a dito gli errori dei politici ma non si schieravano mai. Accusavano i corrotti e poi avrebbero venduto la loro madre per un rimborso spese. Denunciavano chi tradiva il proprio partito quando erano i primi a cambiare idea ogni mattina sulle prime pagine dei loro pezzi di carta straccia. Quei bavosi sapevano bene che non dovevano nemmeno avvicinarsi a lui. Qualche volta era capitato che un giornalista cercasse di indagare su Morvan o di trascinarlo nel fango. I più potenti – i consulenti in comunicazione – avevano perfino chiesto la sua testa. Dilettanti: era lui il maestro del lobbying, dei giochi di potere, dell’arte della diffamazione.
Lo avevano temuto fisicamente. La sua non era una longa manus ma un pugno di ferro. Una cosa è vedere arrivare la finanza per un controllo, un’altra è perdere un occhio o una gamba.
Ma ormai non valeva più nemmeno la pena di attaccarlo o minacciarlo. Era sorpassato, come un vecchio ciclostile. Con tutta la sua collera e la sua brutalità, aveva raggiunto l’obsolescenza. Era figlio di un’epoca più spietata, più crudele, in cui De Gaulle era sopravvissuto a più di un attentato e Pompidou girava con in tasca la lista di coloro che avevano messo in giro la voce che sua moglie fosse una frequentatrice di orge. Un’epoca fatta di denti stretti, metodi sbrigativi, scontri violenti. Adesso i presidenti mangiavano fromage blanc e non pronunciavano nemmeno una parola senza prima aver convocato il loro gabinetto.
«Signor Morvan?»
Un usciere se ne stava davanti a lui in frac e colletto inamidato.
«Il segretario di stato è pronto a riceverla.»
Si alzò con difficoltà dalla poltrona di velluto. Lo spettacolo ricominciava.