42.

Quando misero piede sulla piattaforma, non assomigliavano per nulla a una squadra d’assalto venuta a interrogare un sospettato. Zuppi come spugne, coperti di sale come aringhe, dovevano essere uno spettacolo penoso. Verny aveva la faccia di un annegato. Le Guen indossava ancora la muta gonfia d’acqua. Ad Archambault tremavano le braccia per le manovre al timone. Erwan teneva la testa china sotto il cappuccio, in segno di sottomissione al dio del mare.

Questa volta ad attenderli non trovarono soltanto i manovratori. Le operazioni di ormeggio furono sorvegliate da alcuni fucilieri della marina con il dito sul grilletto. Una passerella li condusse all’interno di quella bocca di acciaio immersa nella luce rossa.

«Che diavolo ci fate qua?» sbraitò il capitano d’armi.

«Siamo venuti a interrogare l’ammiraglio Di Greco», rispose Verny nello stesso tono.

Per superare il frastuono delle onde e riuscire a farsi sentire era necessario urlare.

«Avete un mandato?»

«Non ne abbiamo bisogno. La procura di Brest ci ha incaricato dell’inchiesta sulla morte del soldato Wissa Sawiris. Siamo autorizzati a prendere qualsiasi provvedimento e a interrogare chiunque nell’interesse della verità.»

Il gendarme aveva pronunciato quel discorso senza la minima esitazione. Non male per un sopravvissuto. Il militare non sembrò particolarmente impressionato. Estrasse una ricetrasmittente da sotto la cerata, si girò con le spalle al vento e cominciò a parlare, abbassando la testa come se stesse provando ad accendersi una sigaretta.

«Dobbiamo aspettare il capitano di vascello», disse quando tornò da loro.

«Andiamo», fece Erwan, con i nervi a fior di pelle. «Ci raggiungerà.»

Subito i soldati gli sbarrarono il passo armando i fucili. Archambault e Verny estrassero immediatamente le pistole. La luce scarlatta delle lampade non faceva che accrescere la violenza di quella scena.

«Calma.»

Tutti guardarono in direzione della voce che aveva appena coperto il frastuono dei flutti. Una figura in parka scuro si profilò nell’alone rosso. Un uomo basso, sulla cinquantina, senza alcun segno particolare e privo di scorta. Erwan capì che si trattava del capo supremo della nave.

«Capitano di vascello Martin», confermò quello. «Credevate davvero di poter abbordare in questo modo la Charles-de-Gaulle? Per chi ci avete preso?»

Erwan si presentò e riepilogò la situazione, ripetendo più o meno il discorso di Verny, solo con un linguaggio meno aggressivo e più circostanziato. L’ufficiale non fece commenti. I fucilieri si erano raccolti attorno a lui, senza abbassare le armi.

«Perché vuole interrogare l’ammiraglio?» chiese Martin.

Dal portellone aperto il vento soffiava così forte che le voci umane sembravano semplici interferenze radio nella notte. Ciò nonostante il capitano non alzava la voce. Capo della nave, capo della tempesta.

«Segreto istruttorio», rispose Erwan. «Credo che l’ammiraglio sia abbastanza grande da decidere se rispondere alle nostre domande o farci sloggiare.»

Con quel lessico così poco formale sperava di riuscire a rompere il ghiaccio. Il tentativo fallì. L’uomo in parka rimase in silenzio, con le mani dietro la schiena. I fucilieri non abbassarono la guardia.

«Ha a che fare con la faccenda dell’ufficiale di marina Frazier?» chiese alla fine Martin.

Dunque la notizia li aveva preceduti. Per testimoniare, il giovane soldato aveva abbandonato la portaerei, ma Erwan era sicuro che tutti a bordo sapessero quello che aveva raccontato.

«Mi dispiace, non posso dirle nulla. Dobbiamo parlare con l’ammiraglio.»

«Sono le tre del mattino.»

«Se ci siamo mossi a quest’ora, è perché si tratta di...»

«È impossibilitato a riceverla a causa delle sue condizioni di salute.»

«Le propongo una cosa: rinunciamo a interrogarlo questa notte ma almeno lasci che gli presentiamo la nostra richiesta. Lo disturberemo soltanto il tempo di avvertirlo della nostra presenza e poi sarà lui a scegliere quando parlarci. Se potrà riceverci domani mattina, attenderemo a bordo.»

«E se dorme?»

Quei dettagli così prosaici tradivano il fatto che tutti ormai consideravano Di Greco un vecchio malato, una leggenda agonizzante.

«Durante il nostro primo colloquio», bluffò Erwan, «l’ammiraglio mi ha parlato dei suoi problemi di insonnia. Non credo che lo disturberemo.» Sorrise. «Starà sicuramente guardando la tempesta dal suo oblò.»

Di nuovo, il tono informale non sortì alcun effetto: non si parlava in quel modo di un sovrano. Tuttavia l’ufficiale lanciò uno sguardo ai soldati, sempre in posizione di tiro. A un suo cenno i marine abbassarono le armi.

«Dieci minuti di orologio. La accompagno personalmente.»

Corridoi. Ascensore. Luci rosse. All’interno della nave la tempesta sembrava un lontano ricordo, ma le tasche della cerata di Erwan erano ancora piene di acqua salata e lui continuava a sentire nelle ossa gli scossoni del viaggio. Era come se fosse impregnato della furia del mare.

Secondo ascensore. Altro corridoio. Giunti davanti alla cabina dell’ammiraglio la scorta si fece da parte perché il poliziotto potesse bussare: dopotutto quella era una sua idea. Erwan picchiò alla porta come un ufficiale giudiziario impegnato in uno sfratto.

Nessuna risposta.

Bussò un’altra volta, più forte.

Di nuovo nessuna risposta.

Erwan abbassò lo sguardo. Una striscia di luce filtrava da sotto la porta. Lanciò un’occhiata al capitano di vascello. Non ci fu bisogno di parlare.

«Abbiamo un passe-partout.»

A un cenno dell’ufficiale un uomo estrasse un mazzo di chiavi e fece scattare la serratura. Dopo un breve momento di esitazione Erwan entrò nella cabina, con la mano sulla pistola.

Le luci erano accese. Tutto era esattamente come la prima volta. Lo stesso disordine: fascicoli impilati l’uno sull’altro, fogli arrotolati, scaffali traboccanti.

Seduto dietro la scrivania, sotto quell’oblò che costituiva il suo unico privilegio, Di Greco era sfigurato. Il proiettile gli aveva sfondato il cranio schizzando alle sue spalle frammenti di cervello.

Indossava la stessa uniforme azzurra priva di decorazioni. In mano teneva ancora la pistola utilizzata per porre fine ai suoi giorni: una Beretta 92G di acciaio inox. Erwan conosceva molto bene quel modello: era stata la sua arma d’ordinanza quando militava nelle teste di cuoio della polizia. Si avvicinò e constatò che il sangue non si era ancora coagulato: la morte risaliva a meno di un’ora prima, quando loro si trovavano già in mare. Qualcuno aveva avvisato l’ammiraglio del loro arrivo? Di Greco sapeva che presto o tardi sarebbe stato arrestato?

Erwan provò sentimenti contrastanti. Quel suicidio equivaleva a una confessione e l’inchiesta sarebbe stata chiusa. Ma allo stesso tempo tutte le sue domande non avrebbero avuto risposta: qual era il movente? E le circostanze? Com’era potuto accadere?

Si accostò per vedere se l’ammiraglio avesse lasciato un messaggio d’addio.

Lo trovò sul piano della scrivania, un foglietto ripiegato e coperto di schizzi di sangue. Erwan si mise accanto al morto in modo da poter leggere e lo aprì. Il Grande Corpo Malato aveva scritto un’unica parola, in lettere maiuscole:

LONTANO