43.

«Nam-myoho-renge-kyo... Nam-myoho-renge-kyo... Nam-myoho-renge-kyo...»

Loïc mormorava il Sutra del loto nella versione giapponese di Nichiren. La frase essenziale, che riassumeva l’intero sutra e che così tante volte lo aveva ispirato nelle situazioni peggiori. Non aveva dormito e lo attendeva ancora tutta una serie di prove. Dopo il fermo gli sarebbero toccate di sicuro una comparizione davanti al giudice, un’imputazione e, perché no, una detenzione provvisoria. Con dodici grammi di coca scattava la carcerazione preventiva.

Senza contare la vera tragedia: Sofia e quella troia del suo avvocato si sarebbero subito aggrappate alle accuse per ottenere un decreto d’ingiunzione per direttissima. Gli avrebbero tolto i figli. Avrebbe potuto vederli soltanto per qualche ora al mese con un poliziotto a fargli da balia.

«Nam-myoho-renge-kyo... Nam-myoho-renge-kyo...»

Malgrado tutti i suoi sforzi, in quella gabbia dalle pareti di vetro luride non riusciva a fare il vuoto dentro di sé. Questioni più prosaiche e pressanti gli martellavano nelle tempie. Chi aveva fatto la soffiata? Lo spacciatore del giorno prima? I vendicatori neri? Non gli sembrava lo stile né dell’uno né degli altri.

La sospettata numero uno era Sofia. Chiuse gli occhi e cercò di contrastare l’ondata di odio che lo stava sommergendo. Per un buddhista odio e amore si equivalgono: bisogna liberarsi dal vincolo delle passioni, qualsiasi esse siano.

Per il momento gli sarebbe bastato poter uscire da quella cella. Il suo compagno – un barbone che «conosceva i suoi diritti» – muggiva come un vitello e prendeva a calci il vetro. Loïc rinunciò a pregare.

In mancanza di meglio, si concentrò sul proprio passato. Il capitolo migliore della sua personale Legenda Aurea.

Calcutta, febbraio 2001.

Non era mai riuscito a capire come a un certo punto si fosse ritrovato nella capitale del Bengala occidentale. Doveva essere stato cacciato dallo yacht su cui lavorava come skipper dopo che qualcuno lo aveva beccato a sniffare colla nella sala macchine, o qualcosa del genere. Alle isole Andamane si era imbarcato su un cargo per poi navigare senza meta insieme ad alcuni pescatori nelle Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie al mondo. L’unica cosa che si ricordava era il maddok, un derivato a buon mercato degli steli dei papaveri da oppio che lui fumava sul fondo delle barche.

A Calcutta sarebbe potuto passare benissimo per un sadhu. Coperto soltanto da un perizoma, era così sudicio e bruciato dal sole da essere quasi nero. Aveva la barba lunga fino al petto, le unghie come artigli e i capelli pieni di pidocchi.

Si era scelto per madrina la minacciosa e funesta Kali, patrona della città, che indossa una cintura di braccia mozzate, mostra la lingua color sangue e distrugge tutto ciò che non le piace. Il simbolo perfetto della capitale bengalese, allora popolata da dieci milioni di persone che sopravvivevano all’ombra dei palazzi vittoriani in rovina. Mendicanti, lebbrosi, ambulanti, operai, sadhu, bramini, intellettuali e intoccabili si riversavano nelle sue strade come una piena inarrestabile.

Loïc si era lasciato trasportare da quella corrente, spendendo i suoi ultimi dollari in eroina di pessima qualità e oppio adulterato. Si faceva sotto i portici, mangiava avanzi di riso, beveva chai a una rupia. Nei rari momenti di lucidità andava nel parco di Maidan con un libro dalle pagine sudicie: The Gospel of Sri Ramakrishna, in inglese. Capiva una riga su due ma trovava affascinante l’idea di morire con quel volume in mano.

Un giorno, raggomitolato su un marciapiede, aveva capito che gli stavano marcendo le gambe. Non si era spaventato: era quello che voleva. Sarebbe morto in quel corpo calpestato da milioni di sandali e di piedi nudi, sognando divinità i cui nomi non riusciva nemmeno a pronunciare. Sorrideva, pronto a dissolversi nell’odore di fiori e di merda di Calcutta. A reincarnarsi in un dio o in un sasso.

Era stato in quel momento che aveva udito una voce rivolgersi a lui: «Devi riprendere contatto con la realtà».

Loïc si era tirato su e aveva intravisto la figura piatta di un occidentale dalla grossa testa grigia, grinzosa come il culo di un elefante. L’uomo indossava una veste di canapa e il triplo cordone dei bramini, che simbolizza i debiti dell’uomo nei riguardi dei saggi, degli antenati e degli dei.

Come immerso in un sogno aveva pensato: “Un altro bianco che ha fumato troppo...” e poi aveva perso i sensi. Da quel momento in poi i suoi ricordi si facevano confusi. Iniezioni. Flebo. Deliri. Nessuna crisi di astinenza. Per il resto, effluvi di canfora e odore di fiori ammuffiti, di terra umida. E una febbre bruciante. Molto sonno.

Quando Loïc si risveglia, un medico lo aggiorna sul suo stato: «Ha l’apparato digerente infestato da parassiti, l’intestino pullulante di vermi, il corpo coperto di ulcere, è affetto da scorbuto. Unica buona notizia: non ha l’AIDS e siamo riusciti a evitare l’amputazione».

«L’amputazione?»

Si ricorda di essere caduto da una barca nelle Sundurbans. Rivede le sue ginocchia ferite, il pus che essuda dalle piaghe.

«Si chiama cancrena. Abbiamo fermato l’infezione.»

Dovrebbe ringraziare il medico ma non è nelle condizioni di farlo. Ha le membra scosse da spasmi, la sua carne brucia. Domanda – supplica – che gli diano qualcosa, qualsiasi cosa, o che lo rimandino nel limbo, libero da ogni sensazione.

Coma.

Quando riprende conoscenza, ha l’impressione di avere espulso il cervello dalle orecchie. Il guru è accanto a lui, questa volta in tre dimensioni. Ha circa sessant’anni. È ricco e ben in carne. Camicia bianca con il collo alla coreana, ampi pantaloni di lino, accento scozzese. Gli parla di incubi, di allucinazioni. Gli spiega che dipendono dall’astinenza, dalle erbe che gli sono state somministrate in quel luogo.

«Dove sono?»

Gli parla di verità, di saggezza, di unità. Si esprime per immagini, per parabole.

«Ci conosciamo, vero?» riesce infine a chiedere Loïc.

«Hai fatto lo skipper su una delle mie barche un paio di anni fa.»

Loïc non ricorda nulla. L’uomo prende un paio di forbici e comincia a tagliargli i capelli, le unghie, la barba.

«L’induismo non fa per te», gli dice, mentre le lenzuola si ricoprono di cheratina. «E nemmeno il buddhismo classico. Cioè: il Piccolo e il Grande Veicolo. Quello che ti ci vuole è il Vajrayana. Il Veicolo del diamante. Il buddhismo tibetano.»

«Cosa vuol dire?»

«Che domani si parte.»

Non atterrano a Lhasa, la capitale del Tibet, ma a Kunming, nella provincia dello Yunnan, vicino al confine sudorientale del paese. Per raggiungere i contrafforti dell’Himalaya lo scozzese ha in programma di seguire un percorso preciso. Prima in quattro per quattro e poi a cavallo.

Tremila metri d’altitudine. Falesie di terracotta. In fondo alla valle, un fiume, anch’esso rosso: l’embrione del Me­kong. A Loïc sembra di fluttuare in un gigantesco utero, nel grembo fecondo di una dea indiana assopita ai piedi dei ghiacciai. Trema sulla sua cavalcatura. Lo hanno imbacuccato come un neonato nomade, tra pelli e pellicce, e poi legato alla sella. Non può fare altro che ammirare il paesaggio e soffrire per i sintomi dell’astinenza.

Gli ci vuole più di qualche giorno per capire che stanno attraversando una regione il cui accesso è vietato, posta sotto lo stretto controllo dell’esercito per la sua vicinanza con il triangolo d’oro. Non riesce a capire quale possa essere il fine dello scozzese. Parlandogli dal suo cavallo, Loïc cerca di provocarlo: «Se credi che dopo tutto questo verrò a letto con te...».

«Non preoccuparti, è già successo.»

«Quando?»

«Durante la nostra crociera.»

Di nuovo nessun ricordo. Quell’uomo si chiama James Thurnee, è di Edimburgo e ha fatto fortuna in Europa. Più di una volta. Prima come produttore di chitarre elettriche e mixer, poi nelle telecomunicazioni e infine con Internet. Adesso amministra i suoi guadagni. Va a pregare ora in un luogo, ora in un altro, dispensando consigli ai fedeli in difficoltà...

Le settimane si susseguono tra mazzette alla polizia cinese, rovesci di pioggia violentissimi, frane, traversate di fiumi su ponti di corda, grandinate, camion incidentati ai bordi della strada, un’esplosione in una miniera di rame dove sono loro a prestare i primi soccorsi...

Le persone che incontrano sono colossi con i capelli neri raccolti in chignon e pugnali d’argento alla cintura, donne dal volto completamente piatto e imbrattato di terra, di latte e di pioggia. Tibetani che annunciano l’approssimarsi del confine.

Un giorno arrivano in un’immensa vallata. In basso, un villaggio di case con i muri imbiancati a calce che sembra fatto di zollette di zucchero; più in alto, due torri quadrate bianche e imponenti che si ergono da un edificio color vinaccia: il monastero. Tutt’intorno, campi d’orzo e di grano che ondeggiano al vento della sera accogliendo le ombre smisurate delle nubi in una danza cangiante di colori.

Loïc non ha mai visto una simile meraviglia. Dagli occhi gli sgorgano lacrime di riconoscenza.

Un anno tra i monaci. Risveglio al suono di trombe, preghiere, sermoni, elemosine, mandala... In India aveva conosciuto una spiritualità delirante come una febbre; qui, la fede ha la forza di un pugno chiuso. Dopo avergli purificato l’organismo e mondato gli occhi, Thurnee si occupa della sua anima. Loïc ha altre terribili crisi di astinenza. Inchiodato a letto, in preda alle convulsioni, implora che smembrino il suo corpo e lo diano in pasto agli avvoltoi, come vuole la tradizione tibetana. Nessuno lo ascolta, le crisi passano. Riprende la routine quotidiana del tempio: preghiere, meditazione, studio...

Di tanto in tanto ripensa al padre che lo crede ancora per mare. Dopotutto, il suo metodo ha funzionato. Loïc è iniziato al Vajrayana. Legge, ascolta, medita. La preghiera diventa una nuova forma di droga che tuttavia funziona al contrario: lui esce dal corpo per ritrovare l’anima.

A quel punto, contro ogni aspettativa, Thurnee gli propone di tornare nel mondo delle illusioni: il samsara, la valle di lacrime, quello che tutti gli altri chiamano realtà. Il buddhismo non è una fuga, spiega al suo protetto, bensì un graduale distacco. Lo porta con sé a New York, lo inizia alla finanza. Loïc si appassiona a questo mondo di vanità estrema. È come fare una partita a scacchi senza mai dimenticare che si tratta soltanto di un gioco.

Tuttavia le passioni sono dure a morire. Incontra Sofia a Manhattan e se ne innamora all’istante. Per guadagnare sicurezza e sentirsi all’altezza dell’italiana ricomincia a sniffare. Gli basta una striscia per buttare alle ortiche due anni di astinenza. Poco importa: è simpatico, affascinante, loquace, e seduce la ragazza. Thurnee lo porta in una clinica specializzata per fargli impiantare pareti in titanio nel setto nasale.

Nessuna sfuriata, nessuna paternale: Loïc non capisce.

«Le passioni hanno il difetto di non durare a lungo», gli dice Thurnee.

Aveva ragione: nove anni dopo Loïc e Sofia si odiavano con tutte le loro forze. Non ci sarebbe voluto molto perché finissero con il dimenticarsi l’uno dell’altra e scivolassero nell’indifferenza.

Lo scatto della serratura lo fece sobbalzare. La porta della cella si aprì. Loïc si rese conto che il barbone astioso si era addormentato e che anche gli altri suoi compagni sonnecchiavano.

Istintivamente si guardò il polso. Durante la perquisizione gli era stato tolto anche l’orologio.

«Morvan? Sono io.»

Mentre saliva le scale seguendo il piantone, si disse che finalmente era il momento dell’interrogatorio. Avrebbe potuto chiamare il suo avvocato, che in meno di un’ora lo avrebbe fatto liberare.

Ma ad aspettarlo nell’ufficio non trovò un poliziotto, bensì Sofia. Strinse i pugni, pronto a spaccarle la faccia. Stava per balzarle addosso quando lei gli ordinò: «Siediti».

Loïc obbedì senza dire una parola.

In fondo, la vita era semplice con l’italiana.