Le dieci di sera. Le operazioni di scarico dell’Apnea Gaillard procedevano a pieno regime.
Il suo container – il numero 89AHD34 – era stato scaricato intorno alle sette e mezzo e l’ufficiale dell’autorità portuale l’aveva subito avvisato. Il TEU – acronimo di twenty-feet equivalent unit, «unità equivalente a venti piedi» – conteneva tra molte altre cose anche uno stock di «pezzi di ferro usato». Prima conferma. Erwan non aveva chiamato i colleghi marsigliesi: avrebbe montato la guardia da solo. Presi con sé distintivo e pistola d’ordinanza era uscito dal suo albergo, situato non lontano dal terminal. Superati i controlli, si era posizionato vicino al casotto delle guardie notturne, accanto al deposito. Da lì sarebbe riuscito a osservare sia il suo container sia le operazioni di scarico, che proseguivano oltre le file serrate dei TEU.
I lavori avvenivano alla luce di potentissime fotoelettriche. Uno spettacolo assordante, reboante, rutilante, inframmezzato da clangori metallici, stridio di cavi e voci gracchianti deformate dalle ricetrasmittenti. Non era visibile nessuna presenza umana, soltanto i macchinari che operavano alla luce dei riflettori. I container passavano dal ponte al molo, poi dal molo ai parcheggi. I carrelli elevatori andavano e venivano, simili a giganteschi domestici che trasportassero immensi vassoi. I loro bracci afferravano i TEU come enormi pinze per zollette di zucchero. Il tutto ricordava una sconfinata città di Lego in fase di smantellamento.
Inizialmente Erwan aveva seguito la scena con un certo interesse. Ora invece, frastornato da tutto quel chiasso e accecato dai fasci luminosi, si era perso nei propri pensieri. L’Uomo Chiodo, il suo rituale demoniaco, le sue vittime. Per l’ennesima volta formulò la stessa duplice ipotesi: da una parte, l’assassino si vendicava di Morvan; dall’altra, tentava di esorcizzare i propri demoni: omosessualità e necrofilia.
Ripensandoci quel quadro poteva essere completato con un terzo elemento: l’impotenza. Dopotutto il killer stuprava le proprie vittime con una mazza d’arme o uno strumento simile: il ferro si sostituiva alla carne. Forse perché non poteva fare altrimenti. Ma perché imitare l’Uomo Chiodo? Come faceva a conoscere la sua storia? Aveva scelto Morvan perché era stato lui ad arrestare il suo modello? O forse perché aveva avuto un ruolo funesto nel destino che gli era toccato?
Un proiettore fu puntato nella sua direzione e lo accecò. Istintivamente si voltò e vide la propria ombra allungarsi contro una fila di container. Sentì il cellulare suonare. “Sofia”, pensò. (Aspettava ancora che fosse lei a mandare un segnale: per orgoglio, non aveva voluto farsi vivo per primo.) Era Kripo.
«Ci sei? Non sento niente!»
Erwan cercò riparo tra due container. «Ci sono», disse alzando la voce.
«Ho scoperto qualcosa di importante.»
«Parla.»
«Anne Simoni era in contatto con una comunità... particolare.»
«Del tipo?»
«Sadomaso. Fetish.»
«I no limit?»
«Troppo presto per dirlo, ma secondo le mie fonti partecipava a serate molto particolari dove tutti erano mascherati nei modi più assurdi, con tanto di torture e compagnia bella.»
Quel lato perverso collegava Anne all’ammiraglio Di Greco, anche se alla lontana. Cultura della sofferenza, piacere nel dolore: l’ufficiale e la punkettina avrebbero entrambi potuto essere, indipendentemente l’uno dall’altra, in contatto con il nuovo Uomo Chiodo... «Come l’hai scoperto?»
«Dai tabulati telefonici. C’è il numero di un sex-shop delle Halles specializzato in fetish che aveva chiamato più di un mese fa. Ho telefonato. Vendono tute di lattice, vestiti da infermiera e uniformi naziste.»
«Si ricordano di lei?»
«No. Ma mi è tornata in mente una cosa. Perquisendo il suo appartamento Audrey e il Sardina hanno trovato delle cose strane: mascherine e camici da chirurgo, cinghie, tute arancioni...»
«Audrey me ne ha parlato.»
«Secondo il tipo del sex-shop, si tratta di un tipo particolare di fetish. L’ossessione per l’ambiente medico, accompagnata da quella per il colore arancione.»
«Perché l’arancione?»
«È il colore del Betadine. E anche dei lacci e delle cinghie emostatiche. Un tipo di feticismo che spazia dalle iniezioni a pratiche più invasive: dita nel culo, colonscopie e altre amenità su cui è meglio sorvolare. Nel suo appartamento abbiamo trovato anche strani attrezzi come camicie di forza, speculum, sonde, cannule, raschietti...»
Erwan rifletté: una ragazza che giocava con i lacci emostatici o praticava finti aborti corrispondeva a un profilo particolare che rimandava a un mondo ben preciso.
«Tutti questi elementi quadrano anche con un’altra scoperta», proseguì il Liutista. «Gli informatici sono riusciti ad aprire la misteriosa cartella sul suo computer. Dentro ci sono migliaia di video per così dire tecnici: clisteri, dilatazione dell’uretra, sonde anali... Ti risparmio i particolari.»
Gli hard disk: scatole nere della psiche...
«Domani quanto torno sentiamo Lartigues. Dev’esserci per forza un collegamento anche con lui.»
«Sono contento di sentirtelo dire.»
«Intanto tu continua a battere questa pista. Controlla quelli che hanno già avuto qualche noia con la polizia.»
«Mi prendi per uno stagista?»
«Ti richiamo», concluse bruscamente Erwan prima di riagganciare. Si era appena accorto di un’ombra in fondo alle file di container. Si precipitò in quella direzione e raggiunse lo spiazzo dov’erano disposti i cassoni: nessuno. Una guardia notturna? No, avrebbe avuto una torcia elettrica, un cane o entrambi.
Doveva per forza essere un intruso. Forse non l’assassino, ma di sicuro qualcuno che cercava di passare inosservato. Girò a sinistra e proseguì lungo i TEU. Aveva già estratto la pistola. Prima fila: nessuno. Seconda: idem. Terza... Cominciava a chiedersi se non avesse sognato.
Stava per rinunciare quando in fondo alla quarta fila scorse una figura. Si lanciò in uno sprint. Svoltò, corse, svoltò ancora. Non sentiva più niente, fatta eccezione per i clamori metallici in lontananza. Istintivamente prese a sinistra per poi lanciarsi in un corridoio alla sua destra.
Smarrito in quel labirinto di colori, non sapeva più dove si trovava. Vedeva passare sopra di sé i fasci di luce delle fotoelettriche del cantiere e i bracci delle gru che giravano incessantemente. Alla sua sinistra scorgeva soltanto pareti di lamiera ondulata. Gli tornò in mente la storia dell’ufficiale dell’autorità portuale: i clandestini africani che si facevano rinchiudere nei container armati di una sega. Che fosse uno di loro? Quanto più avanzava, tanto più si perdeva. Si sentiva come un prigioniero che, agitandosi, riesca soltanto a stringere ancora di più le corde che lo legano. Gridare perché qualcuno gli venisse in aiuto? I robot della notte avevano molta più voce di lui.
Colpì con rabbia il portello di un container provando a immaginare che cosa potessero contenere quei cassoni: mobili africani, spezie, stupidi oggetti di pelle, frutta... Un poliziotto perso tra banane e cereali: da morire dal ridere.
All’improvviso si ritrovò per terra. Si voltò appena in tempo per vedere il fuggitivo allontanarsi sulla destra. Uscito dal suo nascondiglio, gli aveva dato uno spintone e se l’era filata. Erwan era in ginocchio con i palmi appoggiati a terra: la pistola gli era scappata di mano. Scattò come un velocista raccogliendo al volo la sua arma.
Nuovo avvistamento. L’ombra della preda sul muro, a cento metri sulla sua sinistra. Erwan riprese fiducia. Quel labirinto cominciava ad acquistare un senso. Cinquanta metri. Il frastuono del cantiere si faceva più forte. Trenta metri. La figura era completamente scura, compresa la testa: un nero? Un bianco con un passamontagna?
Senza capire come, si ritrovò sul molo. L’uomo ricomparve tra due macchine impilatrici. A ogni secondo che passava Erwan trovava conferma di ciò che aveva già notato: il fuggitivo era troppo veloce. Uno sportivo ben allenato. Anche lui lo era: accelerò. L’altro continuò a correre costeggiando il cantiere. Passò sotto il ponte delle gru e ripiombò nell’ombra dei container. Nessuno sembrò notarlo, né i manovratori nelle loro cabine di comando né il deckman, preoccupato soltanto dai cassoni, sospesi come sculture spaziali nella luce bianca.
Erwan si fermò per cercare di individuare la preda e capire come sarebbe riuscito a farsi strada tra le manovre. All’improvviso la vide a circa trecento metri, oltre la zona illuminata dalle fotoelettriche, vicino alle gru che scaricavano i TEU. Correva verso il bacino vero e proprio.
Senza riflettere, Erwan si lanciò sotto i bracci degli argani e i container che viaggiavano a diverse decine di metri di altezza. Fischi, stridori di freni, insulti... Il deckman che ordinava ai piloti di fermarsi, gli operatori sul molo che berciavano, gli allarmi sonori che si susseguivano. Il poliziotto li ignorò: l’altro si stava già inerpicando lungo la passerella che conduceva sul ponte dell’Apnea Gaillard.
Erwan avanzò zigzagando per evitare i carrelli elevatori e i loro immensi pneumatici e raggiunse il cargo. Avvistò il fuggitivo in cima alla passerella e riuscì a osservarlo meglio: alto poco più di un metro e ottanta, spalle larghe, tuta grigia. Ma non riuscì a capire se fosse nero o soltanto mascherato.
Erwan si fece largo tra gli operai, guadagnando qualche secondo. Quando prese la rampa, l’altro era già a bordo. “Sei in trappola.”
Una trappola lunga trecento metri.