99.

Verso le sei del mattino sul porto di Fos si scatenò un temporale. Erwan, seduto davanti alla finestra della sua camera d’albergo, osservava le striature grigie sferzare i lampioni, mitragliare la rada piena di mulinelli, bersagliare le migliaia di container in attesa di essere spediti.

Non aveva dormito se non per qualche breve istante, come quando si cade nel fango per rialzarsi subito dopo. Il fango era la sua famiglia, il suo passato, tutte le ragioni per cui una ragazza poteva decidere di consacrare le proprie energie alla distruzione dei suoi. Fino alle due del mattino aveva ripensato alla violenza del padre, alla rassegnazione della madre, al terrore del fratello e della sorella, a quel disgusto infinito che era stata la sua «vita familiare».

Quando poi, foss’anche solo per sfinimento e disperazione, stava per addormentarsi, Morvan l’aveva chiamato per dirgli che Gaëlle aveva tentato il suicidio.

«Ancora?» aveva risposto, pentendosi subito per il cinismo di quella battuta.

Con la voce rotta dall’angoscia il padre gli aveva raccontato l’accaduto. Non era stato come i tentativi della giovinezza (overdose di medicinali, lavande gastriche e così via): quella volta Gaëlle aveva davvero cercato di farla finita. Grazie a un miracolo che avrebbe riconciliato tutti i Morvan con Dio era rimasta illesa.

«Dov’è adesso?»

«All’ospedale americano. Le stanno facendo degli esami.»

A Parigi, a Neuilly-sur-Seine, la malattia ha la sua zona VIP. Se volete morire senza dovervi mettere in lista d’attesa o più semplicemente farvi curare a caro prezzo, questo strano istituto con l’accento americano e foto di infermiere degli anni Quaranta appese alle pareti è quello che fa al caso vostro.

«Come sta?»

Morvan aveva risposto a modo suo. «Dopo questo la faccio ricoverare al Sainte-Anne.»

Una specialità del Vecchio, che aveva già fatto internare più volte la moglie nell’istituto psichiatrico dove anche lui si era fatto curare. Erwan non aveva insistito. Doveva rientrare a Parigi al più presto. Per dare un bacio alla sorella che gli avrebbe sputato in faccia. Calmare il padre che l’avrebbe ascoltato con il dito premuto sul grilletto. Fare da arbitro in quella famiglia di sciroccati sempre sul punto di implodere.

Aveva trascorso le ultime ore della notte alla finestra a contemplare il porto di Fos, tormentato dai rimorsi. Quando aveva capito il complotto di Gaëlle, aveva subito cercato di raggiungerla, ma lei non aveva risposto. Aveva rinunciato a chiamare Loïc, che avrebbe potuto reagire in maniera più o meno appropriata a seconda del tasso di cocaina che avrebbe avuto nel sangue al momento. Non gli era restato che il padre: Erwan gli aveva comunicato i suoi sospetti cercando di minimizzare. Fatica sprecata. Avrebbe dovuto aspettare di tornare a Parigi, essere con lui nel momento del confronto.

Il clan ancora una volta aveva avuto la meglio su tutto il resto. Poco importava che Erwan fosse appena uscito da un inseguimento, che avesse sfiorato la morte, che (forse) avesse avvicinato l’assassino: la sua mente riusciva soltanto a concentrarsi sulle vicende familiari.

Dalla finestra vide arrivare i suoi colleghi. Un quadro degno di un vecchio film poliziesco: il terminal e i container che luccicavano sotto la pioggia, le pozzanghere sul molo a strisce rosse e gialle, la Saab scassata dei poliziotti. Quell’immagine gli piacque e si disse che forse la mattinata gli avrebbe riservato qualche bella sorpresa.

In macchina i marsigliesi fecero il punto della situazione. Anche loro non avevano dormito. Malgrado le apparenze, sapevano essere efficienti: in poche ore avevano scritto i verbali, ottenuto i mandati e le autorizzazioni necessari per convalidare l’apertura del container 89AHD34, contattato la procura, i prefetti e le autorità doganali competenti. Tutto era in ordine. Avrebbero potuto vedere se nella cassa si nascondevano i famosi chiodi arrugginiti.

In compenso, per quanto riguardava possibili indizi e testimoni, nada de nada. I membri dell’equipaggio erano stati tutti interrogati e lo stesso valeva per la maggior parte degli operatori dei dock impegnati nelle operazioni di scarico dell’Apnea: nessuno aveva visto nulla. Una squadra della Scientifica era salita a bordo per cercare impronte ed eventuali tracce organiche: una completa perdita di tempo. Ci sarebbero voluti diversi giorni per passare al setaccio tutto il cargo, e per trovare cosa? A ogni modo erano stati fatti sbarcare dopo nemmeno un’ora. Il poliziotto seduto nel posto del passeggero sospirò. «La nave riparte stamattina e non è più possibile salirci. L’unica cosa che abbiamo è il container.»

«È stato aperto?»

«Lo stanno facendo ora.»

Erwan tacque osservando i dock che si susseguivano, completamente deserti. Quando arrivarono a quello dei bacini ovest, quasi non credette ai propri occhi: il ponte dell’Apnea Gaillard era di nuovo carico di container e la zona deposito era vuota. L’infinita catena di montaggio aveva imbarcato tutti i cassoni che dovevano ripartire. Gli altri erano senz’altro già a bordo di qualche camion o si trovavano nei depositi dell’area logistica.

Restava soltanto il container della Heemecht, il cui contenuto si riversava ora sull’asfalto dal portellone spalancato come una pattumiera rovesciata. Alcuni doganieri stavano perquisendo l’interno, portando fuori casse più piccole, che a loro volta ne contenevano altre di dimensioni ancora più ridotte, come delle matrioske.

Si avvicinarono. Pioveva ancora a dirotto. Le gocce cadevano sulle mantelle impermeabili dei doganieri producendo tutta una gamma di note gravi che ricordavano una marcia funebre.

«È lei che devo ringraziare per questo puttanaio?»

Erwan si girò. Un uomo con un colbacco, imbacuccato in un piumino da sci, se ne stava piantato a gambe larghe dietro di lui. «Mi dispiace.»

«Ne dubito. Sta solo facendo il suo lavoro. Quindi muoviamoci, così anch’io posso ricominciare a fare il mio.»

Presentazioni. Strette di mano. Il responsabile della Heemecht si chiamava Xavier Schneider. Era così grosso che sotto la giacca a vento sembrava indossare un giubbotto antiproiettile.

Erwan cominciò con una domanda piuttosto generica. «È la sua società che compra questa ferraglia in Congo?»

Schneider scoppiò a ridere. «Vedo che non ne sa proprio nulla di come funziona il settore. Ci sono i venditori che spediscono i loro prodotti africani e i compratori che li ricevono. In mezzo ci stanno l’armatore, che si occupa dell’esercizio della nave, il proprietario dell’imbarcazione, che non sempre coincide con l’armatore, il personale del cargo, assunto da un’altra società ancora, l’agente marittimo, che rappresenta l’armatore nel porto... E a supervisionare tutto questo casino c’è un coordinatore, detto locatore...»

«Lei?»

«No. La Heemecht è responsabile soltanto dei suoi container e si occupa di inoltrarli a ciascun acquirente. Punto.»

«Non vi capita mai di consegnarne qualcuno qui al terminal?»

«No.»

Inutile continuare a girarci attorno. «Ce l’ha la cassa piena di ferraglia?»

Schneider fece un passo di lato e diede un leggero calcio a una cassa di legno lunga circa due metri. A Erwan ricordò una bara. Il coperchio era semiaperto. Lo spostò con un piede: era piena fino all’orlo di chiodi arrugginiti. Diversi modelli. Diverse misure. Ne prese una manciata: la maggior parte portava il marchio della CBAO.

Finalmente qualcosa che tornava.

«Conosce l’indirizzo di spedizione?»

«È riservato.»

Con un’occhiata Erwan chiamò in soccorso gli agenti marsigliesi, ma Schneider, tirando fuori un tablet da sotto il piumino, disse: «Scherzo... La cassa dev’essere spedita al 19 di villa du Bel-Air, 75012, Parigi. Il destinatario è Ivo Lartigues».

Secondo elemento che quadrava. Erwan osservò l’uomo della Heemecht. Dietro di lui riusciva a vedere i dock sferzati dalla pioggia e le pozzanghere che sembravano avere la pelle d’oca. Avrebbe voluto baciarlo. Chi poteva comprare dei vecchi chiodi se non uno scultore che li usava per trafiggere le sue opere?

Sapeva già che Lartigues non era il suo aggressore: perché avrebbe dovuto andare fin lì per rubare quello che gli avrebbero recapitato a domicilio? Ma si stava avvicinando all’assassino.

«Avete già avuto a che fare con lui in passato?»

«Il nome mi dice qualcosa. Mi pare che sia un cliente regolare.»

«Sa cosa contengono le casse normalmente?»

«No. Bisognerebbe verificare nei nostri archivi.»

Uno dei poliziotti marsigliesi si avvicinò e domandò con aria incredula: «Crede davvero che il tipo di questa notte fosse qui per i chiodi?».

«Ne sono convinto.»

«Cos’hanno di tanto speciale?»

Erwan osservò la ferraglia che aveva in mano. Il suo palmo era rosso di ruggine. «Sono stregati.»