97.

Quando rinvenne, Erwan credette di essere all’inferno.

Si trovava invece al pronto soccorso della clinica Timone, nel cuore della notte. Adagiato su una barella, isolato da un séparé (indossava solo un camice di carta da ospedale), osservava dalla tendina semiaperta i pazienti che si avvicendavano flirtando con la malattia e con la morte in tutti i modi possibili e immaginabili. Infortuni domestici e bronchiti per i bambini. Risse, sbornie e incidenti stradali per i giovani. Infarti, cadute e ictus per gli anziani. In mezzo a quel macabro campionario di umanità, un altro popolo si affaccendava, sangue freddo e camice bianco, alternando domande – numero di previdenza sociale, ultime sostanze ingerite, circostanze dell’incidente – a interventi salvavita.

Erwan contemplava quello spettacolo come un sonnambulo. Aveva passato il primo quarto d’ora dopo aver ripreso conoscenza a vomitare, il secondo a sputare e il terzo a sciacquarsi la bocca con acqua dolce per togliersi il morso del sale dalla gola, dai polmoni e dal cuore. Gli sembrava di essersi bruciato... dall’interno. Vestigia del suo naufragio, il completo e la camicia erano appesi a un attaccapanni, duri e ricoperti di macchie biancastre. Sotto il camice, la pelle, seccandosi, si crepava come la vernice di un vecchio tavolo.

I medici del pronto soccorso gli avevano fatto qualche radiografia (aveva preso diversi colpi alla testa e alle anche a causa della violenza dei flutti) e storto il naso davanti alle ferite di Kaerverec. Ma non c’era niente di rotto. Soltanto altri lividi, altre croste da aggiungere alla sua collezione.

Chiuse gli occhi. Le palpebre si abbassarono su una fornace. Fluttuare in quel reparto in cui crisi, diagnosi e urgenze si perdevano in un brusio inintelligibile gli dava uno strano piacere. Dopo la furia della vasca di zavorra, aveva l’impressione di remare sulla superficie di un lago, con uccelli che tubavano in lontananza avvolti nella nebbia.

Per il momento aveva smesso di pensare a chi l’aveva attirato in quella trappola e alle circostanze dell’aggressione: il suo nemico conosceva il funzionamento del sistema di zavorra. Rimuginava invece sul fatto che quella volta ci era mancato davvero poco perché ci restasse secco e provò una riconoscenza viscerale per i pompieri che l’avevano tratto in salvo.

Si aprì la tendina del séparé. Davanti a lui c’erano i due poliziotti di Noailles, accompagnati dall’ufficiale dell’autorità portuale. Tutti e tre avevano la faccia scura: innanzitutto Erwan non aveva avvisato nessuno della sua passeggiata notturna; in secondo luogo, nessuno di loro era in servizio quella notte, il che significava che la sua avventura li aveva costretti a rinunciare a un venerdì sera in famiglia o in qualche bar.

Erwan si sedette sulla barella, pronto a ricevere una scarica di insulti. Accesso non autorizzato alla zona di carico e scarico; transito in un cantiere vietato al pubblico; accesso indebito su una nave portacontainer battente bandiera di Antigua. Era diventato un’eccezionale fonte di rogne per il comandante e l’equipaggio del cargo, la compagnia di navigazione che aveva noleggiato la nave, i dirigenti del bacino ovest di Fos e i tre campioni che gli stavano davanti.

Ciò nonostante, vedendolo in quelle condizioni, avvolto nel camice verde come un maki nella sua foglia d’alga, quelli parvero raddolcirsi.

«Abbiamo perlustrato tutti i bacini», annunciò uno degli agenti. «Non c’è traccia del suo uomo.»

«Gli operai del cantiere?»

«Li stiamo interrogando. Per adesso sembra che nessuno abbia visto niente.»

«È stato il mio aggressore ad aprire le paratoie?»

«No», rispose l’ufficiale di marina. «La procedura è automatica. È stato sfortunato, a meno che l’altro non fosse al corrente della manovra. Durante le operazioni di scarico si riempiono le camere stagne per mantenere costante la linea di galleggiamento.»

Erwan rimase in silenzio per qualche secondo. Gli sembrava che il suo cervello stesse cuocendo a bagnomaria in una pentola piena di acqua salata. «L’equipaggio dell’Apnea

«Stiamo interrogando anche loro», disse uno degli agenti. «Ma non dobbiamo aspettarci troppo. La metà si trovava a terra e gli altri dormivano.»

«Quanti sono?»

«Sedici.»

«Per una nave lunga trecento metri?»

«Oggigiorno», intervenne l’ufficiale dell’autorità portuale, «è tutto gestito elettronicamente.»

«Le sembrano a posto?»

«Normali. Filippini, nigeriani, croati... Il cargo riparte domani mattina.»

«Anche dopo quello che è successo stanotte?»

«Il comandante non vuole strascichi. È una vittima delle sue cazzate e per non dover restare in porto tre giorni di più rinuncerà al piacere di sporgere denuncia.»

«E se fossi io a farlo?»

«Glielo sconsiglio.»

«La dogana lo lascerà partire?»

«Se lei non farà ulteriori casini, non c’è ragione di trattenerlo.»

«E i container della Heemecht?»

«Li apriremo. Secondo lei che cosa stava cercando il suo uomo?»

«Ferraglia, gliel’ho già detto.»

L’ufficiale scosse la testa, come per esprimere la sua incredulità. «Nessuno esporta metalli usati. Soprattutto non dall’Africa.»

«Perché?»

«Perché lì anche dei chiodi senza testa possono ancora servire.»

Erwan era d’accordo, ma non aveva la forza di spiegarsi. «Ha parlato con il comandante dell’Apnea? Con la dogana? Con la capitaneria?»

«Ho parlato con tutti e ogni volta mi sono preso degli insulti. Se questa faccenda dovesse provocare qualche ritardo, scoppierà una rivolta. Senza contare l’ispettorato marittimo, che domani verrà per verificare che le norme di sicurezza siano state rispettate. La sua avventura rischia di costare centinaia di migliaia di euro.»

Avrebbe anche dovuto redigere un verbale dettagliato, e Kripo non era lì per fargli da scriba. Tanto valeva mettercisi subito. Cercò di appoggiare un piede per terra, ma un dolore all’anca lo costrinse a voltarsi per non perdere l’equilibrio. Il camice si aprì sulla schiena e si ritrovò con le chiappe al vento. Tutti scoppiarono a ridere, lui per primo. Ennesima figura barbina per la squadra Anticrimine...

«Non avete qualche vestito asciutto?»

Un agente gli lanciò un sacchetto di plastica e ridendo gli disse: «Spero che non abbia nulla contro l’Olympique Marsiglia».

Erwan trovò una T-shirt nera con una M inscritta in una O, come in una miniatura medievale, una felpa con cappuccio con i colori della squadra della città e un paio di pantaloni da jogging grigi. Per raggiungere il suo albergo vicino al vecchio porto sarebbero andati benissimo. Si sarebbe fatto lavare il completo in hotel.

I colleghi si spostarono dall’altro lato del séparé per dargli modo di cambiarsi. Mentre si vestiva, tratteggiò mentalmente un ritratto del suo aggressore: un metro e ottantacinque, atletico, un corridore allenato. Nessuna certezza riguardo al colore della pelle. Per il resto, un uomo che conosceva il mondo del commercio via mare, cosa perfettamente compatibile con il profilo di un pilota di Zodiac. L’Uomo Chiodo?

Indossò la felpa e prese la busta in cui le infermiere avevano infilato le sue chiavi, il cellulare e i documenti: erano fradici. Provò ad accendere il telefono: niente. Sicuramente era andato. Mise tutto nel sacchetto di plastica da cui aveva preso gli indumenti e controllò un’ultima volta le tasche del completo.

Nella giacca trovò un foglio di carta piegato in quattro. L’acqua di mare lo aveva incollato, ed Erwan lo aprì facendo attenzione a non romperlo. Quando vide i nomi che c’erano scritti, si ricordò: i «clienti» di Gaëlle identificati dagli uomini di suo padre. Per ognuno erano precisati indirizzo e orario dell’ultimo appuntamento. Stava per buttarlo quando un nome attirò la sua attenzione. Richard Masson. L’aveva già visto o sentito da qualche parte. Si prese il tempo di leggere per intero la lista. Un altro gli fece scattare qualcosa: Sergej Borgisnov. La sua memoria cominciò a lavorare. Terzo flashback: Johnny Leung.

Questa volta si ricordò: erano i tre che avevano fatto man bassa delle azioni della Coltano.

Fu come se gli avessero tirato un pugno in pieno viso. Stordito, si aggrappò alla barella.

Quegli uomini erano stati clienti di Gaëlle. Era sua sorella la fonte dei banchieri.

In un modo o nell’altro doveva avere avuto accesso all’informazione. Forse aveva origliato mentre suo fratello o suo padre era al telefono o forse – ipotesi che gli sembrava più probabile – conosceva la combinazione della cassaforte di Loïc. Era evidente che era stata lei a passare la dritta ai tre finanzieri, suoi clienti. Un particolare venne a confermare i sospetti di Erwan: secondo Serano, l’acquisto di azioni più recente era stato ordinato da Leung e datava a lunedì 10 settembre; stando agli agenti della DCRI, Gaëlle si era vista l’ultima volta con il cinese proprio la sera prima.

Erwan conosceva fin troppo bene la sorella per pensare che potesse aver venduto l’informazione. Lo scenario che si profilava era molto peggiore: doveva averla regalata con la ferma intenzione di danneggiare il padre e il fratello. Anche se sicuramente ignorava la vera portata di quelle notizie, aveva intuito quanto avrebbero potuto rivelarsi dannose e le aveva rivelate come un piromane appicca il fuoco alla propria casa con tutta la sua famiglia all’interno.

Borgisnov si era vantato di essere in contatto diretto con la fonte. Non intendeva l’Africa, bensì il clan Morvan.

«Andiamo?»

Erwan infilò in tasca il foglietto e uscì dal séparé. «Devo fare una telefonata.»