70.

«Cos’è, carnevale?»

Dopo aver incassato la notizia datagli da Luzeko – il messaggio minatorio ricevuto dal figlio proveniva da Kabongo, ovvero dal potere centrale di Kinshasa –, Morvan aveva passato in rassegna tutte le persone che a Parigi potevano essere in qualche modo collegate a Kabila. Non gli ci era voluto molto per risalire al nome in cima alla lista: Yussuf Ndiaye Mabiala, detto il Khmer nero. Un comunista fanatico di etnia luba, che notoriamente si nutriva solo di olive e voleva sterminare tutti i ricchi del pianeta. Che una canaglia simile facesse combutta con il governo di Kabila era abbastanza strano, ma Morvan aveva ormai da tempo rinunciato a trovare un senso alle contraddizioni africane. Stando alle informazioni di cui disponeva, il Khmer nero si trovava a Parigi da quattro anni con lo status di rifugiato politico (si faceva passare per un oppositore del clan che invece serviva e nel frattempo viveva a spese dello stato). Violento, tirannico, stupido, aveva combattuto nella regione dei Grandi Laghi durante le due guerre del Congo.

Morvan si stava giusto informando su di lui quando quel farabutto lo aveva chiamato: una coincidenza perfetta. Gli aveva dato appuntamento in un parcheggio sotterraneo di Nanterre con una motivazione più che valida: aveva Loïc.

Rassegnato (non aveva nemmeno avuto il tempo di godersi il sollievo per Gaëlle), Morvan si era rimesso in macchina. Lungo il tragitto era stato sul punto di avvertire Erwan, ma aveva subito rinunciato: sarebbe stato più pericoloso che utile. Mentre viaggiava sulla circonvallazione della Défense, un’altra telefonata l’aveva guidato attraverso i meandri di Nanterre fino a un’oscura zona industriale, dove ad attenderlo trovò un guardiano notturno congolese.

Uomini grandi e grossi dipinti da scheletri lo aspettavano in un lurido seminterrato, fumando e sbevazzando. Morvan pensò alle milizie che aveva incontrato lungo la frontiera rwandese, nel Kivu, dove alcuni soldati armati fino ai denti indossavano parrucche e maschere di gomma. Dov’era Loïc?

«Cosa sono queste facce da clown?»

Uno degli spettri si fece avanti. «Vola basso, Morvan. Siamo già stati abbastanza buoni a chiamarti prima di buttare tuo figlio nella Senna.»

Non rispose: aveva appena scorto Loïc seduto nel retro di una Mercedes nera con la testa ficcata nelle spalle. Il suo viso era una macchia livida all’interno dell’abitacolo, come se qualcuno avesse infranto sul finestrino una bottiglia di latte.

Morvan ebbe l’impulso di estrarre la pistola, che teneva infilata dietro la schiena, ma strinse i pugni per dominarlo. “Non muoverti, non fare niente. Vacci piano.” I morti viventi erano almeno sei, tutti equipaggiati con armi automatiche. «Cosa volete?»

Il nero scosse la testa. Doveva essere Mabiala in persona. «Abbiamo mandato un messaggio a tuo figlio... Evidentemente non sa leggere il francese.»

«E tu non sai scriverlo.»

Il colosso rise in silenzio e si avvicinò ancora: erano alti uguali. In Congo carriera fa rima con statura. Se Morvan non fosse stato quasi due metri, non sarebbe mai riuscito a imporsi in quella terra di giganti.

«Era un avvertimento, capo. E voi non lo avete ascoltato.»

«Ma di cosa cazzo parli? Della Coltano?»

«Tsk tsk tsk... Dovevate smetterla con i vostri traffici.»

Morvan fece un respiro. Quel lugubre appuntamento gli avrebbe permesso di chiarire le cose. «Se pensi che ci siano dei traffici, spiegati.»

«Le azioni, capo, le azioni...» disse il nero con voce cantilenante. «State provando a mettercelo nel culo per benino, brutti stronzi...»

Grégoire trovò divertente l’uso della prima persona plurale: dubitava fortemente che Mabiala potesse avere qualche interesse nella politica mineraria del Congo. La solidarietà dei cani verso i loro padroni. «Se ti dicessi che non è opera mia servirebbe a qualcosa?»

«No.»

«Cosa devo fare per convincervi?»

Mabiala lanciò uno sguardo alla macchina – come a sottolineare i suoi argomenti a favore –, poi tornò a puntare i suoi occhi di brace su Morvan. Con quella testa infarinata ricordava i lottatori nuba fotografati da Leni Riefenstahl. «Devi parlare con il generale. C’è un volo che parte alle otto e venti.» Si inchinò, facendo una riverenza. «Settecentotredici euro, signooore... Una bazzecola per il suo portafogli...»

Gli venne la nausea all’idea di dover rimettere piede in quel pantano. Quand’è che quei selvaggi si sarebbero decisi a mollare l’osso? «Ma cosa cambia!» sibilò. «Non avrò altri argomenti per convincere Kabongo.»

«Trovali. Se non sei tu a comprare, scopri chi lo fa.» Il nero sfregò il pollice contro l’indice producendo una nuvola di polvere bianca. «Segui la grana, capo. E portaci la testa del nemico su un vassoio d’argento.»

«Non riuscirò a trovarli in qualche ora.»

«Il generale non è un tipo paziente. Tutto ma non questo. Chiedigli una dilazione, ma fallo gentilmente. Intanto penseremo noi a tenere al caldo il tuo ragazzo...»

Mabiala gli mise un braccio intorno alle spalle, tirò fuori il cellulare – «Sorridi!» – e si scattò una foto accanto a lui, ridendo a crepapelle. Poi digitò qualcosa sulla tastiera, senz’altro per mandare l’immagine a Kabongo.

«Questa convincerà il generale a pazientare ancora un po’.» Il nero guardò l’orologio, il Jaeger-LeCoultre di Loïc. «Hai giusto il tempo di andare a preparare la valigia.»

Grégoire si immaginò estrarre la pistola e abbatterli uno dopo l’altro, in posizione di tiro rapido. Pam-pam-pam-pam! Un attimo dopo ebbe invece la visione molto chiara di quello che sarebbe stato davvero il suo prossimo futuro: Parigi-Kinshasa, sciropparsi le cazzate del generale vestito da Mao, Kinshasa-Parigi, farsi in quattro per trovare chi stava cercando di fotterli. Non era troppo vecchio per quel genere di cose? «Gli posso parlare?» chiese indicando la Mercedes.

«Tsk tsk tsk. Va’ a preparare la valigia. Siamo già stati abbastanza buoni a non arrostirvi tutti allo spiedo, stronzi di bianchi!»

Il Khmer nero aveva assunto all’improvviso un tono grave, degno di un boia. Quello che probabilmente usava quando gli toccava di tagliare qualche mano o braccio – «maniche corte o maniche lunghe», diceva lui – agli elettori che non votavano per lo schieramento giusto.

Morvan annuì. Non riuscì a incrociare lo sguardo di Loïc, ma gli fece un cenno che voleva essere di conforto. Stava per andarsene quando cambiò idea: non era il caso di calare le brache in quel modo. «Lo sai qual è la differenza tra me e te?» mormorò riavvicinandosi a Mabiala. «Che io non ho bisogno di incipriarmi il culo per fare paura ai miei nemici.»