Avrebbe dovuto preoccuparsi delle sorti della Coltano, angosciarsi per i sospetti che gravavano su Pernaud o continuare a interrogarsi sull’identità di quel fantasma emerso dal passato per ammazzare i responsabili della sua stessa morte.
Niente da fare.
Galleggiava disteso sul letto come se si fosse fatto uno spinello o avesse preso una doppia dose delle sue medicine. Gaëlle era viva, e quella era l’unica cosa che contava. Del resto non gli importava: la solita, insignificante merda.
Erano le nove e mezzo di sabato sera e Morvan, con gli occhi fissi sul soffitto, ascoltava la radio gracchiare in sottofondo. Era preda di una profonda ebbrezza, intensa e leggera allo stesso tempo. Gli sembrava che il letto ondeggiasse e si rivedeva quarant’anni prima mentre ascoltava la sua piccola radio a transistor a bordo di una chiatta sul fiume Lualaba, dove si era appostato per tenere sotto sorveglianza Thierry Pharabot.
Non era cambiato molto da allora. Continuava a sentire lo sciabordio di quelle acque e il senso di eccitazione per quella sua prima inchiesta. E il sapore dell’Africa, naturalmente... Quando si sono conosciuti quella terra rossa, quei paesaggi che ti devastano il cuore e ti bruciano la retina, quegli uomini e quelle donne sereni, brutali e ingenui, che nascondono un patrimonio di eleganza, di sensibilità artistica e di allucinanti superstizioni, non ci si riprende mai del tutto. L’Africa è come la malaria, dalla quale ci si crede guariti perché i parassiti sembrano scomparsi, ma che in realtà rimane acquattata nel fegato, aspettando soltanto il momento in cui tornare a manifestarsi.
Bussarono alla porta.
Si mise a sedere, appoggiando la mano sulla pistola che teneva sul comodino. Poi cambiò idea. Quei colpi indicavano tre cose: il visitatore conosceva il codice di accesso del portone d’ingresso, aveva un passe-partout per aprire la seconda porta, quella dell’interfono, e sapeva che il sabato sera per trovarlo bisognava salire dalla scala di servizio e bussare a quella porta.
Erwan.
Andò ad aprire.
«Hai cinque minuti?» chiese il figlio con la faccia scura.
Morvan allargò le braccia per mostrargli la sua tenuta: felpa e pantaloni della tuta, pantofole foderate di pelo. Lo fece entrare e gli chiese se volesse qualcosa da bere. Erwan rifiutò con un brutale cenno del capo. Quel gesto intenerì Morvan: a più di quarant’anni suo figlio era sempre il solito testone, il solito cocciuto, con quel modo tutto suo di andare avanti tenendo sempre il piede premuto sul freno.
Spense la radio e provò a giocare la carta della complicità. «Quando è stata l’ultima volta che abbiamo passato un sabato sera insieme? Ti ricordi delle nostre serate davanti alla televisione? Delle...»
«Sono venuto a portarti un souvenir.»
Erwan mise una foto sul letto. Morvan la prese in mano e mentre la osservava gli si appannò lo sguardo. Libreville, 1978. Montefiori lo aveva invitato a trascorrere qualche giorno nella sua villa. Aveva appena firmato uno splendido contratto con Omar Bongo per la fornitura dei binari per una nuova ferrovia.
A spezzargli il cuore in quell’immagine non era Sofia, una bambina capricciosa che non aveva mai sopportato, né la giovinezza perduta – la sua e quella del ferravecchio –, bensì il sogno di redenzione che vi aleggiava. All’epoca i due negrieri pensavano che sarebbero stati salvati dai loro figli, il cui destino avrebbe lavato via i peccati, o almeno li avrebbe scusati. Ma niente di tutto questo era successo: avevano continuato a fare porcherie e i loro figli erano cresciuti nella ricchezza e nel sospetto, subodorando i crimini che li nutrivano. Avevano tutti perduto l’innocenza, come una nube che finisce per condensarsi in lacrime.
«Chi te l’ha data?»
«Sofia. Ha fatto le sue ricerche e ha scoperto un bel po’ di cosette...»
«Sai già la mia risposta, non farmela ripetere ogni volta: tutto quello che ho fatto...»
«È stato per il nostro bene, lo so. Ma me ne frego. Le vostre bugie, i vostri intrighi riguardano soltanto voi.»
«Loïc lo sa?»
«Non ancora.»
«Sofia ha parlato con suo padre?»
«Non ne ho idea. Vi vuole ammazzare.»
«E tu?»
«Voglio soltanto qualche chiarimento.»
Il Vecchio non riusciva a staccare gli occhi dalla foto. All’epoca Gaëlle non era ancora nata e ogni volta che vedeva la piccola Montefiori pregava di avere anche lui un giorno una figlia così bella. Poi il miracolo era avvenuto, anche se forse era stato il diavolo a fargli quel regalo.
«Sofia dice che il matrimonio è stato soltanto un pretesto per fondere le vostre quote della Coltano.»
«È vero.»
«E che voi avete fatto in modo che si incontrassero.»
«Vero anche questo. Sei turbato?»
«No. Ma non riesco ancora a capire una cosa. Sbaglio o vorresti sfruttare dei nuovi giacimenti alle spalle della Coltano?»
«Esatto.»
«Che ragioni hai di rubare a un impero che pensi di lasciare ai tuoi figli?»
«Perché esistono il breve termine e il lungo termine. Oggi la scelta migliore è arraffare la posta il più rapidamente possibile. Poi vedremo dove tutto questo ci porterà e cosa sarà rimasto dell’“impero”, come lo chiami tu, dopo la guerra e la nostra morte...»
«Come puoi contare su Loïc e Sofia per dirigere la società? Non sanno nulla di queste cose.»
«Saranno sempre meglio dei negri.»
«Un giorno mi dovrai spiegare se ami l’Africa o la detesti.»
«La risposta è nella domanda: il mio cuore non riesce a decidersi. È tutto?»
Suo figlio sembrava stranamente sicuro di sé. Gli stava nascondendo qualcosa. Sull’inchiesta? Su Loïc? Su Sofia? Morvan restò in silenzio. La sua tecnica preferita: ritirarsi nell’ombra e osservare la preda.
«Sono venuto anche per parlarti di Jean-Philippe Marot.»
Sapeva che l’omicidio di Pernaud avrebbe provocato una reazione a catena. E lo sapeva anche l’assassino.
«Il giornalista che si è suicidato?»
«Ho paura che tu faccia solo finta di non essere informato.»
«Sono informato di tutto. Perché vuoi parlarmi di lui?»
«Ludovic Pernaud è stato visto vicino a casa sua qualche giorno prima che fosse ucciso.»
«E quindi?»
«Pernaud era nei servizi segreti. Nella sua vita ha di sicuro dovuto “suicidare” parecchie persone, la maggior parte delle volte sotto tuo ordine.»
«Attento... Un poliziotto non può fare questo genere di accuse senza avere prove.»
«Marot è o non è roba tua?»
«Perché avrei dovuto ordinare la sua esecuzione?»
«Era un ficcanaso di prima categoria. Forse lavorava a un’inchiesta che bisognava stroncare sul nascere.»
Morvan si piazzò davanti alla finestra dando le spalle al figlio. Gli piaceva stare in quella posizione, con le mani in tasca: il comandante sul ponte di una nave. Sotto di lui, avenue de Messine, come sempre, era severa, distante e altera. «Sono finiti quei tempi, figliolo. Oggi non si ammazzano più le persone in questo modo. Siamo nell’epoca del consenso e del politicamente corretto. Nessuno si impegna più in nulla se non nelle cause che non gli costano niente: l’ecologia, il movimento no global... Ideali lontani e nebulosi, e nel frattempo ci sono i saldi da Colette...»
«Smettila di svicolare. Rispondimi.»
Morvan sospirò e si diresse verso un tavolo sul quale erano appoggiati un bollitore e alcune tazze di gres. La teiera di ghisa era già calda. La prese e la riempì di acqua bollente. «Sei sicuro che non vuoi un infuso ayurvedico? È quello che ci ha portato Loïc dal Tibet.»
Erwan non si diede nemmeno la pena di rispondere. Morvan se ne versò una tazza aspirando il profumo speziato. Beveva quella miscela ogni sera prima di andare a dormire. «Ti hanno incaricato dell’inchiesta?» gli chiese.
«Non c’è nessuna inchiesta, lo sai bene.»
«Marot era un impiccione della peggior specie», dovette ammettere. «La maggior parte di quello che scriveva era falso e gli scandali che ha sollevato si sono dissolti nel nulla.»
«L’hai fatto uccidere tu, sì o no?»
«Non è che ogni volta che muore qualcuno puoi dare la colpa a me.»
«Se Marot aveva scoperto qualcosa di imbarazzante, sei tu quello che avrebbero chiamato.»
«Tra i giornalisti e il potere esiste un accordo perverso: si lascia che svelino i loro pseudoscandali a patto che non tocchino gli argomenti davvero scottanti.»
«A cosa stava lavorando Marot?»
«Chi se ne frega? È storia vecchia.»
«Non posso credere che tu lo abbia fatto ammazzare senza battere ciglio.»
Morvan si sedette sulla poltrona accanto al divano dove stava suo figlio. «Sai cosa diceva Le Duc Tho, il generale vietnamita? “A questo mondo muore una persona ogni secondo. È bene che di tanto in tanto una di queste morti serva a una causa.”»
«Le Duc Tho era un fanatico.»
«Insignito del premio Nobel per la pace, però.»
«L’ha rifiutato!»
Morvan sollevò la tazza. «Ben detto, figliolo.»
«A quale causa è servita la morte di Marot?»
«La sola che valga davvero: l’ordine del paese. L’unica domanda che dovresti farti è: come e perché il nuovo Uomo Chiodo sa tutte queste cose?»
«Sono abbastanza grande per riuscire a condurre due inchieste alla volta. Se scoprirò qualsiasi cosa che dimostri la tua colpevolezza in questo caso ti farò cadere. Pagherai per tutti i tuoi crimini, te lo giuro.»
«Pago ogni santo giorno, credimi, a modo mio. Con l’Uomo Chiodo a che punto sei?»
«Non ho alcuna ragione per parlarne con un testimone. Anzi, con un sospettato. Ogni volta che facciamo un passo avanti nelle indagini il tuo coinvolgimento in questa faccenda diventa sempre più evidente.»
Il figlio aveva messo il dito nella piaga. Il sollievo che Morvan aveva provato per Gaëlle si stava dileguando insieme ai vapori dell’infuso. «Allora torna al lavoro invece di venire qui a rompermi i coglioni!» ribatté con irritazione.
«Sei stato tu a dirmi di concentrarmi sui fatti, la provenienza dei chiodi e tutto il resto.»
«E quindi?»
«I chiodi sono importati da una società lussemburghese: la Heemecht. La conosci?»
Morvan ignorava che la Heemecht spedisse quella vecchia ferraglia. L’assassino stava cercando di implicare anche l’italiano? L’unica certezza era che il suo movente si trovava in Africa centrale. «Sai già la mia risposta. I chiodi chi li compra?»
«Lartigues.»
Dunque c’erano ancora degli elementi importanti che gli sfuggivano... Una lezione di umiltà per l’uomo onnipotente che credeva di essere.
«Anche Montefiori è stato a Lontano?» riprese suo figlio.
«Sì.»
«Come Di Greco?»
«Dove vuoi arrivare?»
«Cosa avete fatto in Africa per suscitare così tanto odio?»
Morvan bevve una sorsata bollente e rispose in tono vago: «È passato così tanto tempo...».
Erwan si diresse verso la porta senza aggiungere una parola.
«Sta’ attento, Erwan. Troppe piste non fanno una strada, ma un labirinto.»
«È la frase del giorno?»
Scomparve giù per le scale, lasciando suo padre seduto in poltrona.
Morvan si alzò a fatica e andò a chiudere la porta. Il cassetto del comodino era ancora aperto. Prima di richiuderlo prese in mano la pistola, una Beretta 92FS in acciaio inox con quindici proiettili da 9 mm Parabellum nel caricatore più un colpo in canna.
«Si vis pacem, para bellum», mormorò.
«Se vuoi la pace, prepara la guerra» era il detto latino da cui derivava il nome di quelle cartucce. Rimise l’arma al suo posto.
Lui non aveva fatto altro che prepararsi alla guerra per tutta la vita, eppure non aveva mai trovato la pace.