47.

Attraversarono il cortile sotto la pioggia, senza parlare. Il sole era sorto. L’asfalto era coperto di pozzanghere, rivoli d’acqua filtravano tra le crepe. Erwan aprì la porta del refettorio (aveva tenuto la chiave), entrò nella sala e la trovò come l’aveva lasciata: buia, ampia, polverosa.

Fece accomodare Clemente e gli chiese di concedergli un momento.

Il dolore stava tornando alla grande. Forse avrebbe fatto meglio ad andare subito in ospedale per sottoporsi a qualche radiografia, farsi vedere da un medico... Magari avrebbe potuto visitarlo lo stesso Clemente. Il suo era il tipico atteggiamento delle persone sane quando capita loro di non stare bene. Si limitò a pescare degli antidolorifici a caso dal sacchetto della farmacia e a buttarli giù. Poi accese il cellulare per controllare i messaggi. Fu come se lo schermo gli esplodesse in faccia: diciassette SMS. Senz’altro l’effetto combinato della morte di Di Greco e dall’articolo di «Ouest-France». Con il pollice fece scorrere nomi e ore. Muriel Damasse, Vincq, suo padre... Non aveva la forza di leggerli.

Clemente aveva preso posto a un’estremità del lungo tavolo di acciaio inox. Si era tolto il cappello ma indossava ancora l’impermeabile. Muoveva nervosamente la gamba destra e gli tremavano le labbra. Un po’ nevrastenico, il tipo.

«La ascolto.»

«Ho proseguito con l’autopsia dell’addome per ricontrollare le ferite interne. Ho scoperto qualcos’altro.»

Estrasse dalla tasca una provetta da laboratorio. La stanza era ancora immersa nella penombra. Erwan prese l’oggetto trasparente e lo orientò verso la finestra. Conteneva dei frammenti di difficile identificazione.

«Cosa sono?»

«Unghie e una ciocca di capelli.»

Nonostante l’effetto anestetico degli antidolorifici Erwan trasalì. «Li ha trovati nell’addome di Wissa?»

«Sì.»

«L’assassino glieli ha fatti mangiare?»

«No. Li ha messi lì dopo che era morto. Ma la cosa più strana è che provengono da un altro corpo.»

«Come fa a dirlo?»

«Guardi anche lei. I capelli sono rossi.»

Erwan strizzò gli occhi e orientò di nuovo la provetta in direzione della luce. Un altro particolare attirò la sua attenzione: le unghie erano lunghe, sottili e dipinte di nero. Appartenevano senz’altro a una donna, stile gothic.

Depose il contenitore sul tavolo e guardò Clemente, il quale sembrava avere superato da un pezzo la soglia di sopportazione. Non ebbero bisogno di dirsi nulla: quasi sicuramente quei frammenti provenivano da un’altra vittima, già assassinata o in procinto di esserlo.

Si trattava della conferma che Erwan aspettava. Wissa non era stato ucciso dall’ammiraglio. Impossibile anche solo immaginarsi Di Greco mentre si procurava le unghie e i capelli di un’altra persona. Il copto, mentre si dirigeva all’appuntamento sul relitto, aveva incontrato un killer che non aveva alcun rapporto con la K76 né con l’esercito. Qualcuno che aveva già ucciso, o che prevedeva di farlo ancora, e aveva lasciato una specie di messaggio per indicare il prossimo o la prossima sulla sua lista.

«Cosa diceva?»

Clemente stava proseguendo con le sue spiegazioni, ma Erwan non aveva ascoltato.

«Che questa mattina con Neveux procederemo a ricomporre il corpo.»

«Perché con Neveux?»

«Deve venire a prendere altre punte di metallo che ho estratto. Cercheremo di determinare la posizione esatta del cadavere all’interno del tobruk.»

«È possibile?»

«Le ho detto che al momento dell’esplosione il corpo presentava già il rigor mortis. Osservando l’angolo di frattura delle ossa dovremmo riuscire a dedurre la collocazione del cadavere.»

Erwan domandò con voce stravolta: «Quindi?».

Come ispirato da una folgorazione, Clemente diede una risposta da vero investigatore: «Ho capito che, nonostante le sue condizioni, questo corpo è come un vaso di Pandora: più cerchiamo e più cose scopriamo».