Quando i neri lo lasciarono andare, non riusciva più a muovere le braccia. Era stato quasi ventiquattro ore con le mani legate dietro la schiena, rannicchiato sui sedili posteriori di un’auto. Gli avevano concesso soltanto due break: uno per pisciare, l’altro per mangiare. Lo avevano spostato più volte, mettendogli un cappuccio in testa che (non sempre) gli toglievano quando arrivavano a destinazione. A ogni modo, i posti dove lo avevano portato erano quasi tutti uguali: parcheggi vuoti, zone industriali abbandonate, quartieri disabitati...
Nonostante la costante atmosfera di minaccia, il panico di Loïc a poco a poco si era un po’ placato: aveva avuto la certezza che suo padre si stesse occupando di lui e si era accorto che la situazione stava impercettibilmente migliorando.
Il vero problema era la coca: più che la paura, la mancanza d’aria o i dolori ai muscoli indolenziti, a torturarlo era stata l’astinenza. Il bisogno di droga si era manifestato con vampate di calore brevi e lancinanti. A volte un’ondata di angoscia lo aggrediva fino a fargli sperare di morire. Oppure a tormentarlo erano sensazioni fisiche: brividi di freddo, crampi allo stomaco. Altre volte era come se vedesse davanti a sé delle belle strisce bianche alle quali non riusciva ad avvicinarsi. Poi tutto passava e ricominciava a digrignare i denti a più non posso in attesa della crisi successiva.
I suoi carcerieri gli avevano tolto il cappuccio e tagliato le manette, dopodiché lo avevano buttato fuori dalla macchina. L’ultima auto che avevano usato aveva una targa diplomatica. Un modo per dirgli: “Puoi anche segnarti il numero, tanto siamo intoccabili”. In ogni caso, non aveva avuto la presenza di spirito per mandarla a memoria. Si era limitato a raccogliere il cellulare e il portafogli che gli avevano lanciato dalla portiera e poi si era massaggiato i polsi.
Seduto per terra (aveva il completo macchiato di grasso: il secondo da buttare in due giorni), controllò il telefono: per miracolo non si era ancora scaricato del tutto, anche se in quel buco prendeva. Guadagnò l’uscita con passo malfermo: fame, astinenza, intorpidimento. I suoi passi risuonavano nello spazio vuoto. “Dove sono?” Elencò le proprie priorità. Innanzitutto doveva capire dove si trovava. Poteva essere appena fuori Parigi o dall’altra parte dell’Île-de-France. Poi bisognava che trovasse un bancomat: gli avevano restituito soltanto le carte di credito.
Intorno a lui si estendeva una deprimente periferia industriale: un lungo viale costeggiato da lampioni, isolati di edifici neri e ciminiere. Poteva essere a Nanterre come a Gennevilliers o a Ivry-sur-Seine. Quando si mise in marcia alla ricerca di un cartello stradale, tornò ad assalirlo la sua vera preoccupazione: Milla e Lorenzo. Tra una crisi e l’altra non aveva mai smesso di pensare a loro: quel fine settimana i figli dovevano stare con lui. Chi era andato a prenderli a scuola? Qualcuno aveva avvisato la loro madre? Ci aveva pensato il Vecchio? Era sicuro di sì.
Chiamò Gaëlle, che si occupava dei bambini quando lui non era disponibile. La sorella lo rassicurò: i piccoli erano già a letto. Alla sua richiesta di spiegazioni Loïc rispose in modo piuttosto vago. Quando poi Gaëlle gli chiese dei lavori che erano stati fatti a casa sua, fu ancora più evasivo.
«Arrivo tra mezz’ora.»
Aveva appena visto un cartello stradale: STAINS. Controllò la segreteria: in ventiquattr’ore aveva ricevuto più di trenta messaggi. Era interessato solo a quelli del padre. Morvan aveva già provato a chiamarlo due volte. Doveva essere al corrente che lo avevano appena liberato e voleva fare una verifica.
Gli bastò una pressione del dito per richiamarlo. Il segnale di linea risuonò in modo strano.
«Dove sei?» gli chiese il Vecchio con il suo vocione inquietante.
«Mi hanno appena lasciato andare. Cos’hai fatto?»
«Ti spiegherò. Sto per imbarcarmi.»
«Per dove?»
«Per Parigi. Sono a Kinshasa. Ho dovuto negoziare con le alte sfere.»
«Hai... hai pagato?»
«No. Ma non abbiamo molto tempo per dimostrare la nostra buona fede.»
«Che buona fede? Di cosa ci accusano?»
Morvan eluse la domanda. «Kabongo mi ha detto il nome del trader che sta comprando i pacchetti di azioni.»
«Come l’ha avuto?»
«È meno coglione di te. Un certo Serano.»
Loïc si lasciò sfuggire una bestemmia. La notte prima non era riuscito a cavargli una sola parola di bocca. «Sì, lo conosco.»
«Va’ da lui e fallo cantare.»
«Non ha alcun motivo per rispondermi.»
«Arrangiati. Dobbiamo risalire ai compratori. È il solo modo che abbiamo per convincere i negri!»
Loïc si passò una mano sul volto. Gli parve di toccare un cadavere. «Non... non so come fare.»
«Allora chiama Erwan.»
Solo al sentir nominare il fratello si rianimò. «Verrà a spaccargli il muso in modo che io possa ottenere le informazioni? È così?»
«Sa essere convincente.»
«Non so in che mondo vivi, papà, ma le faccende di cui stiamo parlando non si regolano a pugni. È la borsa, non un saloon!»
Trascorse qualche secondo. Loïc pensava già che fosse caduta la comunicazione quando la voce del padre tornò come un rumore di fondo. «Sto salendo in aereo. Tu torna a casa e fatti una doccia. Ai bambini ha pensato Gaëlle. Domani mattina va’ da Serano.»
«Ti ho detto che...»
«E io ti dico che invece il mondo è un enorme saloon. I tuoi finanzieri valgono meno della merda di cavallo sotto gli stivali dei miei cowboy. Tuo fratello verrà con te e, credimi, Serano vuoterà il sacco e vi ringrazierà per non avergli rotto tutti i denti.»