28.

La rosa per l’estate, la bianca per l’inverno. La riga di coca pronta sul tavolino basso si rifletteva nel vetro dell’immensa finestra del salotto, in perfetto asse con la Tour Eiffel. Loïc viveva in avenue du Président-Wilson, poco distante dal suo vecchio appartamento di place d’Iéna, dove abitavano ancora Sofia e i bambini.

Si era fatto fare una cannuccia in alluminio anodizzato con i bordi smussati per non ferirsi il naso. Non se ne separava mai. Inalò la polvere e non sentì niente. Si disse che doveva essere colpa della roba troppo tagliata. O forse, al contrario, era lui ormai a essere merce avariata, talmente assuefatto da non provare più nulla.

Si alzò e passò alla fase due: rapido sguardo ai monitor e ai terminali sulla scrivania. Il titolo della Coltano era cresciuto ancora. Cazzo. Da qualche parte nel mondo qualcuno comprava e vendeva quelle maledette azioni. Ma chi? Immaginò che suo padre gli avrebbe fatto una sfuriata come se fosse colpa sua e pensò con un certo timore ai generali congolesi. Perché si era lasciato coinvolgere in un tale casino?

Andò sul sito della Reuters, dove per l’appunto compariva un comunicato sulla Coltano, appena qualche riga per confermare la nomina del generale Trésor Mumbanza a direttore dell’azienda nel Katanga. Originario della regione, di etnia luba, Mumbanza aveva un passato sicuramente poco limpido, ma il profilo biografico riportato dall’agenzia era stato edulcorato. Carriera, esperienza, titoli... Tutto suonava falso. In realtà era un generale sanguinario, un faccendiere, factotum di Morvan con la benedizione di Kabila. Il Vecchio diceva di scegliere i propri direttori come De Gaulle sceglieva i suoi presidenti in Africa: «Uomini fidati, che sappiano almeno leggere e scrivere».

Loïc raggiunse la cucina a vista del suo appartamento per la fase tre: un caffè guatemalteco che si faceva mandare direttamente da Antigua. Per prepararlo utilizzava strumenti degni di un chirurgo; la sua sala operatoria era una cucina Boffi attrezzata in marmo e acciaio. Altra delusione. Anche quel nettare non aveva alcun sapore. Credette di aver perso ogni sensibilità ma fu subito smentito da un reflusso acido. Pensò a un’ulcera. Per associazione d’idee gli venne in mente Sofia. Si era rigirato nel letto tutta notte per colpa dell’italiana, non della Coltano.

L’esistenza umana è regolata da una strana forma di alchimia inversa: non si cambia il piombo in oro ma ci si accanisce per mutare l’oro in piombo. Com’era stato che la sua storia d’amore con Sofia si era trasformata in un simile fiume d’odio?

Nuovo senso di bruciore. Si tolse la maglietta e si massaggiò l’addome, all’altezza del plesso solare. Pensò che avrebbe dovuto fare degli esami. Radiografie, colonscopia... qualsiasi cosa fosse necessaria per scovare quel male e riuscire a curarlo. Già si immaginava i trattamenti che gli avrebbero prescritto per rigenerare la sua flora intestinale. Altra polvere...

Con in mano una seconda tazzina di caffè si sedette sul divano in pelle e gommapiuma creato da un designer italiano. In lontananza, il sole e la sua scorta di nuvole si levavano come un grande esercito di scudi dorati e lance infuocate fra le sculture del Palais de Tokyo. Si ricordò dei peplum che guardava quando era bambino, i film degli anni Sessanta collezionati dal padre. All’epoca nei suoi sogni si vedeva come un eroe intrepido...

Il divorzio era fuori questione. Non perché amasse ancora Sofia – la detestava con tutte le sue forze –, ma perché una separazione ufficiale lo avrebbe allontanato dai suoi figli. Per lei non sarebbe stato difficile provare davanti a un giudice i suoi problemi di dipendenza, e allora non avrebbe più potuto vedere Milla e Lorenzo se non una volta alla settimana. Forse il tribunale gli avrebbe impedito anche di tenerli a dormire a casa sua nei weekend...

Terzo caffè. Lui, che da dieci anni viveva in un mondo dove a regnare erano la grana e il senso di onnipotenza, si trovava ora alla mercé di quella stronza. Gli sembrava qualcosa di tremendamente ingiusto, in antitesi con la sua sfolgorante carriera.

Era in affari dalla metà degli anni Duemila.

Con l’appoggio del suo mentore, James Thurnee, proprietario di un importante fondo speculativo, aveva cominciato come semplice analista. Per mesi non aveva fatto altro che leggere tutto quello che era riuscito a trovare sull’argomento. Aveva redatto le sue prime analisi con una certa prudenza, infilandoci poi alcuni consigli che si erano rivelati corretti. Lo avevano notato, si erano fidati del suo intuito e grazie a lui avevano guadagnato un sacco di soldi.

Ben presto era diventato una specie di oracolo.

Dopo due anni non ne poteva più di dispensare consigli senza trarne profitto. Thurnee gli aveva così affidato in gestione un book di duecento milioni di dollari. Loïc aveva finalmente il volante in mano. Ogni giorno vedeva come gli investimenti aumentavano, ristagnavano, diminuivano... Aveva cominciato a maneggiare immense fortune sui cui rendimenti incassava un bonus del venti per cento. Un ringraziamento a titolo speciale...

Voleva di più: un hedge fund tutto suo. Thurnee gli aveva ritagliato una nuova nicchia all’interno della sua società e lo aveva raccomandato ai clienti più anziani. Quei dinosauri, bontà loro, gli avevano dato qualche miliardo perché si affilasse gli artigli.

Lo aveva fatto.

Aveva investito in titoli sconosciuti, interessandosi ad azioni sottovalutate e a società ignorate da tutti. Raschiando il fondo del barile aveva trovato delle pepite d’oro. Si muoveva controcorrente, senza dar retta a mode e voci, giocando sempre a fare l’outsider.

Thurnee lo osservava divertito: sapeva che Loïc nascondeva un segreto. Quel ragazzo aveva vissuto esperienze infernali che lo avevano temprato. Era stato alcolizzato, eroinomane, aveva sfiorato la morte in qualche oscura regione dell’India. Qualsiasi fossero le cifre in gioco, non si sarebbe mai lasciato impressionare dal mercato. Ma soprattutto era buddhista come lui (era stato proprio l’inglese a iniziarlo alla religione). In un mondo basato unicamente sull’avidità, Loïc era indifferente, distaccato, aveva rinunciato a ogni passione e desiderio materiale. Ed era proprio questo distacco che spesso gli consentiva di individuare schemi invisibili agli altri...

Loïc guardò l’orologio: di già le otto. Il sole ormai aveva invaso il salotto. Due ore buttate via a rimuginare. Si alzò di scatto, si concesse un’altra striscia e si infilò in bagno. Doccia fredda. Rasatura veloce. Vestito. Accendendo il telefonino aprì la porta e vide un pacco appoggiato sullo zerbino.

Un cartone beige, chiuso alla bell’e meglio con del nastro adesivo.

Lo afferrò con circospezione – a occhio pesava più o meno un chilo – e rientrò nell’appartamento. Già solo il fatto che quella scatola fosse arrivata fin lì lo insospettiva: lo stabile era una specie di fortezza domotizzata e il servizio di portineria in genere gli teneva la posta fino a quando lui rientrava la sera. Ipotesi sinistre cominciarono a farsi strada nella sua testa. Una bomba. Un dito. Una lettera all’antrace...

Dal pacco proveniva un odore organico, animalesco. Si disse che forse sarebbe stato meglio non toccarlo e chiamare subito il padre, ma la curiosità ebbe la meglio. Andò in cucina, prese un coltello da sushi, tagliò il nastro adesivo con cautela e aprì la scatola.

Trattenendo a stento un grido fece un balzo all’indietro: un’enorme lingua irta di cocci di vetro avvolta in carta di giornale. Il fondo della scatola era zuppo di sangue. Con la punta del coltello sollevò l’organo – un semplice taglio di macelleria – e sotto scoprì un foglietto piegato in quattro inserito in una busta di plastica. Senza prendersi la briga di indossare i guanti, la prese a l’aprì. Il testo era scritto in lettere maiuscole con un inchiostro brunastro, forse sangue:

FINISILA COI TUOI TRAFICI IN KONGO

SE NO TE LA TALIAMO

Si buttò su uno sgabello della cucina all’americana, rilesse più volte il messaggio e avvertì un forte senso di oppressione al petto. La paura aveva invaso ogni cellula del suo corpo, sconvolgendo il suo metabolismo e alterando la sua percezione del mondo esterno. Aveva l’affanno, il cuore gli batteva a centoventi pulsazioni al minuto, era madido di sudore. L’odore del sangue gli montò alla testa fino a dargli le vertigini.

Ora che aveva fatto praticamente tutto il contrario di quello che avrebbe dovuto, gli restava soltanto un numero da chiamare.