27.

«Non vuole mangiare qualcosa?»

«No, grazie.»

«In mensa dovrebbe essere rimasto un po’ di merluzzo alla basca e...»

«Le ho detto di no.»

Le undici di sera. Erwan si dispiacque di aver risposto male ad Archambault, ma il viaggio di ritorno era stato una lotta per la sopravvivenza. Non sapeva che si potesse avere il mal di mare anche quando si volava. Le raffiche di vento avevano scosso il Dauphin come il ramo di un albero e il suo cuore come se fosse un frutto maturo. Ora si godeva semplicemente il contatto con la terra ferma. Congelato, bagnato fino al midollo, l’unico suo desiderio era quello di rintanarsi in camera.

«Dica a Verny di passare da me tra quindici minuti.»

«A quest’ora? Credo che...»

«Sono sicuro che è ancora al lavoro.»

«Agli ordini, capitano. Devo venire anch’io?»

Erwan aveva rinunciato a lottare contro il lessico militare: si stava lasciando trascinare lentamente dalla corrente. «No. Briefing domani mattina alle otto e mezzo in refettorio. Ma se dovesse scoprire qualcosa questa notte mi chiami sul cellulare.»

Salutò l’Asparago e si diresse verso il blocco di destra, quello delle camere. Aveva ancora i crampi allo stomaco per la nausea. Salì le scale e raggiunse la sua stanza circondato da un opprimente silenzio: né radio né televisione da dietro le porte; solo le grida dei gabbiani giungevano a tratti a coprire le vibrazioni dei vetri sferzati dal vento. Un’atmosfera decisamente lugubre.

Kripo era all’opera. Due stampanti funzionavano a pieno regime. Una sputava fuori elenchi, l’altra verbali d’interrogatorio. Su una coppia di monitor appoggiati su una scrivania stavano passando le registrazioni della sorveglianza, che il suo vice teneva d’occhio mentre lavorava curvo sul suo Mac. Erwan capì che aveva recuperato i video della settimana precedente nella speranza che potessero servire a qualcosa.

«Ho mangiato alla mensa», lo informò senza sollevare lo sguardo. «C’era un ottimo pollo.»

«Era merluzzo.»

L’alsaziano annuì quasi fosse quello che aveva appena detto. Erwan si domandò per l’ennesima volta come un tipo così distratto riuscisse a essere tanto preciso nel suo mestiere. Il suo vice si era cambiato e ora indossava un gilet di cuoio senza maniche sopra una camicia western, pantaloni di velluto verdi e Croc gialle fluorescenti. «Vuoi che facciamo il punto della situazione?»

Senza rispondere, Erwan afferrò il suo beauty e andò a chiudersi in bagno. Si buttò subito sotto la doccia e cominciò a riscaldarsi. Ora si sentiva più saldo sulle gambe.

«Va meglio?» gli domandò Kripo quando ritornò.

«Nel viaggio di ritorno c’è mancato poco che ci lasciassi le penne. Mi sembrava di essere su una bagnarola in mezzo alla tempesta.»

«E l’ammiraglio?»

«Un cialtrone. E tu?»

«Sempre la stessa solfa. Per quanto riguarda le chiamate non ci sono grosse novità. Abbiamo verificato anche il GPS dei mezzi della base e il traffico marittimo nei dintorni. Nemmeno l’ombra di un movimento sospetto.»

Su uno dei monitor, gli EOPAN, soldati in erba, marciavano al passo sulla pista in maglietta e calzoncini: l’addestramento mattutino.

«Dal tecnico ancora nulla?»

«Sta avendo qualche problema. Wissa aveva preso precauzioni. Il suo hard disc è protetto. Branellec mi ha promesso aggiornamenti domani mattina. Pensa anche di controllare i computer degli altri allievi; vuole sapere chi si è connesso a cosa e come è stato organizzato il famoso weekend d’integrazione.»

«Quanto tempo gli servirà?»

«Almeno tre giorni.»

Erwan annuì senza troppa convinzione.

«L’unica buona notizia», proseguì Kripo, «è che la visita di domani mattina a Sirling è confermata. Sono arrivati i sommozzatori con l’attrezzatura. Imbarco all’alba. Tutti a bordo!»

Erwan ebbe un tuffo al cuore all’idea di mettersi in mare. Intuiva che sarebbe stato ancora peggio dell’elicottero.

Sollevò la cornetta del telefono fisso e chiamò Muriel Damasse, la quale gli aveva lasciato tre messaggi mentre era assente. Nonostante l’ora, il sostituto procuratore rispose dopo due soli squilli. Cominciò a rimproverarlo per non essersi più fatto sentire e per la sua mancanza di cooperazione, ma Erwan la mise a tacere con la notizia che Wissa era stato assassinato. I rapporti di forza cambiarono all’istante: la donna iniziò a supplicarlo di darle qualche pista d’indagine per la conferenza stampa che avrebbe dovuto tenere l’indomani. Lui promise di metterla al corrente prima di partire per Sirling, anche se non credeva davvero di poter scoprire qualcosa di nuovo nella notte. Controllò ancora una volta la segreteria: due messaggi dei genitori di Wissa. Non ebbe il coraggio di chiamarli.

Bussarono alla porta: Verny a rapporto. In zona era da lustri che non si verificava una morte violenta con sevizie. Nei dintorni non c’erano pazzi a piede libero né assassini scarcerati di recente. Nessuna traccia di barche rubate o vascelli fantasma all’orizzonte.

Prima di andarsene il gendarme disse che si sarebbe tenuto pronto per la spedizione del giorno successivo. Erwan capì che gli sarebbe toccata la banda al completo: Le Guen, Archambault, Verny. In fondo cominciava ad affezionarcisi.

«Vuoi che ti faccia un po’ di spazio?» gli chiese Kripo indicando la scrivania.

«Va bene così, grazie.»

Mise mano ai verbali già compilati e ne sfogliò qualcuno come avrebbe fatto al commissariato. Non aveva il coraggio di leggerli nel dettaglio; preferì ripiegare su delle foto infilate in buste trasparenti. Qualcosa con cui rifarsi gli occhi prima di dormire.

Kripo aveva già scelto il letto: la custodia del liuto marcava il suo territorio. Erwan si distese sull’altro. Con i capelli ancora umidi, il corpo caldo per la doccia, avvertì la stessa sensazione di sollievo che provava sempre quando era piccolo dopo il bagno, le sere in cui suo padre restava in servizio.

Aprì la prima busta: i resti di Wissa sparsi sulla sabbia. Chissà perché gli venne in mente una celebre battuta di Michel Audiard nel film In famiglia si spara: «Vado a fargli vedere io chi è Raul. Lo ritroveranno sparso ai quattro angoli di Parigi, a pezzettini, come un puzzle». Si passò una mano sul viso come a scacciare quel pensiero irrispettoso e si concentrò. La posizione dei resti sembrava del tutto casuale – l’onda d’urto del missile – e il loro aspetto non gli diceva nulla.

Seconda busta: il cratere provocato dal missile. Erba bruciata, licheni anneriti, sabbia vetrificata. Posò i documenti e lanciò un’occhiata a Kripo. Stava lavorando ancora e pareva pronto a farsi la notte in bianco. Erwan frugò nello zaino ed estrasse una mascherina per dormire.

In quel momento ebbe un’epifania: capì perché il volto di Di Greco gli era familiare.

L’ammiraglio assomigliava a Sergej Rachmaninov, il celebre pianista e compositore russo. Quand’era ragazzo, Erwan aveva avuto il suo periodo classico. Trascorreva serate intere ad ascoltare concerti e sinfonie e a leggere biografie di compositori. Rachmaninov era uno dei suoi idoli. Si rialzò e prese il portatile. Kripo gli diede la password del wi-fi della base e nel giro di qualche secondo Erwan, disteso sul letto, aveva già cominciato a guardare foto del musicista.

Non si sbagliava: stesso viso lungo, stessi occhi sporgenti, stesse occhiaie scure. Visionò alcune foto che lo ritraevano in piedi. Altro punto a suo favore: con la loro interminabile figura i due sembravano essere passati davanti allo stesso specchio deformante.

Spinto da uno strano impulso lesse rapidamente la voce di Wikipedia dedicata a Rachmaninov. Il pianista aveva diviso la propria vita fra attività concertistica e composizione, tra Russia e Stati Uniti. Erwan era sempre stato affascinato da questo genio postromantico, che quando componeva aveva fama di privilegiare i tasti neri donando sonorità orientali alle sue melodie.

Non gli ci volle molto prima di scoprire un particolare che ignorava: le sue peculiarità fisiche – con le gigantesche mani Rachmaninov era in grado di coprire un intervallo di tredici tasti – dipendevano probabilmente da una malattia genetica, la sindrome di Marfan. Grazie a un semplice clic aprì un articolo dedicato a questa rara patologia che colpiva soprattutto gli occhi, le ossa e il sistema cardiovascolare. La malattia si manifesta esteriormente con una crescita abnorme delle membra, una deformazione dello scheletro e uno smisurato allungamento del viso.

Alle suddette informazioni seguiva una lista di personaggi famosi «sicuramente affetti» dalla sindrome: Niccolò Paganini, Abraham Lincoln, Joey Ramone dei Ramones, il cantante dei Deerhunter Bradford Cox, l’attore spagnolo di film horror Javier Botet... perfino Osama bin Laden. Si assomigliavano tutti: gli stessi tratti allungati, gli stessi occhi malinconici, la stessa immensa statura. Una tribù che forse aveva un’antica origine comune: alcune analisi genetiche avevano dimostrato che già i membri della dinastia di Tutankhamon soffrivano della malattia. Una volta tolte le bende, le mummie rivelavano tutte la stessa figura filiforme.

Erwan pensò a Di Greco. La sindrome di Marfan non gli sembrava compatibile con la sua carriera militare. Allo stesso tempo si ricordò dell’impressione che l’ammiraglio gli aveva dato: un individuo logoro, consunto, sfibrato.

Nuova ricerca, questa volta sull’ammiraglio. Niente, o quasi. Qualche cerimonia ufficiale, assegnazioni di medaglie e basta. Non una voce su Wikipedia né una scheda su Who’s Who; nessuna nota biografica sul sito dell’esercito. Di Greco era un perfetto sconosciuto. A meno che tutto quanto lo riguardava fosse classificato come segreto di stato o militare, impedendo la divulgazione in rete di qualsiasi informazione su di lui.

Erwan si fermò. Gli occhi cominciavano a chiuderglisi. Sprofondò sotto le coperte e si rese conto di aver dimenticato a casa l’apparecchio: avrebbe passato la notte a digrignare i denti.

I sobbalzi del Dauphin tornarono ad assalirlo. Gli sembrava di ondeggiare sul materasso. Mentre scivolava nel sonno e i suoi pensieri si facevano incoerenti, l’ammiraglio gli comparve davanti dalle profondità del subconscio.

Era a bordo del castello galleggiante, ma le sue interminabili braccia si trovavano nei corridoi della K76. Quando le lunghe dita furono ad appena qualche centimetro dal suo volto, sentì quelle mani ossute premere sulla pelle e forargli la carne per afferrarlo.