35.

Erwan entrò in camera, andò in bagno e ne uscì un istante dopo con un asciugamano e il beauty sottobraccio. Raccattò qualche vestito per cambiarsi e ridiscese in tutta fretta.

I bagni si trovavano al pianoterra dell’edificio. Avvicinandosi agli spogliatoi udì lo scroscio dell’acqua e il brusio delle voci. I militari erano già sotto la doccia. Meglio così.

Si spogliò e mise i vestiti in un armadietto. L’ambiente puzzava di sudore e acqua stagnante. Coprendosi i genitali con il beauty e tenendo l’asciugamano su una spalla si diresse verso le docce. Le mattonelle di ceramica delle pareti amplificarono il suono dei suoi passi.

Quando aprì la porta, fu travolto da un’ondata di calore. L’umidità lo aggredì penetrandogli in ogni poro. Le cabine si aprivano su entrambi i lati della stanza, al centro della quale correva una fila di lavandini. Le piastrelle immacolate ricordavano gli sgocciolatoi dei laboratori o dei macelli industriali.

Nessuno lo aveva ancora notato aggirarsi tra le nuvole di vapore. Allungò il collo verso i box e vide esattamente quello che si aspettava: i corpi muscolosi erano tutti coperti di cicatrici, tagli, incisioni, croste e ferite rimarginate da poco.

Quando i piloti si muovevano sotto l’acqua, quei segni sembravano prendere vita. Erwan ravvisò bruciature di sigarette, ferite di proiettile, ustioni provocate da gruppi elettrogeni o cavi di batterie...

«Sei venuto a rifarti gli occhi?»

Erwan sussultò. Bruno Gorce se ne stava nudo alle sue spalle insieme ad altri ragazzi. I loro toraci arrossati dal calore sfolgoravano sotto la luce dei neon. Colossi scolpiti in una pietra color mattone.

«È vietato farsi una doccia?»

Gorce lo spinse dentro una cabina. «Pensi che siamo tutti coglioni?»

«Il mio bagno... ha qualche problema.»

«Sei tu quello che ha qualche problema.»

Il gruppo si raccolse intorno al suo leader. L’acqua continuava a scorrere e a gorgogliare dappertutto.

«Non è che sei un finocchio pervertito venuto a menarselo nelle docce?»

«Non dire cazzate», replicò Erwan abbozzando un sorriso.

Fece per uscire, ma i ragazzi gli sbarrarono il passaggio. Con le buone non avrebbe ottenuto nulla. E nemmeno con le cattive. Non appena aprì la bocca per negoziare Gorce gli fu addosso, lo afferrò per il collo e gli piegò il braccio, come un lottatore, poi lo trascinò a faccia in giù e lo sbatté contro i lavandini al centro della stanza.

«Non fare il coglione, Gorce», lo avvertì rialzandosi.

Il capo carnefice si avvicinò. I suoi occhi brillavano come punte di spillo in mezzo al vapore. Sotto la sua pelle si distinguevano ogni muscolo, ogni vena, ogni osso del cranio. «Ti dico io cosa succede adesso: regoliamo i conti in sospeso.»

«Che intenzioni hai?» bluffò Erwan. «Vuoi sfidarmi a duello?»

Gorce sorrise. Gli altri non toglievano gli occhi di dosso dal poliziotto. Le cicatrici disegnavano inquietanti graffiti sui petti, sulle spalle, su gambe e braccia.

Si udì uno schiocco. I soldati si spostarono. Erwan notò due paia di zoccoli di legno scuro con il cinturino di pelle e la punta ferrata.

«Volevi conoscere una delle nostre prove?» disse Gorce infilandosene un paio. «Eccoti servito.»

Con un piede spinse il secondo paio verso Erwan. I soldati fecero qualche passo indietro, disponendosi alcuni a destra, altri a sinistra, altri ancora grondanti acqua sulle soglie delle cabine: le logge di quel teatro.

Erwan conosceva il gouren, un tipo di lotta praticata da secoli in Bretagna, ma non aveva mai sentito parlare di combattimenti a colpi di zoccoli. Una specialità della K76? Li indossò – pesavano almeno due chili ciascuno – e valutò l’avversario. Non aveva chance. In passato aveva fatto kick­boxing e boxe francese, ma aveva smesso da quando...

Ebbe appena il tempo di tirarsi indietro per schivare il primo calcio. Lo zoccolo colpì soltanto il vapore, e il tenente, trascinato dal suo stesso impeto, cadde goffamente a gambe divaricate. Una scena comica, però nessuno rise.

Per nulla rinfrancato da quel colpo a vuoto, Erwan si disse che, se l’esperienza di un lottatore si giudicava dalla prima mossa, forse non avrebbe nemmeno dovuto provare a sollevare la gamba.

Gorce nel frattempo si era rialzato, il volto contratto per l’umiliazione. Erwan si mise in guardia, con i piedi zavorrati. L’altro provò nuovamente a colpire. Il poliziotto fece un balzo all’indietro, ma il pilota, avendo previsto la schivata, bloccò il movimento e si avventò sulla sua gamba sinistra. Lo zoccolo passò a pochi millimetri dal fianco di Erwan, che si aggrappò al braccio o alla spalla di uno spettatore prima di essere sospinto al centro del ring.

Il pugno di Gorce si abbatté sul suo naso. Il sangue gli inondò le labbra e gli occhi si riempirono di lacrime. Accecato, Erwan provò a menare alcuni colpi a vuoto prima di essere raggiunto da un pugno alle costole, un altro all’anca destra e un terzo all’addome. Si piegò in due, sputando sangue.

Si pulì le palpebre e vide lo zoccolo piombargli sulla rotula sinistra. Fu come se gli avessero tagliato la gamba. Cadde in ginocchio provando un dolore lancinante in ogni parte del corpo. Nonostante avesse la vista annebbiata, intuì che l’altro si preparava a colpire. Evitò l’impatto in extremis, anche se forse sarebbe stato meglio lasciarsi tramortire e farla finita.

Un colpo alla nuca esaudì le sue preghiere. Il contatto con le piastrelle lo ridestò. Si vide riflesso in una pozzanghera rossa. Come mosso da un presentimento si girò su un fianco. Lo zoccolo di Gorce andò a sbattere sul pavimento. Ora Erwan era disteso sulla schiena. Istintivamente sollevò la testa e buttò con tutte le proprie forze la gamba destra in direzione dell’avversario. Il miracolo avvenne: l’altro fu falciato mentre i soldati si spostarono per farlo cadere. Erwan percepiva un rispetto assoluto, quasi mistico, nei riguardi della violenza.

Tra un’eclissi e l’altra (brevissimi mancamenti di qualche millesimo di secondo), si trascinò verso il nemico. Invece di attaccare, si sedette e tentò di togliersi uno zoccolo. Impossibile: la caviglia gli si era gonfiata così tanto da essere ormai imprigionata in quella morsa di legno.

Gorce era già in piedi. L’odore del sangue ammorbava l’ambiente, trasportato dai vapori. Reprimendo un urlo, Erwan liberò un piede e infilò una mano in quell’involucro ferrato come se fosse un guanto da pelota basca. L’avversario gli stava addosso. Erwan tese il braccio con tutte le sue energie. La punta di ferro straziò la tibia di Gorce, che cadde su un ginocchio mormorando qualcosa che Erwan si rifiutò di ascoltare.

Sempre seduto come un bambino al parco, sferrò un altro colpo. Lo zoccolo raggiunse il soldato sulla mascella. Gorce fu proiettato all’indietro in uno schizzo di sangue, andando a sbattere con la nuca contro lo spigolo di una cabina.

Il pilota mugugnò ancora qualcosa. La sua bocca era ormai completamente tumefatta, ma questa volta il poliziotto fu costretto ad ammettere l’evidenza: aveva detto «grazie».

Erwan si mise carponi. Con uno zoccolo infilato su una mano e l’altro ancora sul piede ripartì all’attacco. Ma mentre sollevava la sua massa di legno Gorce distese le gambe, colpendolo in pieno petto. Ebbe l’impressione che le costole gli si fossero conficcate in gola.

Intorno a lui i soldati ripetevano a bassa voce: «Grazie... Grazie... Grazie...».

Erwan cadde all’indietro finendo con il culo nell’acqua. Il suo volto era ormai un’unica ferita sanguinante, aveva il petto sfondato (non riusciva più a respirare) e il corpo che sussultava per i colpi ricevuti. Era completamente anestetizzato e si muoveva convulsamente come un’anatra alla quale abbiano appena mozzato la testa.

Gorce caricò. Prima che lo potesse colpire, Erwan gli assestò un calcio nel fianco sinistro con il piede munito di zoccolo. La punta ferrata affondò nell’addome dell’avversario e risalì come uno sperone. Il soldato si accartocciò su sé stesso. Dalle gengive gli colavano sangue, vomito e una densa saliva. Attraverso quella poltiglia lo udì ancora sussurrare: «Grazie».

Gli altri ripeterono in coro: «Grazie... Grazie... Grazie...».

Il colpo che aveva appena messo a segno gli sembrò una vittoria e sentì le energie tornare a scorrergli in corpo come un ruscello nel deserto. Con le membra completamente intorpidite, si tolse lo zoccolo dal piede per infilarci dentro la mano e avanzò sbattendo uno contro l’altro i suoi guanti di legno, come un amputato.

Gorce indietreggiò facendosi scudo con i pugni. Erwan si avventò su di lui e lo trascinò in una cabina dove la doccia era ancora in funzione. L’acqua nel piatto si fece rossa all’istante. Passarono al corpo a corpo. Due embrioni che galleggiavano in una specie di liquido amniotico.

Chini su di loro, gli altri continuavano a scandire: «Grazie... Grazie... Grazie...».

Erwan si dibatteva. Gorce ora stava cercando di annegarlo tenendogli la testa nell’acqua. Gli si annebbiò la vista. Con un ultimo guizzo riuscì a sottrarsi alla presa dell’avversario, che scivolò sul bagnato. Sollevò lo zoccolo, menò un fendente ma mancò il bersaglio. Finirono nuovamente a terra. Il pilota lo afferrò per le orecchie, torcendole come se volesse svitarle. Erwan non sentiva più nulla se non quella nera pulsazione sotto le palpebre: uccidere, uccidere, uccidere...

Spinse lo stronzo contro il muro e gli si scagliò contro. Vide le proprie dita serrarsi attorno alla gola di Gorce. Capì di aver perso le armi: gli zoccoli. Nessun problema, avrebbe finito il lavoro a mani nude.

Strinse con tutte le forze che gli restavano: pura rabbia. Gorce aveva un occhio completamente nero. Lui aveva la bocca pervasa da un sapore metallico. Il sangue li saturava, li sommergeva...

Poi, con un attimo di ritardo, attorno a sé avvertì un cambiamento. La litania era mutata. Ora le sillabe scandite non erano più due, bensì quattro. Quella preghiera sembrava farsi più sconnessa, più confusa.

Erwan lasciò la preda e si voltò tendendo l’orecchio, o ciò che ne restava: una massa bruciante e ronzante. I soldati si tuffarono nell’acqua e recuperarono il loro campione.

Gorce che veniva trascinato via.

Gorce che spariva.

E quelle sillabe, infine comprensibili, che rimbalzavano sulle piastrelle di ceramica: «DISPERDERSI!».