25.

Jean-Patrick di Greco era sui due metri di statura.

In quell’angusta cabina sembrava un’aquila costretta in una gabbia per canarini. Non era soltanto alto, era lungo: spalle strette, braccia interminabili, gambe a trampolo. Settant’anni, leggermente curvo, dava l’impressione di essere logoro, spossato, nonostante i capelli fitti e neri come quelli di un pellerossa.

Per qualche secondo l’ammiraglio restò a fissare il proprio ospite senza dire una parola, e questo consentì a Erwan di osservarlo meglio. L’ufficiale aveva un volto scheletrico: pochi muscoli, ancor meno carne. Zigomi prominenti, naso aquilino, orbite cerchiate da occhiaie. Il tutto avvolto in una pelle giallastra come un’antica pergamena.

Le presentazioni furono rapide. Nell’appendere la cerata all’attaccapanni Erwan urtò contro degli scaffali di metallo. Lo spazio era illuminato soltanto da una minuscola lampada piatta posata sulla scrivania. Non si poteva fare altrimenti: la cabina era dotata di oblò e bisognava rispettare il coprifuoco.

«È venuto per parlarmi di quello spiacevole incidente.»

Di Greco amava gli eufemismi.

«Si sieda», aggiunse muovendo la lunga mano. «Prego.»

Erwan si accomodò nell’angolo riservato agli ospiti: qualche metro quadrato occupato da un divanetto accanto a una sedia pieghevole e un tavolino poco più largo di uno skateboard, il tutto contornato da pile di fascicoli, raccoglitori e scatoloni. Sembrava di essere nel bel mezzo di un trasloco.

Di Greco parve accorgersi della sua sorpresa. «Non abbiamo molto spazio sulla nave.»

«Non voglio pensare alle cabine dei soldati semplici.»

«Né più grandi né più piccole di questa, solo che loro ci stanno in due. E soprattutto non hanno questo privilegio!» disse indicando l’oblò con l’indice ossuto. «Qui è l’equivalente di un balcone o di un terrazzino... Mi dispiace, non posso offrirle niente da bere.»

«Non importa. Non sono venuto per fare conversazione.»

Di Greco tornò a sedersi alla scrivania, riuscendo a fatica a infilarvi sotto le gambe. Erwan si chiese se fosse stato un pilota: non capiva come quell’uomo di due metri avrebbe potuto trovare spazio nella cabina di un Rafale.

L’ammiraglio si lanciò in una tirata simile a quella di Vincq, solo più solenne. Parlava lentamente e con voce grave, senza ricorrere al gergo militare. Ma in sostanza niente di nuovo: le stesse frasi vuote e banali.

Erwan lo interruppe con un gesto – ne aveva piene le scatole di quel trito linguaggio retorico – e fece il punto della situazione: il feroce omicidio di un EOPAN in una base militare; la cerimonia di iniziazione stupida e crudele; la totale assenza di comunicazione tra un’accademia dell’aeronautica navale e una portaerei distante appena qualche chilometro; l’indifferenza generale di fronte alla tragica morte di un ragazzo che aveva deciso di consacrare la propria vita all’esercito.

La notizia dell’omicidio non parve sorprendere Di Greco (Erwan era sicuro che qualcuno lo avesse già informato). L’ammiraglio non sembrava nemmeno preoccupato dalle numerose falle nell’organizzazione dell’accademia.

«Per il momento che indizi ha?»

«Non sono tenuto a parlargliene.»

Di Greco annuì. La lampada sulla scrivania lo illuminava dal basso, come in un film del terrore. «Sospetterà di sicuro un linciaggio. Una prova finita male.»

«È il minimo che si possa immaginare.»

«Quindi avremmo data carta bianca a degli elementi fuori controllo?»

Erwan decise di cambiare marcia. «Non solo l’esercito ha coperto questi criminali, ma li ha anche ispirati.»

«Non capisco.»

«A Kaerverec ho percepito una cultura di violenza e crudeltà che ha inasprito il naturale sadismo degli studenti.»

«Ne ha le prove?»

«No, è solo una sensazione.»

«Secondo lei chi sarebbe stato a instillare questo veleno?»

«Lei.»

«Sono soltanto il capo di stato maggiore di Kaerverec. È il colonnello Vincq a dirigere la base.»

«Vincq è il responsabile del programma di volo. Ma è lei che incarna lo spirito della scuola.»

«Quindi sarei il diavolo?» L’ammiraglio sorrise.

A Erwan sarebbe piaciuto rispondergli che in effetti del diavolo aveva già la faccia, ma preferì trattenersi. Quegli occhi sporgenti, contornati da cerchi color carbone, lo affascinavano. “L’ho già visto da qualche parte”, si disse. Ma dove? O forse gli ricordava soltanto gli zombie dei film horror? «Ci sono già stati altri incidenti simili nella scuola?»

«No.»

«Risse? Episodi di violenza?»

«Mai.»

«Nemmeno durante le iniziazioni?»

«Soprattutto non in occasione delle iniziazioni. Quello che succede in quei fine settimana è tutto regolamentato, verificato e controllato.»

«Mi è stato detto più di una volta, ma abbiamo visto i risultati.»

«Qualcuno ha peccato di negligenza. I responsabili verranno puniti. Ma sappia che cerchiamo di ridurre al minimo i rischi.»

La cabina era surriscaldata. Erwan si sentiva soffocare. Il sudore colava lungo la nuca mischiandosi alle gocce di pioggia che gli bagnavano ancora il collo. «Può garantire per tutti i soldati?»

«Certo.»

«Istruttori? Studenti? Contingente in servizio? Addetti alla manutenzione?»

«Ognuno di loro deve superare una serie di test psicologici e di colloqui. Glielo ribadisco: qui più che altrove, non possiamo permetterci nessuna leggerezza nella selezione dei nostri soldati.»

Di Greco aveva un tono tranquillo. Dallo sguardo e dalla voce traspariva uno strano rigore. Anche la sua figura, infilata in una divisa blu scuro priva di galloni, aveva un che di ascetico.

«Che ne pensa di Bruno Gorce?»

«È il suo sospettato?»

«Risponda alla domanda.»

«È un buon soldato. Un pilota eccellente.»

«E un sadico. Gorce è il presidente dell’associazione degli studenti», ribatté Erwan. «Quest’anno è stato lui a occuparsi di ogni dettaglio dell’iniziazione. Nel corso della cerimonia aveva il grado di boia speciale.»

L’ufficiale incrociò le lunghe dita. Le sue falangi sembravano nodi da marinaio. «Non nego che il tenente sia dotato di un particolare senso dell’umorismo, che però non fa di lui un assassino.»

«Mi è sembrato piuttosto sensibile su un punto preciso: il no limit.»

«Questa prova ufficialmente non esiste.»

«È ciò che mi hanno detto tutti, eppure ogni volta che la nomino se la fanno sotto.»

«Non esiste dal punto di vista dei superiori di Kaerverec. Le Volpi non sono tenute a parlarcene quando ci presentano il programma.»

«Quindi ammette che non siete al corrente di tutto quello che succede durante le prove?»

«Quest’anno non c’è stato nessun no limit. Cosa sta cercando, di preciso?»

Erwan si alzò e si avvicinò alla scrivania. «Il no limit permette agli EOPAN di dimostrare il loro coraggio, la loro capacità di resistenza. È l’apoteosi di una specie di via crucis. Sono convinto che per tracciare il profilo dei vostri studenti teniate segretamente conto dei risultati che ottengono in questa prova.»

Si alzò anche Di Greco. Erwan si rimise seduto. Era uno strano balletto: le loro ombre si proiettavano sulla parete come in uno spettacolo di marionette balinesi.

«Voglio svelarle un segreto», mormorò l’ammiraglio. «Ha ragione. Usiamo l’iniziazione per testare i limiti dei nostri studenti. Ma non di quelli che crede lei. Non abbiamo bisogno di queste prove per sapere che i nostri futuri piloti sono dotati di coraggio e capacità di resistenza. Sono i limiti degli altri che vogliamo conoscere.»

«Gli altri?»

«Le Volpi.»

Pausa. Erwan intuì – lo avvertì fisicamente – che il senso di tutti i segnali che aveva colto fino a quel momento cambiava radicalmente, come se fin dall’inizio si fosse servito di un codice sbagliato per interpretare dei geroglifici.

«Ha sentito parlare del test di Milgram?» riprese Di Greco.

«Sì, più o meno.»

Negli anni Sessanta lo psicologo americano Stanley Milgram aveva ideato un celebre esperimento sociale. Fingeva di testare le conoscenze di un soggetto al quale venivano poste alcune domande. A ogni errore, un altro soggetto veniva indotto a credere di somministrare all’interrogato una scarica elettrica, aumentandone a mano a mano l’intensità. In realtà era proprio la persona incaricata di inviare la scossa a essere valutata, mentre l’interrogato era soltanto un complice che simulava di soffrire. L’obiettivo del test era chiaro: stabilire fino a che punto un individuo si sarebbe spinto nel torturare un uomo se legittimato da una figura autoritaria. Era possibile uccidere qualcuno unicamente perché si stavano eseguendo degli ordini?

Milgram aveva ottenuto risultati preoccupanti: la maggior parte dei candidati, privati della responsabilità personale, avevano obbedito fino a somministrare scariche che nella realtà sarebbero state letali, e dentro di sé avevano sicuramente goduto nel dare sfogo ai loro più crudeli istinti con il beneplacito dell’autorità. Era la dimostrazione scientifica di quello che accade normalmente in qualsiasi guerra.

«Sta cercando di dirmi che la vostra iniziazione è come il test di Milgram?»

«Proprio così. Non posso entrare nei particolari, ma nel corso di queste ventiquattr’ore gli allievi anziani sono tenuti sotto stretta sorveglianza. Studiamo le loro reazioni, i loro eccessi, il loro livello di sadismo. Non vogliamo mettere i nostri aerei in mano a squilibrati che alla prima occasione cedono alle proprie pulsioni.»

Erwan ora sudava per la vergogna. Avrebbe soltanto voluto tornarsene nella propria camera, fare una doccia e mettersi sotto le coperte. E buonanotte. «È già capitato che una Volpe non abbia superato il test?»

«Qualche volta. Ragazzi troppo zelanti con una spiccata propensione per la violenza o che hanno dimostrato di non sapersi controllare.»

«Che provvedimenti sono stati presi?»

«Non sono andati negli Stati Uniti per il loro terzo anno. Li abbiamo trasferiti.»

«Con quale motivazione?»

«Abbiamo agito con tatto, nessuno gli ha detto che era stato il loro comportamento a squalificarli.»

Il poliziotto osservò l’ammiraglio tornare alla scrivania e rinfilare sotto il piano le gambe da trampoliere. Ancora una volta provò un senso di déjà-vu.

«Il paradosso», riprese l’ufficiale quando si fu seduto, «è che se l’assassino fosse veramente uno studente, l’avremmo sicuramente identificato alla fine dell’iniziazione.»

«Se aveste sorvegliato meglio le vostre truppe, non ci sarebbero state vittime.»

«Nessuna testa è in grado di prevedere tutto. Altrimenti le guerre durerebbero soltanto qualche giorno.»

Per non perdere la faccia, almeno non completamente, Erwan ripiegò sui fatti. «Era al corrente della manovra di sabato mattina?»

«Ho un ufficio qui ma di fatto non sono io a dirigere lo stato maggiore.»

«Nessuno ha pensato che l’esercitazione potesse comportare dei rischi, dato che era in corso l’iniziazione?»

«Assolutamente no. Il weekend d’integrazione è limitato al terreno di pertinenza della K76. Nessun soldato può abbandonare la base. Al limite avrebbe potuto esserci qualche rischio per i turisti, ma tutto viene controllato con i radar. Ritorni a terra, commissario, è lì che troverà i responsabili della morte di Wissa.»

Erwan si alzò borbottando qualche parola di ringraziamento. Di Greco fece per imitarlo, ma con un cenno il poliziotto gli segnalò che non c’era bisogno che lo accompagnasse.

Archambault e Le Guen lo aspettavano nel corridoio. Il capitano d’armi, in disparte, guardò l’orologio con aria soddisfatta.

Senza volerlo, Erwan aveva concluso nel tempo prestabilito.

Ripensandoci, era stato l’ammiraglio a congedarlo quando era venuto il momento.

Ripresero gli ascensori senza dire una parola e ritrovarono la notte sferzata dalla pioggia. Le pale dell’elicottero erano già in moto. Sulla pista, il poliziotto si rese conto che le condizioni meteo erano ulteriormente peggiorate.

«Una tempesta?» esclamò ridendo Archambault. «Solo un piccolo temporale.» Gli infilò d’ufficio il giubbotto di salvataggio. «Però sì, balleremo un po’.»