58.

Le cinque del pomeriggio. Erwan ritrovò con piacere il suo piano nel commissariato di quai des Orfèvres. Quella era la sua vera casa. Dopo la scena madre con il Vecchio era passato dal suo appartamento per farsi una doccia veloce. Con gli abiti puliti e le idee più chiare aveva capito che non sarebbe riuscito a tirare il fiato o a riposare a lungo.

Prima tappa: passaggio obbligato da Fitoussi. In genere il capo seguiva le indagini da lontano, ma quella volta la violenza dell’omicidio di Anne Simoni e l’arroganza provocatoria con cui l’assassino aveva organizzato il ritrovamento del corpo rendevano il caso una priorità. Non capitava tutti i giorni di scoprire un cadavere sotto le proprie finestre.

Fitoussi era così nervoso che non parve nemmeno notare le ferite di Erwan, il quale si sorbì il discorso trito e prevedibile del commissario capo – urgenza, riservatezza, risultati, media... – annuendo e guardando l’orologio. Non provò nemmeno a menzionare i presunti collegamenti tra il caso dei Grands-Augustins e quello di Kaerverec. Che si arrangiasse.

Fitoussi concluse parlandogli di suo padre: il Vecchio gli aveva accennato ad alcune somiglianze con gli omicidi dell’Uomo Chiodo. Erwan si chiese se il commissario sperasse segretamente che Grégoire avrebbe assunto il comando dell’inchiesta da dietro le quinte. No. Lui era un investigatore migliore di suo padre, corrotto dal potere e da tutti i suoi loschi traffici. E nessun criminale sarebbe stato mai catturato grazie a ricordi di quarant’anni prima.

Cinque minuti dopo Erwan si trovava nella sala riunioni della Omicidi, dove aveva convocato i suoi uomini. C’erano tutti, già al corrente della situazione. Prima di cominciare si prese qualche secondo per osservarli: tranne Kripo, non li vedeva da metà agosto.

Per quanto non si potesse definire un dream team, il suo era il reparto migliore della squadra Anticrimine: l’anno prima avevano risolto il novantadue per cento dei casi, un vero record al 36 di quai des Orfèvres. A volte Erwan, in modo po’ puerile, li paragonava agli allegri compari di Robin Hood.

Nel ruolo di Little John, il gigante che combatteva con il bastone, Kevin Morley, il terzo del gruppo: un metro e novanta per centodieci chili; la sua folta barba e la frangetta corta sulla fronte gli disegnavano intorno al volto una specie di cappuccio medievale. Il bastone di Morley era il manganello tonfa della polizia, che nessuno sapeva maneggiare meglio di lui. Si era fatto le ossa nel dipartimento degli Hauts-de-Seins e la sua abilità con l’MPIL (il manganello di polizia a impugnatura laterale) era leggendaria. All’epoca tutti lo chiamavano Spaccatesta, soprannome che era stato abbandonato quando era riuscito a superare il concorso per entrare nella polizia giudiziaria. Ora era (quasi) diventato un intellettuale. Indossava completi scuri, prendeva appunti su un minuscolo bloc-notes e spalancava gli occhi con aria perplessa a ogni scoperta. Ciò nonostante nessuno aveva dimenticato il suo passato da picchiatore e alla Omicidi gli era stato affibbiato un nuovo soprannome: Tonfa.

Will Scarlet, il matto della compagnia, era Nicolas Favini, quarto membro della squadra. Un marsigliese di ventinove anni entrato nell’Anticrimine grazie al suo eccezionale stato di servizio. Portava vestiti satinati e catene d’oro e aveva il fisico di un teppistello impomatato di provincia. Gli altri, invidiosi del suo successo con le donne, lo chiamavano il Sardina, un’allusione non troppo sottile al suo aspetto untuoso e alle origini mediterranee.

Non c’erano dubbi su chi dovesse avere il ruolo di Alan-a-Dale, il menestrello della banda: Kripo, il suonatore di liuto, che Erwan aveva incontrato sull’argine dei Grands-Augustins. L’eterno tenente ostentava la sua abituale flemma e aveva già promesso di preparare un rapporto sull’inchiesta bretone per aggiornare gli altri colleghi.

Quanto a Marianna, la fidanzata di Robin, la scelta era obbligata: Audrey, la quinta del gruppo e l’unica donna. Sulla trentina, aveva un look grunge: scarpe da ginnastica logore, jeans lisi, giacca di panno cachi sformata, borsello a tracolla (una specie di carniere dal quale ci si poteva aspettare che tirasse fuori una lepre uccisa quella mattina stessa nella foresta). Aveva tratti delicati ma scialbi, capelli di un biondo talmente spento da sembrare grigi e un sorriso sbarazzino che avrebbe potuto essere affascinante se non fosse stato circondato da una freddezza cadaverica. Audrey Wienawski era, come si dice, di estrazione modesta: una figlia di minatori nata da qualche parte nel Nord, o forse ancora più lontano, in Polonia o nei Paesi baltici. A studi irregolari era seguito un periodo punkabbestia durante il quale aveva dormito per strada rifiutando ogni struttura d’accoglienza. Finché, non si sa come, era entrata in polizia. Durante le inchieste Audrey era dura e agguerrita come un trapano: incalzava, premeva e scavava fino a rompere anche quello che sembrava impossibile da spezzare. Erwan, malgrado il suo maschilismo che rasentava la misoginia, doveva ammettere che era lei il suo elemento migliore.

Dopo aver passato in rassegna per qualche secondo le sue truppe, si rese conto che aspettavano istruzioni, seduti attorno al tavolo con il caffè in mano. Non li conosceva bene e non aveva mai cercato di farseli amici, ma con loro condivideva qualcosa di molto più prezioso dell’amicizia: il lavoro. Non avevano scelto la polizia per dovere civico o per mancanza di alternative migliori. Lo stipendio era da fame e per il futuro potevano contare soltanto su qualche promozione prima del pensionamento. Erano lì per la botta di adrenalina, per provare il terrificante brivido dell’abisso, delle tenebre, del male.

Nonostante non fosse di buonumore – dopo il buco nell’acqua a Kaerverec, il nuovo cadavere e le inquietanti rivelazioni del padre – Erwan cominciò il briefing come d’abitudine, con la solita battuta, trita e ritrita: «Ci sono domande?».