Una preda di caccia.
Li guardava raccolti attorno al suo letto e vedeva dei cacciatori in livrea rossa, appena smontati da cavallo, corno in spalla, nell’atto di eviscerare una cerva: lei. Strappavano le interiora dal suo ventre squarciato e le gettavano ai cani che latravano eccitati dall’odore del sangue.
Non era rimasta a lungo all’ospedale americano: nessuna frattura, nemmeno una ferita lieve. Un miracolo, anche se a compierlo era stato il diavolo. L’avevano trascinata all’istituto Saint-Anne. TSO: trattamento sanitario obbligatorio. Non aveva nemmeno avuto la forza di ribellarsi. Si trovava già sotto sedativi... pronta all’uso.
«Come stai, tesoro?»
Maggie era china su di lei. Capelli di un rosso sbiadito, rughe a profusione. Due occhi sporgenti da rapace notturno.
Il killer di sua madre era la vita stessa.
Gaëlle notò che aveva in mano dei semi di papavero della California (che coltivava sul balcone per le loro virtù ansiolitiche). Mentre le parlava continuava a sgranocchiarli avidamente, simile a uno di quegli animali spelacchiati che si possono vedere allo zoo dell’Orto botanico. Erano proprio quelle sue piccole manie a disturbarla più di ogni altra cosa.
«Bene, Maggie», sussurrò. «Voglio... voglio soltanto riposarmi.»
«Ma certo.»
Le diede un bacio umido. La gran bobo le aveva accordato la sua assoluzione, mormorando parole di rammarico riguardo al pranzo di quella domenica. Era proprio da ridere...
Sua madre si spostò e Gaëlle riuscì a identificare gli altri: Erwan e il Vecchio, rigidi come due tronchi, la squadravano con uno sguardo scuro come i loro vestiti. Loïc, con la faccia stravolta, fissava con desiderio il letto libero della stanza. Chissà quanto gli sarebbe piaciuto potersi installare lì, di fianco a lei, e farsi riempire di sonniferi...
Chiuse gli occhi per allontanare quell’immagine.
I Blues Brothers cospiravano a bassa voce. «Non mi fido di loro. Prendi uno dei tuoi e mettilo di guardia.»
«Ne ho uno nuovo in squadra...»
«Perfetto.»
«Ma solo per questa notte.»
«Certo, domani ci penseremo.»
Gaëlle sorrise senza sollevare le palpebre. Volevano sorvegliarla? Tanto meglio. Li aveva sentiti parlare di una cura del sonno. Meglio ancora. Tutti i depressi lo sanno: il sonno è l’unico rifugio.
Non le importava che il suo piano fosse fallito né di essere stata scoperta. L’unica cosa che contava era che si era sbagliata ancora. Per settimane, per mesi, quel progetto era stata l’unica cosa che le aveva permesso di andare avanti. Ma l’odio è un ostacolo, un miraggio. Che si vinca o si perda lascia sempre l’amaro in bocca...
Quando riaprì gli occhi trovò ad attenderla una bella sorpresa. Doveva essersi addormentata, perché non c’era più nessuno. Assaporò quel silenzio carico di odori chimici e di stanchezza. Un silenzio da manicomio, da cella d’isolamento, popolato da bisbigli, quasi confortante.
All’alba, al suo arrivo, dopo gli esami clinici e l’elettroencefalogramma, lo psichiatra di turno, un rumeno, le aveva mostrato il reparto. Le stanze, la mensa, il distributore di bevande... Niente da segnalare, se non che era impossibile uscire. Il rumore di un chiavistello era stata la prima cosa che aveva sentito. E anche l’ultima.
Le tornò in mente la scena del balcone, attenuata dall’effetto dei medicinali. Aveva sentito il vuoto spalancarsi sotto di sé, aspirarla nelle sue profondità, e si era vista morire. Ma non era stato quello il peggio. La cosa peggiore era il motivo che l’aveva spinta a buttarsi. Non voleva farla finita. Aveva soltanto avuto paura di suo padre, una paura così profonda che aveva letteralmente sentito il proprio cuore esplodere. A ventinove anni non era ancora cambiata. Come i crostacei, si era costruita un solido esoscheletro, ma all’interno la carne era rimasta tenera.
Non le serviva uno psichiatra, ma un esorcista.
Fece per guardare l’orologio, poi si ricordò che gliel’avevano preso insieme al resto. Vestiti, gioielli e cellulare erano sotto chiave nell’armadio di metallo della camera. Quella spoliazione aveva contribuito a farle perdere ogni punto di riferimento. Doveva essere mezzogiorno, anche se le sembrava che fosse mezzanotte. O le sei del mattino. Aveva perso la cognizione del tempo, e anche quella del dolore. Merito della chimica.
Un velo nero le calò sulla coscienza. Ancora il sonno: quando qualcosa ti fa stare bene, non ne hai mai abbastanza...