67.

«Soddisfatto?»

Si girò e vide Gaëlle avvolta in un asciugamano bianco. Sembrava che sotto la doccia si fosse ustionata: macchie scarlatte le ricoprivano braccia e spalle, e il suo viso lanciava fulmini rossi in tutto l’appartamento.

L’acqua bollente, ma anche la rabbia.

«Estremamente soddisfatto», rispose Erwan in tono sarcastico. «Sparisci per due giorni, mamma e papà si preoccupano a morte, io sono costretto a lasciare il lavoro per venirti a cercare e ti trovo coperta di interiora e di merda, in mezzo a riccastri che se lo menano mascherati da Zorro. Cosa potrei desiderare di più?»

«È la mia vita.»

«Ho paura che sia il tuo lavoro...»

Gaëlle andò in cucina e si prese anche lei una Coca-Cola: tutti i Morvan diffidavano dell’alcol a causa di Loïc, che aveva bevuto per tutta la famiglia. «Non ne posso più della tua brutta faccia da eroe», borbottò appoggiandosi la lattina ghiacciata su una guancia. «Non sei stufo di essere perfetto? Di stare sempre dalla parte della ragione? Non ti stanchi mai di te stesso?»

L’asciugamano di spugna aveva lo stemma dorato di un palazzo parigino dove sicuramente era andata a farsi sbattere. A volte gli sembrava che la sorella si crogiolasse nella depravazione come una scrofa nel suo porcile.

Allo stesso tempo, nonostante tutto, non poteva fare a meno di ammirare le sue spalle rotonde, i polpacci torniti, quel culo che era un’istigazione a delinquere... Come tutti i Morvan, anche Erwan l’aveva vista dimagrire fino a ridursi a un mucchietto di ossa. Ora, qualsiasi cosa lei potesse dire o fare, era il suo stesso corpo ad annunciare la buona notizia: era guarita.

«Quando crescerai un po’?» ribatté. «Farti cospargere di sangue di pollo da un branco di notai di provincia?»

«Seimila euro, imbecille. Due mesi del tuo stipendio di merda.»

«Guadagno di più. E non dirmi che lo fai per i soldi. Una botta alle tue assicurazioni sulla vita e prenderesti dieci volte tanto.»

Lei si sedette sul divano e stappò la lattina. «Non voglio quei soldi. Ho dei principi.»

«Ora sono più tranquillo», sibilò Erwan.

Gaëlle bevve lentamente, senza togliergli di dosso lo sguardo. «Vivo in un mondo in guerra», disse alla fine.

«Quale guerra?»

«Quella tra uomini e donne.»

«Qual è la posta?»

«I soldi.»

«L’arma?»

«Il desiderio.»

Andò a sedersi accanto a lei, come se dovesse ricondurre alla ragione un bambino indispettito. Respirò gli effluvi di sapone e di crema che emanavano dal suo corpo. «Puoi raccontarti quello che vuoi», le disse in tono più calmo, «ma la verità è che vendi il tuo corpo.»

«Rifiuto la logica della borghesia.»

«Ma se passi la vita nelle suite degli alberghi a bere champagne! Non venirmi a parlare di lotta di classe!»

«Questo non vuol dire essere borghesi.»

«Ah no?»

«Essere borghesi è invecchiare guardando i propri figli diventare grandi, sacrificare tutto in nome della comodità e della tranquillità, annoiarsi tenendosi lontano da ogni pericolo. Credimi, il mondo non è comodo. È un ambiente ostile, competitivo, bellicoso. Gli uomini devono sempre essere più ricchi, le donne più belle. Vanno a letto insieme, ma in fondo si detestano.»

«Un mondo fatto di clienti e di puttane.»

«Erwan, sei molto più intelligente di così.»

Un giorno l’aveva accompagnata in rue Lincoln, nell’VIII arrondissement. Si era accorto con un attimo di ritardo di averla portata a uno dei suoi appuntamenti: l’atteggiamento che aveva tenuto in macchina, a metà fra il preoccupato e l’eccitato, il fatto che avesse avuto bisogno di ritoccarsi il trucco... Era uscito di corsa dall’auto, aveva individuato la casa di produzione e si era presentato alla reception con la pistola alla mano. Aveva capito subito di essere l’unico fesso rimasto. Tutti conoscevano Gaëlle e sapevano dei suoi incontri con il boss. Un mondo libero fatto di adulti consenzienti. Aveva battuto in ritirata, quasi vergognandosi di sé stesso.

«Che differenza c’è tra una madre e una mantenuta?» continuò Gaëlle. «La seconda si veste meglio.»

«E l’amore? I figli? Farsi una famiglia?»

«Vuoi dire come i nostri genitori?»

Alla fine ci erano arrivati. Da quando aveva cominciato a capire qualcosa – ovvero non appena aveva iniziato a provare paura – Gaëlle era sempre stata una ribelle. Prima aveva contestato la sua famiglia, poi l’ipocrisia del sistema che permetteva una simile menzogna.

«I nostri genitori non c’entrano proprio niente con tutto questo», ribatté lui con voce sorda.

«E invece c’entrano eccome! Cosa mi rimproveri di preciso? Di fare sesso senza amore? Di scopare per vivere? Non è esattamente quello che ha fatto per tutta la vita nostra madre?»

«No. Lei ama il papà.»

«Allora è più stupida di me. Io almeno vengo pagata, e non mi picchiano.»

Erwan si alzò e fece qualche passo, chinandosi per non sbattere la testa contro il soffitto mansardato. Era già a corto di risposte. Sui ripiani della libreria, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, Un si funeste désir di Pierre Klossowski, La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche... Anche lui li aveva letti quand’era giovane: roba tosta. A suo modo Gaëlle era un’intellettuale.

«Disprezzo gli uomini», sibilò lei tra i minuscoli denti, «ma ancora di più disprezzo le donne.»

«Quali donne esattamente?»

«Non ho bisogno di andare troppo lontano. Maggie senz’altro, ma anche le mie colleghe, le mie rivali. Mi vergogno per loro. Quella vita di merda, il modo in cui si compiacciono nel ruolo di vittime. Un secolo di emancipazione per questo? Il femminismo, Simone de Beauvoir, Nancy Fraser, per ottenere cosa? Il diritto di essere ancora prese in giro, ancora ingannate? Gli unici a essersi emancipati sono gli uomini. Sono rimasti dei porci, però non sono più obbligati a pagarci da bere o a rispettare certe regole. Non devono più comportarsi da gentleman o farci un regalo in cambio di una scopata. È questa l’uguaglianza tra i sessi!»

«In che mondi vivi, Gaëlle? Non siamo nel diciottesimo secolo. Le donne sono libere, non devono chiedere più niente agli uomini.»

«È proprio quello che sto dicendo: hanno perso tutto ciò che avevano.»

«Le regole sono cambiate. Le donne sono indipendenti. Perseguono le loro ambizioni fino in fondo. Non vivono più attraverso quelle dei loro uomini.»

«Allora perché continuano a fare tutte quelle smorfie quando il tipo con cui escono non vuole pagare il conto al ristorante? Perché entrano sempre gratis in discoteca? Perché ci sono donne sposate che fanno corsi di lap dance? È sempre la stessa storia: da una parte la danza del ventre, dall’altra i quattrini.»

«Dimentichi la cosa più importante: l’amore, il sentimento.»

«Non capisci proprio niente. È quella l’unica prigione delle donne. Saranno sempre vittime dei loro sentimenti. Un secolo di lotte non è riuscito a far nulla contro questa debolezza cronica. Simone de Beauvoir, nonostante il suo “secondo sesso”, è stata la più bella cornuta di Saint-Germain-des-Prés. Si può cambiare la legge ma non il codice genetico. Di sicuro non prima di diversi milioni di anni...»

Gaëlle aveva il dono della dialettica. Erwan l’aveva sempre ammirata per questo. Gli stava parlando avvolta nel suo asciugamano di lusso, ma quel discorso avrebbe potuto farlo benissimo in un’aula universitaria, negli anni Settanta, con addosso un maglione dolcevita e un paio di occhialoni.

«Non mi pare che tu sia un esempio di donna emancipata», ribatté.

«Gioco secondo le regole dei maschi e li tengo in pugno.»

«Fammi capire.»

«Le donne mi disprezzano perché per loro sono una puttana, un oggetto, ma sono io ad avere in mano la situazione. A rendere schiava la donna non è il culo, bensì il cuore!»

Aveva sentito abbastanza. Missione compiuta: il pericolo era stata evitato e Gaëlle aveva ritrovato la sua forma. «Bene», disse prendendo la giacca, «adesso riposati. Io vado.»

«Tu non sai proprio niente della vita!» gridò lei alzandosi di scatto. «Gli uomini sono dei porci! Sono capaci di tirare fuori l’uccello così, sotto il tavolo. Di sbatterti contro un lavandino e strapparti le mutandine. Di toccarti il culo non appena nessuno li vede!»

Erwan si fece livido. Da buon macho, ossia la versione imbranata della bestia che Gaëlle aveva appena descritto, non sopportava l’idea che qualcuno potesse maltrattare la sua sorellina.

Lei parve leggerglielo negli occhi. «Non preoccuparti, ti ho detto che sono io a comandare.»

Lui si diresse verso la porta. Sua sorella lo seguì con passo furioso.

«È questo il mio potere! Una donna che ha un orgasmo si è già fregata da sola!»

Urlava, nonostante la porta aperta. La rabbia della sorella aveva sopito la sua. Adorava Gaëlle, non poteva farci nulla. Era affascinato dalla sua bellezza. Quando andava in collera gli faceva tenerezza. Aveva ritrovato il suo naturale pallore. Il viso da bambola russa, liscio e rotondo come una scultura di Brancusi. Gli occhi così limpidi, che facevano pensare alla banchisa nel mese di giugno, quando il ghiaccio si fonde a poco a poco nel mare...

Tornò sui suoi passi e in tono affettuoso le disse: «Calmati, Gaëlle. Siamo sopravvissuti allo stesso trauma, io e te. Io sono diventato un poliziotto e tu una escort. Io nascondo la mia violenza dietro la legge, tu filosofeggi per giustificarti, ma la verità è molto più semplice: nessuno potrà mai cambiare la nostra infanzia». Lei avrebbe voluto dire qualcosa, ma Erwan fu più rapido. «A quarantun anni, dopo un decennio di terapia e due ulcere, sono continuamente dall’osteopata e di notte mi devo mettere un apparecchio per i denti. Tu, a ventinove, dormi ancora con la luce accesa.»

«Come fai a saperlo?»

Le sue gote erano solcate da lacrime così pesanti, così bianche da sembrare gocce di cera di una candela.

Erwan si chinò verso di lei e le diede un bacio. «Adesso riposati. Ti chiamo domani.»