52.

In meno di due ore Erwan aveva fatto scattare tutti gli autovelox della N104. A ogni casello azionava la sirena e con una gioia feroce superava la sbarra senza quasi rallentare. Come accade a molti poliziotti, non sopportava che la sua indipendenza fosse limitata dal rigore della legge. Le norme del codice della strada, poi, lo irritavano in modo particolare. La politica del rischio zero gli sembrava un’assurdità. Prima o poi avrebbero finito per vietare anche di girare in macchina.

Alle undici e mezzo aveva già fatto più di trecento chilometri. A quella velocità sarebbe stato a Parigi nel primo pomeriggio. Aveva già avvisato Kripo, che sarebbe rimasto ad aspettarlo in commissariato: con l’ispettorato generale, che senz’altro aveva già sentito parlare di quell’eccentrico agente, non c’erano stati problemi. Nei pressi di Rennes si fermò in una stazione di servizio.

Anche mentre faceva il pieno non smise di pensare alle indagini. C’era un punto in particolare che continuava a girargli in testa: l’avvenimento recente di cui Di Greco parlava nelle sue e-mail e che gli aveva «sconvolto la vita», «qualcosa che avrebbe cambiato il significato di tutto quanto». A cosa si riferiva? A un fatto che poteva spiegare il suo suicidio? O all’uccisione di Wissa? Erwan pensò agli aghi che secondo il dottor Almeida il vecchio aveva infilati in corpo. Forse anche lui stava conducendo una ricerca personale ai confini del dolore...

Appena ebbe finito di riempire il serbatoio gli squillò il cellulare.

«Sono Maggie.»

«Ti richiamo tra cinque minuti.»

Pagò, bevve un caffè disgustoso, comprò una bottiglia d’acqua e buttò giù qualche antidolorifico. Poi andò a parcheggiare in fondo all’area di sosta, uscì dalla macchina, inspirò a pieni polmoni una boccata di aria mattutina, con in sottofondo il rombo dei veicoli che sfrecciavano in autostrada, e finalmente compose il numero della madre.

Prima di parlarle preferiva sempre prendersi il suo tempo.

Maggie aveva una doppia personalità: quando il Vecchio era nei paraggi o anche solo quando pensava a lui, aveva il volto spaventato e gli occhi sembravano schizzarle fuori dalle orbite (soffriva di problemi di tiroide). In quei momenti parlava con voce angosciata, tesa, sommessa. Ma esisteva un’altra Maggie, quella sorridente e perfino seducente. Una bella donna dalle labbra sensuali, spiritosa e rilassata. Alla seconda Maggie piaceva scherzare, farsi beffe dei valori borghesi, trovare sempre un lato comico in ogni aspetto del quotidiano.

Le due Maggie non avevano la stessa origine. La prima veniva dalle tenebre dell’Africa e pareva segnata da un passato che nessuno dei suoi figli conosceva. Una creatura di paura e laterite plasmata dallo stesso Morvan. L’altra era il tipico prodotto della generazione hippie: libera, drogata, ribelle. Una ragazza con i fiori intrecciati fra i capelli e la testa piena di ideali. Maggie era stata un’icona della controcultura: profumo di patchouli, boubou africani e colonna sonora dei Pink Floyd del film More sulla quale ballava a seno nudo. Pareva che in Africa avesse anche suonato in un gruppo rock di sole donne: le Salamandre.

Ora, figlia dei fiori imborghesita, era diventata vegetariana e buddhista, sosteneva i benefici del parto in acqua e si batteva contro la globalizzazione e il riscaldamento climatico. Era un’emanazione di tutto quello che più detestava il vecchio Morvan, sicario apolitico secondo il quale il mondo non era che un enorme canile in cui rinchiudere l’umanità.

Per il momento Erwan non aveva ancora capito con quale delle due Maggie stesse parlando. La madre cominciò facendogli una tirata su Loïc, che aveva avuto alcune «seccature»: evidentemente non era al corrente della fuga di Gaëlle.

«Va tutto bene con il papà?» tagliò corto lui.

«Certo. Perché non dovrebbe?»

Era già riuscita a innervosirlo: aveva sempre negato il problema più grave della sua vita – la violenza del marito – e non smetteva mai di difenderlo. A sentir lei Morvan era una specie di eroe incompreso.

«Quando torni?» gli chiese.

«Sono in viaggio.»

«Ti aspettiamo domenica.»

L’immancabile pranzo domenicale. Maggie gli sembrava completamente scollegata dalla realtà. A meno che non fosse lui, con il suo assassino ladro di organi e i suoi militari, a trovarsi in una dimensione parallela.

Stava per riagganciare quando gli venne in mente una cosa: Morvan aveva conosciuto Di Greco in Africa. Forse anche Maggie lo aveva incontrato...

«Ti ricordi di un tale Di Greco, un militare?»

«No.»

«Un ufficiale di marina in servizio a Port-Gentil.»

«Non sono mai stata in Gabon.»

Erwan si era confuso: Morvan aveva cominciato addestrando le truppe del presidente Bongo nel 1968 e poi nel 1969 era andato in Congo per indagare sull’Uomo Chiodo.

Di Greco apparteneva al periodo gabonese, Maggie a quello zairese.

«Forse è venuto nel Katanga...» provò.

La memoria di Maggie si risvegliò. «Un tipo con un fisico... particolare?»

«Direi di sì. Era alto più di due metri e aveva mani da vampiro.»

«Ne parli al passato. È morto?»

«Questa notte.»

«Riguarda la tua inchiesta in Bretagna?»

«Più o meno», svicolò Erwan. «Cerca di ricordare.»

«Lavorava nella foresta, mi pare, vicino alle miniere...»

«Quelle del papà?»

«Tuo padre non ne aveva ancora all’epoca. La persona che ricordo io era incaricata della sicurezza dei giacimenti della Gécamines, una grande società mineraria del Katanga.»

«Era stato il papà a farlo venire?»

«Non saprei.»

«Cosa ti torna in mente?»

La sua voce si fece vaga. «È passato così tanto tempo... Un tipo duro, violento, molto magro e tormentato. Un vero aguzzino con i neri. Provai a mettere in piedi un’associazione in difesa dei minatori. All’epoca ero molto impegnata e...»

«Ti ricordi in che rapporti era con il papà?»

«Mi pare che fossero amici.»

«Hanno partecipato insieme a qualche missione per il governo francese?»

Rise con dolcezza. «Era già una missione per lo stato anche solo starsene a marcire in Africa, credimi...»

Ora aveva assunto il tono che Erwan preferiva: leggero, distaccato. Ma l’immagine dei due agenti segreti era inquietante: uno all’inseguimento di un serial killer e l’altro carnefice di un esercito di schiavi. Due mostri in erba che di lì a poco sarebbero sbocciati all’ombra del potere. «È tutto quello che mi sai dire?» insistette. «Pensaci.»

Maggie cercò di trovare le parole. «Sembrava... pazzo, come se fosse posseduto dalla violenza.»

«Dovevano essere una bella coppia, lui e il papà.»

«Non dire così.»

«Sai bene cosa intendo.»

Maggie cambiò impercettibilmente tono di voce, come se Morvan fosse entrato nella stanza. «Non volevo che si frequentassero... Aveva una cattiva influenza su tuo padre...»

Per poco Erwan non scoppiò a ridere. Gli sfuggì una domanda, completamente fuori contesto ma che gli bruciava sulle labbra da anni: «Cosa è successo fra voi due in Africa?».

«Non capisco cosa vuoi dire.»

«Vi siete incontrati e poco dopo avete deciso di sposarvi?»

Maggie fece una risata strana. «Eravamo innamorati...»

«Non dev’essere durata a lungo.»

«Ti sbagli. Ci amiamo ancora. Solo in modo diverso.»

«Non ti capirò mai.»

«Tuo padre è malato.»

Erwan passeggiava sempre più nervosamente nel parcheggio. Il rombo delle automobili gli vibrava sotto le tempie. Il cielo era azzurro, ma aveva la durezza del metallo fuso. «Ogni volta tiri in ballo la scusa dei suoi problemi nervosi», replicò nel tono di un ragazzino che cerchi tutti i pretesti per litigare. «Forse è soltanto uno stronzo che picchia la moglie, no? In commissariato ce ne sono tanti come lui. Credimi, quei pezzi di merda non hanno niente a che vedere con Artaud o con Althusser.»

Il poeta e il filosofo erano i due grandi eroi della madre. Intellettuali che avevano finito i loro giorni in manicomio (il secondo, nel 1980, durante una crisi, aveva anche strangolato la moglie).

«Questa è la cosa più triste: non ci hai mai capito.»

«Ho vissuto con voi per quasi vent’anni.»

«Tu conosci soltanto una parte. Non sai quello che succede nell’intimità di una coppia.»

«Risparmiami i dettagli.»

«Abbiamo sempre dormito in camere separate», ribatté lei abbassando la voce. «Ma è nell’oscurità della notte che la violenza mostra il suo vero volto...»

Erwan sprofondava in quelle confidenze come in una palude. Maggie parlava con voce ipnotica, sommessa e squillante allo stesso tempo.

«Adesso devo mettere giù. Ho un sacco di lavoro e...»

«Voi conoscete soltanto la versione diurna della sua malattia. Ma è di notte che ci si rende conto che è davvero... posseduto.»

Erwan si avvicinò alla macchina e aprì la portiera. «Ti richiamo. Adesso devo...»

«Ti ricordi quando appoggiava la pistola sul tavolo prima di mangiare?»

«Come potrei dimenticarmelo?»

«Una notte che eravamo soli mi ha sparato.»

Erwan si appoggiò con i gomiti al tetto della Volvo e sprofondò la testa fra le braccia. Il passato del padre era come gli archivi del Terzo Reich: si scopriva sempre qualche nuova nefandezza, qualche orrore inedito. Una fonte che non si prosciugava mai. «Ti... ti ha ferita?»

«Era caricata a salve. Sono svenuta e me la sono fatta addosso.»

Gli sembrò che la sua anima fosse coperta di macchie di livor mortis. «Metto giù...»

«Mi ha preso in giro per mesi per questa cosa.»

«Perché me lo racconti?»

«Perché tu capisca che non è soltanto violento. È pazzo.»

«E cosa cambia?»

«Tutto. Non è responsabile delle sue azioni.»

«Allora bisognerebbe farlo ricoverare.»

«Non parlare così.» In realtà voleva dire: “Cosa farebbe la Francia senza Morvan?”.

Il caffè che Erwan aveva appena bevuto gli risalì in gola. Non sapeva che cosa lo mandasse più fuori di testa: suo padre, sua madre o la loro intesa delirante. Stava davvero per riagganciare quando, senza riflettere, le domandò: «La parola “Lontano” ti ricorda qualcosa?».

«Certo, è il nome della città in cui vivevamo.»

«Nel Katanga?»

«Una nuova città costruita con i guadagni delle miniere. Una città di coloni. Tutta la mia famiglia abitava lì.»

Una volta suo padre gli aveva detto: «Tua madre è la figlia esangue di una famiglia di consanguinei di origine vallone che marcisce in Zaire da più di un secolo. È belga e congolese allo stesso tempo. Due difetti al prezzo di uno!».

«Prima di suicidarsi Di Greco ha scritto questo nome su un foglietto. Secondo te perché?»

«Ma... non saprei.»

«È l’ultima parola a cui ha pensato prima di morire. Dovrà pure essere successo qualcosa di eccezionale in quel posto, non credi?»

«Forse per lui... Ti ho già detto che lo conoscevo molto poco.»

«Rifletti. Non ti viene in mente un evento particolare?»

Sua madre emise un sospiro che era al contempo un sorriso e con una voce che sembrava venire dritta da Ibiza rispose: «Uno solo, molto importante, ma non per Di Greco».

«E qual è?»

«È proprio là che sei nato, tesoro.»