45.

Erwan non era andato a dormire.

Dopo la scoperta del corpo dell’ammiraglio Di Greco aveva aspettato insieme ai suoi compagni l’arrivo dei tecnici della Scientifica. Erano stati scortati nella mensa ufficiali e chiusi lì dentro. Per alcune ore non avevano fatto altro che bere caffè, in silenzio, tentando di assimilare la catastrofe. Mentre il dolore si risvegliava e le fitte tornavano a tormentarlo, Erwan aveva pensato che quello era uno dei momenti più brutti della sua vita, il peggiore di tanti. Aveva deciso di non chiamare suo padre finché non fosse stato sicuro delle circostanze del decesso.

I TIS erano arrivati in elicottero intorno alle quattro del mattino. Ufficiali, responsabili e politici li avevano seguiti passo passo, in preda al panico. Un suicidio a bordo della più importante nave da guerra francese non era cosa da poco. Nel mentre, avevano cercato parenti e familiari da avvertire. Nessuno. Come Dracula, Di Greco aveva vissuto da solo rinchiuso nel proprio castello.

Alle sei, dopo avere ragguagliato Neveux e i suoi uomini sull’accaduto, Erwan aveva preso un Dauphin per tornare sulla terra ferma. Le spoglie dell’ammiraglio sarebbero state trasferite in seguito, dopo un approfondito esame della scena del suicidio. I suoi accoliti lo avevano seguito senza indugi per non restare un minuto di più su quella nave di sventura (perfino Archambault aveva abbandonato il suo ETRACO).

In volo Erwan non aveva aperto bocca, scandagliando i fatti in cerca di una spiegazione plausibile.

La prima: Jean-Patrick di Greco, che si era macchiato dell’omicidio di Wissa Sawiris, sapendo di essere stato scoperto aveva preferito mettere fine ai suoi giorni. Il suicidio era una sorta di ammissione di colpa e chiudeva definitivamente il caso. Erwan detestava quel genere di conclusioni. Gli ricordavano sempre la barzelletta che circolava tra gli studenti di medicina: «L’operazione è riuscita, ma il paziente è morto». In questa ipotesi tuttavia c’erano due punti deboli: assenza di movente e debolezza fisica.

Un’altra idea cominciò a farsi strada dentro di lui: forse Wissa Sawiris era stato seviziato e mutilato nel tobruk. In tal caso, il missile era stato doppiamente utile all’assassino perché aveva fatto piazza pulita della scena del crimine, cancellando ogni indizio.

“Torniamo a Di Greco.” Un’altra ipotesi, per così dire contrapposta: l’ammiraglio, temendo che l’apprendista pilota fosse minacciato dalle Volpi, aveva cercato di proteggerlo o almeno di calmare le sue truppe. Non essendoci riuscito si era ucciso, spinto dal rimorso o incapace di accettare il fallimento: non era in grado di controllare i suoi uomini, aveva soltanto scoperchiato un vaso di Pandora. Ma questa versione dei fatti non era soddisfacente: perché sacrificare quello studente? Perché tanto sadismo? A che scopo quelle terribili mutilazioni? Perché Di Greco, padrone assoluto della scuola, non era riuscito a tenere a bada le sue Volpi?

Erwan contemplò anche alcune varianti delle due ipotesi. Di Greco non aveva ucciso personalmente Wissa ma aveva istigato i suoi sgherri a torturarlo a morte; poi, una volta capito che il no limit si era spinto troppo in là, si era tolto la vita. Oppure aveva incitato Wissa a sottoporsi a qualche prova ed era stato proprio il giovane soldato a decidere di superare la propria soglia di tolleranza, accettando, per così dire, una morte programmata. Ciò nonostante, nessuna di queste teorie si conciliava con il profilo dell’assassino: un uomo dominato da una profonda follia, in possesso di conoscenze mediche, sessualmente frustrato e con tendenze sadiche.

Qualsiasi cosa potesse pensare, i fatti portavano comunque a un’unica conclusione: la spedizione a terra di venerdì e il suicidio indicavano Di Greco come colpevole, o almeno come complice del delitto. Era quello che di lì a qualche ora avrebbero dichiarato le autorità nel corso della conferenza stampa.

La più grande stranezza era l’ultimo messaggio dell’ammiraglio: «Lontano». Mentre aspettava l’arrivo della Scientifica, Erwan aveva fatto una ricerca su Internet ottenendo diverse risposte, nessuna delle quali sembrava però avere qualcosa a che fare né con l’omicidio né con il gesto di Di Greco.

Lontano era una parola italiana. Di Greco aveva origini lombarde, ma questa era una spiegazione sufficiente?

Lontano era il titolo di un’opera di György Ligeti, un musicista del ventesimo secolo. Erwan ne aveva ascoltato qualche battuta: lunghe note che emergevano sullo sfondo di un accordo dissonante continuo. Di Greco aveva in mente quel pezzo mentre si faceva saltare le cervella? Poco probabile.

Era anche il titolo di un componimento di Ennio Morricone, una melodia più calda di quella di Ligeti che era stata la colonna sonora del film Dio è con noi e che negli anni Settanta una trasmissione televisiva francese aveva adottato come sigla.

Lontano era inoltre il nome di un’etichetta discografica francese, di un festival musicale inglese, di un’azienda di trasporti spagnola, di una canzone di Luigi Tenco, di una società che commerciava in spezie, di una marca di jeans... Come capita sempre con le ricerche su Google, Erwan si era accorto subito che quella parola poteva avere a che fare con qualsiasi cosa.

Rientrato alla base, si fece prestare una macchina per raggiungere una farmacia: il dolore gli esplodeva nel corpo come tanti fuochi d’artificio. Il paese non distava che qualche chilometro. Attraverso il tergicristallo, davanti ai suoi occhi si profilò ben presto un autentico ker: case di granito e imposte azzurre, altere e inquietanti allo stesso tempo.

Benché fosse ancora notte, intravide un borgo contornato da muretti neri, negozi che sembravano scavati nella roccia e sullo sfondo un campanile dritto come una spada protesa verso il cielo. Cercò la croce verde. Naturalmente la farmacia era chiusa. Si strinse nella cerata e bussò con violenza alla porta accanto alla vetrina, il domicilio del proprietario.

Il distintivo gli valse da ricetta.

«Mi dia la cosa più forte che ha contro il dolore.»

Il farmacista, di cattivo umore per il brusco risveglio, tirò fuori pillole, sciroppi, unguenti, iniezioni e gli offrì qualche consiglio: tempi e posologie, effetti collaterali indesiderati... Per ogni farmaco aggiungeva commenti del tipo: «Soprattutto non si metta al volante dopo averlo assunto».

Erwan pagò e portò via i suoi acquisti. In macchina buttò giù tutto quello che gli parve ragionevole prendere, si fece un’iniezione e si applicò una pomata anestetica. Effetto placebo o no, quando arrivò alla K76 si sentiva già meglio.

Tornato in camera restò sotto la doccia così tanto che vuotò il boiler dell’acqua calda. Istupidito dai calmanti, ancora oppresso dalla nausea, aveva l’impressione che la stanza beccheggiasse.

Quando si fu cambiato, andò da Vincq, che come lui non aveva chiuso occhio. Oltre al suicidio dell’ammiraglio il colonnello era venuto a sapere che i genitori di Wissa avevano rilasciato un’intervista al quotidiano «Ouest-France», che era stata pubblicata quella mattina. Una copia del testo si trovava già sulla sua scrivania. I copti avevano raccontato tutto. La violenza della cerimonia di iniziazione. Il caos che regnava alla K76. Il ritardo con cui l’aeronautica navale aveva annunciato la tragedia. Avevano anche lasciato intendere che forse la morte del figlio non era stata un incidente, che non si scartava l’ipotesi dell’omicidio.

Vincq stava per uscire: doveva partecipare a una riunione di crisi per preparare la conferenza stampa. Avrebbe cercato di placare gli animi giocando la carta della trasparenza e ammettendo il fatto più importante: che l’inchiesta si stava ormai orientando verso un omicidio volontario in cui Di Greco era indubitabilmente implicato.

Il colonnello non sembrava particolarmente dispiaciuto per la scomparsa dell’ammiraglio. Di sicuro lo considerava morto già da tempo: una specie di zombie che avvelenava l’esistenza della scuola con discorsi esoterici e la sua cultura della sofferenza.

In poche parole Erwan gli raccontò quanto era accaduto sulla portaerei. Per il momento non aveva niente da aggiungere. Neveux, l’analista criminale, avrebbe senz’altro confermato la tesi del suicidio: polvere da sparo sulle dita, traiettoria del proiettile dedotta dalla ferita e dagli schizzi di sangue. Menzionò anche l’ultima parola di Di Greco, ma Vincq non gli parve interessato: aveva fretta di congedarlo, di terminare il suo comunicato. Erwan non era stato invitato né alla riunione né alla conferenza stampa. L’esercito voleva dare l’impressione che le indagini fossero condotte dai militari: una faccenda tra galloni e chepì.

Alle sette e mezzo Erwan era con le braccia ciondoloni in mezzo al cortile della scuola, oppresso da un senso di vuoto. La pioggia continuava a cadere incessante. Le bandiere erano ancora a mezz’asta: per Wissa o per Di Greco? Quella domanda gliene fece venire in mente un’altra: gli allievi erano stati informati del suicidio?

Per verificarlo decise di andare a bere un caffè in mensa. Attraversò il cortile – il tempo di bagnarsi fino al midollo – ed entrò senza dare troppo nell’occhio nella penombra della sala. Si faticava a riconoscere gli EOPAN in quei ragazzi che facevano colazione in silenzio. Il linoleum del pavimento, i muri in PVC, i tavoli in formica, tutto sembrava essere stato prodotto nella fabbrica della disperazione.

Quel silenzio era eloquente: sì, la notizia era arrivata. Erwan scorse i suoi nemici del giorno prima: Gorce e la sua guardia personale. Si versò un caffè al buffet e prese due croissant a malapena scongelati. Reggendo il vassoio come se si trovasse in un self service aziendale finse di cercare un posto per poi avvicinarsi al tavolo del suo avversario. «Posso mettermi qui?»

Nessuna risposta. Trovò una sedia e si sedette come se fosse stato invitato. Bevve qualche sorso di caffè, addentò un croissant. I soldati non gli toglievano gli occhi di dosso.

Intontito dagli antidolorifici, Erwan li osservava a propria volta come da una distanza nebulosa. Seduto a capotavola, Gorce era pieno di cerotti. Pareva conciato male, anche se non peggio di lui. Aveva una specie di ghigno lugubre, come se fosse stato colpito da una paralisi facciale.

«Sei soddisfatto, stronzetto?»

L’occhio sinistro era pieno di sangue. Nella penombra si sarebbe detto che ne avesse uno solo.

«Mi dispiace», disse Erwan.

La notte in bianco, associata agli antidolorifici, gli impediva di avere la battuta pronta come invece sarebbe stato necessario in una situazione del genere.

«Ti dispiace?» ripeté Gorce battendo una mano sul tavolo.

«L’inchiesta prosegue. Stiamo...»

«TI DISPIACE

Il pilota si era alzato stringendo i pugni. Erwan sobbalzò sulla sedia. Un incontro di ritorno era fuori questione. Con un solo gesto Gorce spazzò via piatti e posate e si scagliò contro il poliziotto, che non fece in tempo a tirarsi indietro. Era ormai convinto che le avrebbe prese quando, per una ragione a lui ignota, gli altri bloccarono il loro capo. Accorsero in aiuto anche i soldati seduti agli altri tavoli. La belva, che continuava a sbraitare e a menare calci all’aria, venne domata.

Erwan si diresse verso l’uscita convinto che Kaerverec stesse vivendo una duplice tragedia – la scomparsa di un giovane e il suicidio di un anziano –, ma che tutto quello non c’entrasse nulla con la follia dell’omicidio di Wissa. La soluzione si trovava al di fuori della base.

Sulla porta si imbatté in Branellec, che teneva un portatile sotto la cerata. «Sono riuscito ad aprire la cartella protetta!» disse in tono trionfale.