L’interno dell’OPG era una serie di spazi compartimentati, separati, blindati. Impossibile fare più di tre passi senza dover mostrare un tesserino o essere obbligati a digitare un codice per aprire una porta. Un’infilata di inferriate e pareti corazzate. Nessuna finestra che dava sull’esterno. Tutto era bianco, liscio, privo di sporgenze o punti di appiglio. Pareva un immenso frigorifero in cui ogni scomparto era chiuso a doppia mandata.
Telecamere di sorveglianza al soffitto. Guardie di sicurezza che vegliavano in gabbie di vetro, circondate da maestose collezioni di manette di metallo e di nylon. Non sembrava succedere nulla. Dopo avere camminato una decina di minuti non avevano incontrato ancora nessuno, fatto salvo un paio di secondini in camice bianco. Nemmeno un rumore nei corridoi. Ancora meno dietro le porte.
Soltanto l’odore aveva un che di familiare: un misto di urina e medicinali che ricordava al contempo la prigione e l’ospedale.
Erwan pensò al padre: il suo posto avrebbe dovuto essere in un istituto come quello. A conferma di ciò gli venne in mente il giorno in cui il Vecchio aveva rinchiuso Maggie nella tomba di famiglia al cimitero di Montparnasse. Il custode l’aveva trovata tremante e sconvolta il mattino seguente. Lei non aveva voluto denunciarlo. Erwan all’epoca aveva soltanto quindici anni. Non aveva potuto fare nulla ma era andato sul luogo del crimine. Aveva scoperto che la tomba era vuota: niente sepolture, nessun antenato. Non v’era traccia dei Morvan-Coätquen.
Arrivarono al primo piano, dove si trovavano le celle.
«Le camere», lo corresse Lassay.
In effetti, tutto sembrava pensato perché nessuno si ricordasse di essere in un carcere. Le finestrelle che si aprivano sulle porte avevano perfino una tendina di stoffa per proteggere la privacy dei pazienti.
«Siete un istituto pubblico?»
«In parte pubblico e in parte privato.»
«C’è qualche benefattore che vi finanzia?»
«Sì, qualcuno.»
Erwan faticava a immaginare che tipo di mecenati potessero sovvenzionare un istituto come quello. Notando il suo stupore, Lassay sorrise.
«Ne resterebbe sorpreso... Qui abbiamo alcuni pedofili. Sono le famiglie delle vittime a finanziare le nostre ricerche. La pedofilia è una perversione, una patologia dell’individuo. Non deve stupire che i diretti interessati, i genitori delle vittime, vogliano sostenere il nostro lavoro in questo campo.»
Erwan lasciò cadere l’argomento. Non era geneticamente portato a considerare assassini e stupratori malati da curare. Cominciarono a incrociare qualche paziente che si muoveva lentamente, oscillando come un birillo. Teste rasate, occhi sporgenti, tute informi: sembravano tutti drogati. Nessuno li sorvegliava, ma parevano così deboli che anche un bambino sarebbe riuscito a far loro lo sgambetto. Gli ricordarono quei ceppi mangiati dalle termiti che si trasformano in segatura appena vengono toccati.
Si fermarono davanti a una cella. Lassay tirò fuori il tesserino e aprì la porta come avrebbe fatto con quella di un albergo. «Eccoci.»
Uno spazio vuoto di circa sette metri quadrati. Niente prese per la corrente né bagno. Un tavolo saldato al pavimento.
«Non ha mai cambiato cella?»
«Mai.»
Erwan cominciò a osservare la stanza come avrebbe fatto Kripo, attardandosi sugli angoli, sui battiscopa, alla ricerca di un particolare, di un segnale di vita.
«Cosa spera di trovare? Graffiti?»
«Qualcosa del genere.»
Lassay scoppiò a ridere. «Non ha proprio idea di come vivono i nostri pazienti. Abiti, dispositivi elettrici, effetti personali: tutto è proibito. Soprattutto penne o qualsiasi altra cosa che possa essere utilizzata come arma. Quando sono da soli non possono toccare quasi niente.»
In punta di piedi, Erwan si sollevò fino a raggiungere la finestrella che si affacciava sulle recinzioni di filo spinato.
«Non sopportava questa vista», osservò Lassay avvicinandosi.
«Per via delle recinzioni?»
«No. Per il fossato pieno d’acqua. Diceva che gli spiriti sono soliti nascondersi in posti simili. Gli yombe temono i fossati, le pozzanghere, le sorgenti...»
Erwan si ricordò che Morvan gli aveva parlato dell’importanza dell’acqua: Pharabot uccideva durante la stagione delle piogge, il periodo in cui gli spiriti migravano da un posto all’altro. «Non usciva?»
«Raramente. Aveva paura di addormentarsi ai piedi di un albero e di trasformarsi in un formicaio. Viveva in quello che gli africani chiamano “il secondo mondo”.»
Erwan lanciò un’occhiata all’orologio: stava solo perdendo tempo. Pharabot era matto da legare. Lassay aveva ragione: a Lontano era stato un mostro terribile, ma nell’istituto era diventato un pazzo come tutti gli altri, intontito dalle medicine, in stato di ibernazione fino al giorno della sua morte.
Lo psichiatra sembrò cogliere la sua delusione. «Venga con me. Voglio mostrarle una cosa.»
Altri corridoi. Superarono una porta blindata che dava su una grande sala occupata da tavoli, cavalletti e leggii. Benché la stanza fosse deserta – essendo ora di pranzo – era disseminata di disegni e altri oggetti più o meno artistici (alcuni erano spaventosi, altri sembravano realizzati da bambini maldestri).
«Praticate l’arteterapia?»
«Dobbiamo pure tenerli occupati.» Si diresse verso una porta in acciaio. «Qui è dove conserviamo i pezzi migliori, per un progetto di esposizione.»
Nello sgabuzzino erano depositate opere di cartone, di carta, di balsa, tutti materiali leggeri e inoffensivi. Erwan posò lo sguardo su uno scaffale e restò di sasso.
Su una mensola erano allineati una ventina di minkondi non più alti di trenta centimetri. Sculture simili a quelle collezionate dal padre, coperte di schizzi di colore rosso. Al posto dei chiodi e dei cocci di vetro c’erano cotton-fioc e pezzi di carta stagnola.
«Ogni anno Pharabot ne faceva diverse. Aveva un’ottima manualità, le decorava con i mezzi che aveva a disposizione.»
Erwan le osservò. Una, cosparsa di pezzetti di carta stagnola, ricordava un cespuglio di rovi. Un’altra aveva una testa irta di spine come un cactus che emergeva da una specie di fogliame tropicale. Un uomo in piedi, con le ginocchia piegate, aveva un grappolo di punte sulle spalle.
Lassay ne scelse una in particolare: testa ovale, occhi a mandorla, bocca come la lama di un rasoio. La lingua che ne spuntava le conferiva un’aria sbarazzina. «Questa dovrebbe costringere i nemici a tirare fuori la lingua.» Lo psichiatra sorrise mestamente. «A quanto pare è un nkondi particolarmente efficace qui allo Charcot: la maggior parte dei pazienti, sotto l’effetto dei medicinali, ha la bocca semiaperta e la lingua di fuori.»
«Non si fidava degli altri pazienti?»
«Secondo lui erano tutti stregoni. Doveva proteggersi... con le sue statue.»
Erwan si avvicinò e ne notò una che aveva una collana fatta di minuscoli gusci di lumaca. «Lo osservava mentre realizzava queste figure?»
«Sì, spesso.»
«Succhiava i cotton-fioc o i pezzi di carta stagnola prima di conficcarli nelle statuine?»
«Sì. Sosteneva che in questo modo il legame con il feticcio fosse più forte.»
«Queste macchie rosse sono di pittura?»
«Certo.»
«Non ha mai utilizzato il proprio sangue?»
Lassay sorrise di nuovo. Sembrava contento di aver trovato qualcuno con cui parlare. «L’ho sorpreso una volta. L’ho lasciato fare. Queste statuette e il potere che lui gli attribuiva erano la terapia più efficace.»
Erwan si disse che alla fine quella visita non era stata tempo perso. In un certo senso gli era servita per conoscere meglio Pharabot, le sue credenze, la sua follia. «Posso prenderle?»
«Me le riporterà?»
«Certo. Ma alla fine dell’inchiesta e del processo, se ce ne sarà uno. Non tanto presto, quindi.»
«Quando si è presentato, il suo nome mi ha colpito. È per caso parente della persona che ha arrestato Pharabot in Zaire?»
«Sono suo figlio.»
Lo psichiatra allargò le braccia e ritrovò il sorriso. «Allora le prenda pure. Resteranno in famiglia.»