30.

Dopo aver letto il messaggio intimidatorio inviato a Loïc, Morvan aveva subito pensato ai Combattenti, congolesi esiliati che dalla Francia continuavano la loro lotta contro il regime di Kabila. Boicottavano i concerti parigini dei musicisti che avevano appoggiato il governo di Kinshasa, aggredivano le autorità congolesi in visita nella capitale, inondavano il web di messaggi inneggianti alla vendetta e organizzavano manifestazioni nella zona della Gare du Nord o in place des Invalides che nessuno si filava.

Perché ora se la prendevano con Loïc? Lo credevano un complice di Kabila? Assurdo. Suo figlio non era che un amministratore della Coltano; per il momento non possedeva nessuna quota del gruppo e non aveva mai messo piede in Congo.

Stavano tenendo d’occhio i movimenti del titolo? Avevano notato il suo rialzo? Ma cosa ne avevano dedotto? Che la combriccola di Kabila intrallazzava con bianchi e tutsi per depredare una volta di più la loro terra? Morvan faceva fatica a immaginarsi quei balordi seguire l’andamento del mercato. La maggior parte di loro viveva in luridi alloggi occupati abusivamente nel XVIII arrondissement: difficile che avessero anche solo dieci euro da investire in borsa.

Un’altra cosa non gli tornava: il messaggio, pieno di errori di ortografia, non era certo nello stile dei Combattenti, per la maggior parte intellettuali laureati alla Sorbona.

“Lo scopriremo.”

Quando Loïc se n’era andato, aveva fatto una doccia, si era vestito e si era precipitato giù per le scale senza nemmeno incrociare sua moglie. Aveva preso anche una 9 mm. Prima di infilarsi in tasca un secondo caricatore aveva cambiato idea: era diretto a Château-d’Eau, non all’O.K. Corral.

Ora stava aspettando negli studi di Radio Katanga, in boulevard de Strasbourg. Odore di tabacco stantio, sporcizia, muri pieni di crepe. Ogni tanto passava qualche nero. Colossi con gli occhi iniettati di sangue. Gazzelle fasciate in abiti di pelle che mangiavano un kebab a colazione (in realtà la loro cena). Nessuno gli rivolgeva la parola. Nemmeno uno sguardo. Eppure un sessantenne bianco di più di cento chili in giacca e cravatta non doveva essere uno spettacolo così frequente in quella stazione radio al cento per cento africana.

Morvan cercava di mantenere la calma mentre rivedeva di continuo l’immagine tragicomica del figlio con il pacco insanguinato sottobraccio. «Chiederò a tua madre di cucinarcela per il pranzo di domenica!»

Sul volto di Loïc non era comparsa nemmeno l’ombra di un sorriso. Morvan era solito dire di lui: «L’audacia non è il suo forte e il coraggio non è la sua specialità».

Riguardo alla Coltano aveva verificato: Deplezains diceva la verità, ma Loïc non aveva alcuna spiegazione convincente. Morvan una ce l’aveva, ma preferiva non pensarci. La sera precedente aveva chiamato Bizot, il presidente del gruppo a Parigi, un indolente funzionario che lui stesso aveva fatto piazzare alla testa della società. Quando era stato informato del rialzo del titolo, aveva esclamato con orgoglio: «È il prezzo del successo!». Che coglione... Gli aveva anche proposto di mandare qualche investigatore privato sul campo per indagare sulla morte di Nseko. Un’altra cazzata. Morvan aveva subito smorzato il suo entusiasmo. A torto o a ragione, era persuaso che la morte del nero non c’entrasse nulla con quell’aumento improvviso nel valore delle azioni.

Poi aveva chiamato i responsabili delle attività di estrazione a Lubumbashi, poveri bianchi con il fisico ormai quasi completamente devastato dalla vita africana. Nessuno era stato in grado di dargli un motivo plausibile. Non c’erano novità: lo sfruttamento delle miniere procedeva con il solito ritmo. Aveva anche tentato di contattare i collaboratori di Nseko, ma evidentemente erano fuggiti, terrorizzati dalla morte del loro capo e temendo i nuovi provvedimenti di Mumbanza (in Congo esistevano mille modi diversi per ringraziare qualcuno...).

Infine, durante la notte, aveva cercato invano di sentire i suoi uomini nella foresta settentrionale. Non aveva più avuto notizie da quando aveva parlato loro di Lubumbashi. Cattivo segno? Cominciò a pensare che questo mistero e la minaccia ricevuta da Loïc potessero essere in qualche modo collegati. Ma no, stava delirando: nessuno a Parigi poteva sapere quello che stava succedendo nei pressi di Ankoro, in piena zona di guerra, nemmeno quelli che si trovavano sul posto...

Le sue elucubrazioni furono interrotte da una voce. Un enorme nero, chino su di lui, gli stava dicendo che avevano avvertito della sua presenza Thomas Luzeko, detto Grancaldo, leader dei Bana Congo, l’altro nome dei Combattenti. Ogni mattina alle nove conduceva una trasmissione radio e di lì a non molto sarebbe uscito dallo studio.

Morvan conosceva il congolese da molto tempo: un luba esaltato che aveva studiato a Bruxelles e a Parigi prima di tornarsene nel proprio paese a seminare il caos. Allontanato da Kinshasa e impossibilitato a rientrare, fomentava i suoi complotti dal X arrondissement. Un intellettuale che citava Hobbes e Marx e celebrava la violenza come unico mezzo possibile.

Apparvero due mastini che gli fecero cenno di alzarsi. Lo perquisirono e gli confiscarono la pistola. Gesti lenti, odore di canna, occhi stanchi: il turno di notte era pronto per andare a dormire. Morvan li seguì in un dedalo di cabine dai vetri sudici fino a raggiungere un magazzino dov’erano ammassati CD, vecchi computer e materiale hi-fi, il tutto ricoperto da uno spesso strato di polvere. In fondo alla rimessa lo aspettava Grancaldo, seduto sulla sedia dritto come un fuso, con in mano uno spinello.

Il nero indossava sempre un busto ortopedico che gli stringeva le spalle come una specie di armatura. Sosteneva di essere stato torturato dalla polizia di Kabila: a seconda dei giorni i colpi ricevuti gli avevano incrinato una o più vertebre.

Morvan si avvicinò, prese una sedia e gli si piazzò di fronte. Dall’odore sembrava che in quella stanza non facessero altro che fumare marijuana.

«A cosa dobbiamo l’onore della sua augusta visita?»

Luzeko aveva una voce scura e levigata come pelle di Hermès. Ogni sua parola rivelava un grado di istruzione fuori dal comune. Negli ultimi anni Mobutu aveva vissuto con due sorelle gemelle. Luzeko era il nipote di una di loro. Alcune malelingue dicevano che fosse il figlio illegittimo del presidente. Il bambino era cresciuto nel palazzo del Leopardo ricevendo la migliore educazione che si possa immaginare.

Morvan tirò fuori dalla tasca il messaggio. «Leggi.»

Grancaldo aprì il foglietto con movimenti simili a quelli di un automa. Gli piaceva recitare la parte dell’invalido. Si concentrò sul testo per qualche secondo. «Cosa vuol dire?»

«Che i tuoi scagnozzi devono prendere lezioni di ortografia.»

L’altro ripiegò lentamente il pezzo di carta e glielo restituì. «Non siamo stati noi, e lo sai.»

«Mio figlio ha ricevuto questa roba stamattina insieme a una lingua di vitello coperta di cocci di bottiglia. Grottesco. I celebri Combattenti hanno deciso di attaccare i finanzieri del sistema?»

«Ti dai troppa importanza. È sempre stato il tuo difetto. Pensi di essere l’ombelico del Congo-Kinshasa. Purtroppo ti devo ricordare che sei soltanto un intruso, uno sporco bianco venuto a depredare la nostra terra. Un...»

Morvan si alzò in piedi e con un balzo fu sopra l’uomo stretto nel suo busto. «Avete deciso di rompere i coglioni al regime di Kabila con ogni mezzo possibile da Parigi. Per me potete fare quel cazzo che vi pare: a ciascuno la sua merda. Ma se vi azzardate a toccare anche solo un capello a mio figlio, giuro che vengo a strapparvi fuori dai vostri luridi buchi come denti marci e che nessuno sentirà più parlare di voi!»

Grancaldo restò impassibile. Si portò lo spinello alle labbra e tirò una lunga boccata. «Ti ho detto che non c’entriamo nulla», ribatté soffiandogli in faccia il fumo. «La nostra è una lotta politica e...»

«Chiudi il becco! Che mi dici allora di Congo scritto con la K

«Non deteniamo il monopolio di questa ortografia. Tutti gli africani del Centro si rifanno al vecchio impero. Sei venuto a rivolgermi una domanda e io ti ho risposto. Addio, Morvan. Non posso fare niente per te e tu non puoi fare niente contro di noi.»

«Ah, sì? Se muovete anche solo un dito, vi carico tutti su un charter a spese di Valls. Cosa credi? Di poterti scopare la Francia a pecorina e poi pulirti l’uccello nelle tende?»

«Devo ammettere che hai una certa classe, Morvan.»

Il vecchio poliziotto lo afferrò per il busto. «Ancora credi che la tua merda non puzzi! Vedremo cosa dirai a Fleury quando ti farai inculare da qualche detenuto frocio ben lubrificato!»

Le labbra di Luzeko furono attraversate da un fugace sorriso. La cannabis e una calma lunare gli impedivano di provare qualsiasi emozione. Lentamente afferrò il braccio di Morvan per liberarsi dalla sua stretta. Il poliziotto non oppose resistenza. Gli avrebbe volentieri spaccato quel naso da babbuino, ma il nero era di sicuro armato.

Fece qualche passo indietro e attese, avvolto in una nebbia di droga.

Senza perdere la sua rigidità, l’altro infilò la mano sotto la giacca. Morvan contrasse i muscoli. Luzeko estrasse soltanto un cellulare e cominciò a giocherellarci.

«Ti pare il momento di metterti a controllare i messaggi?»

«Non i miei messaggi, fratello. I tuoi conti in Svizzera. E quelli di tuo figlio.»

«Dammelo!»

Allungò il braccio, ma Luzeko riuscì a schivarlo con un’agilità inaspettata per un sedicente invalido.

«Credi di essere l’unico ad avere dei dossier, toubab?» Cominciò a leggere con calma dallo schermo del telefonino. «Lo sapevi che Loïc ha ancora un conto cointestato con sua moglie? Non mi sembra molto logico, considerati i loro rapporti...»

Morvan sollevò il pugno. «Negro di merda!»

Lo fermò il profilo nero di una calibro 45. Grancaldo gli stava puntando addosso una pistola.

«Adesso siediti e ascoltami bene.»

Morvan si lasciò ricadere sulla sedia.

«Non ci limitiamo a spaccare qualche muso alla Gare du Nord. Abbiamo le nostre reti, alleati, informatori. Abbiamo imparato da te, Morvan.»

«Perché minacciate mio figlio?»

«Ti ho già detto che non siamo stati noi.» Con la mano sinistra afferrò il foglietto sulle cui pieghe c’erano tracce di sangue rappreso e lo sventolò davanti al poliziotto. «Una lingua di vitello? Un messaggio scritto in bingo bongo? Per chi ci hai preso? Mentre tuo figlio faceva la maturità mezzo ubriaco, io ero già iscritto a scienze politiche!»

Morvan si rimise in tasca il foglietto fingendo di gettare la spugna. Si alzò in piedi e si lisciò il vestito. Un secondo dopo sferrò un colpo con il taglio della mano – come uno shomenuchi – sul polso dello stronzo. Quello lasciò cadere l’arma senza emettere un suono. Con l’altra mano il Vecchio lo sollevò da terra. “Mica male, per la tua età.”

Tirò fuori il cellulare mantenendo la presa su Luzeko, che non fece nulla per difendersi, poi gli sventolò lo schermo davanti al naso. «Anch’io ho le mie informazioni. Lo sai cos’è questo, caro il mio coglione? Le prossime inchieste della Corte penale internazionale. Sorridi: sei in cima alla lista!»

«Che... cosa dici?»

«Nessuno ha dimenticato il tuo passato nella giungla.»

«Sono tutte menzogne!»

Il poliziotto lo lasciò andare e scoppiò a ridere. «Lo sai che il cannibalismo è un toccasana per la potenza sessuale? Con tutto quello che ti sei mangiato in quegli anni chissà quanti bastardi avrai sparsi per la foresta!»

«Brutto stronzo, tu...»

«Chiudi il becco. Se non seguirai i miei ordini, sarà un piacere per me andare a testimoniare all’Aia.»

«Cosa vuoi di preciso?»

«Trovami quei pezzi di merda che hanno scritto il messaggio e datti da fare per scoprire che cosa nasconde.»

Indietreggiò di due passi. Era possibile che Grancaldo tentasse ancora qualche mossa, invece si limitò a sistemarsi il busto.

«Ti do quarantott’ore. Basta una mia parola perché il tuo nome scompaia da questa lista.»

«Ti chiamo?»

«Come no, così m’inguai. Verrò di persona per ascoltare le tue “auguste parole”», replicò dirigendosi verso la porta.

Una volta uscito, si asciugò il viso e il collo con dei fazzolettini di carta. I vestiti puzzavano di sudore e di fumo di canna: sarebbe dovuto tornare a casa a cambiarsi. Cazzo.

Erano già tutti in boulevard de Strasbourg, pronti per una nuova giornata, raccolti intorno all’ingresso del metrò. Parrucchieri che lisciavano capelli. Perdigiorno professionisti. Spacciatori di ogni genere, sicuramente armati per non essere rapinati. Un groviglio inestricabile di grana e istinto di sopravvivenza, intrallazzi e fannullaggine, violenza e gioia di vivere. “Negri del cazzo.” Anche se in fondo Morvan gli voleva bene.

Cancellò il messaggio che aveva mostrato a Luzeko: un elenco di nomi degli ultimi poliziotti promossi e dei loro trasferimenti. Non era in corso un’inchiesta internazionale sul Katanga. Nessuno aveva fretta di avviare indagini in quel posto. L’unica priorità era lo sfruttamento delle miniere.

Ripensando all’accaduto si disse che quasi di certo anche Luzeko aveva bluffato. Quello che gli aveva fatto vedere probabilmente era l’ultimo scontrino della lavanderia.

Due boss di cartapesta. Due cacasotto con così tante cose di cui pentirsi che a ciascuno di loro bastava accendere un cellulare perché l’altro se la facesse nelle mutande. Pietosi.

In quel momento il telefono vibrò. Erwan.