109.

«La fermata del metrò è Jacques-Bonsergent

Il giovane poliziotto arrossì mentre pronunciava quelle parole: doveva averne piene le scatole di tutte le battute provocate da quella omonimia. Gaëlle lo trovava piuttosto carino. Sotto l’effetto dei sedativi, galleggiava in una specie di dormiveglia e la presenza di quel verginello era come una dolce ninnananna.

Nonostante indossasse una tuta e avesse un giaccone sulle spalle, sapeva che il suo fascino era rimasto inalterato. Gli aveva proposto di fare due passi fino in fondo al corridoio. Accanto ai distributori delle bevande c’era una finestra a vasistas. Gaëlle aveva voglia di una sigaretta. Anche il novellino. Ora stavano fumando mentre con la coda dell’occhio controllavano che non ci fossero infermiere nei paraggi, come due studenti in un corridoio dell’università.

«Non è sexy essere bloccati tutti e due qui?» lo stuzzicò.

Sergent arrossì ancora, senza rispondere. Tirava lunghe boccate, come se quella fosse l’ultima sigaretta di un condannato a morte.

«Ti hanno detto cos’ho fatto?» insistette lei.

«Mi hanno raccontato che...» Esitò. «Insomma... in avenue du Président-Wilson...»

«Il grande salto, caro il mio Jacquot, puoi ben dirlo...»

Gli parlava come se stesse rivolgendosi a un bambino, in un tono di voce tenero e familiare, leggermente canzonatorio. Il suo interlocutore doveva avere più o meno venticinque anni, ma era già curvo, come schiacciato dal suo abito a buon mercato.

Il poliziotto gettò il mozzicone fuori dalla finestra e le lanciò un’occhiata. «Cos’è che l’ha spinta... a tanto?»

«Progetti che non sono andati a buon fine.»

«Ma insomma... lei...» Non terminò la frase. I suoi occhi parlavano per lui: come aveva potuto arrivare a quel punto, lei che aveva tutto per essere felice? Ai ricchi si perdona ogni cosa, tranne la disperazione.

«Sai almeno cosa faccio per vivere?»

«Lavora nel cinema?»

«Quella è la mia copertura. In realtà faccio la puttana.»

«Ah!» Sergent divenne paonazzo. Non sapeva che cosa dire né tanto meno che cosa pensare. Gaëlle era la figlia di uno dei poliziotti più temibili di Francia e la sorella del suo capo.

«All’inizio», proseguì lei con la voce impastata, «mi dicevo che mi sarebbe stato utile per la carriera, ma poi ci ho preso gusto. D’altronde è comprensibile, a tremila euro a notte, no?»

Le sue tariffe non superavano mai i mille euro, ma si stava divertendo a tormentare quel poveretto. Lui aveva senz’altro sognato che con i suoi aneddoti da investigatore della Omicidi avrebbe avuto un giorno di che scandalizzare le ragazze. Gaëlle però in quell’ambiente ci era nata – e ai piani più alti – e ora giocava a fare l’anticristo.

«Io... In effetti, sì», balbettò. «È interessante.»

«E non c’è solo la grana. C’è anche il piacere.»

«Perché... insomma... può anche essere... piacevole?» Sergent faticava a restare in sella; a ogni parola rischiava di finire per terra.

«Male che vada, uno se ne frega», continuò lei con perversa crudeltà. «Quando va bene, invece, ci si prende gusto. Ma non è mai doloroso né degradante. Io...»

Un rumore nel corridoio. Entrambi voltarono la testa nel medesimo momento, aspettandosi di veder apparire un’infermiera. Non c’era anima viva. Nel reparto sotto chiave il silenzio si dilatava in una soffocante sensazione di catastrofe imminente...

«Vado a controllare», disse Sergent, fin troppo felice di potersi sottrarre a quella conversazione.

«È me che dovresti sorvegliare, non gli altri.»

«Vado lo stesso a dare un’occhiata. Non si muova.»

Il poliziotto aveva ritrovato la sua autorità. Si eclissò. Gaëlle si rimise la giacca sulle spalle. Aveva freddo. Aveva caldo. Sentiva il sapore dei medicinali in fondo alla gola. In un’altra vita quel ragazzo le sarebbe anche potuto piacere: dolce, gentile, una creatura da accarezzare, da coccolare a ogni ora del giorno e della notte...

I sedativi la autorizzavano a sognare senza provare vergogna. Perché facesse effetto il trattamento con gli antidepressivi ci sarebbe voluta almeno una decina di giorni. Nel frattempo, tranquillanti in dosi da cavallo.

Erano anni che non metteva piede in un istituto psichiatrico. Stranamente non era mai stata ricoverata al Sainte-Anne: in Francia i malati mentali vengono smistati in base al codice postale, non ai sintomi. Fu pervasa da un orgoglio perverso al pensiero di essere finalmente riuscita a farsi internare in quel luogo: la Mecca dei pazzi.

Che diavolo stava facendo Sergent? Non sentiva più i suoi passi, che sembravano essere stati assorbiti dalla penombra. Nell’attesa, si accese un’altra sigaretta.

Non aveva ancora incontrato il suo medico curante, ma nel corso della giornata aveva incrociato i compagni di reparto: una paranoica che sospettava che il suo psichiatra le stesse distruggendo le ovaie con le onde elettromagnetiche, un vecchio ossessionato dall’idea che uno dei reparti dell’ospedale portasse il suo nome, un altro che voleva una TAC per poter contare le pieghe del proprio cervello... Tutto nella normalità.

All’improvviso le luci si spensero. Istintivamente si guardò il polso. Niente orologio. Era senz’altro l’ora del coprifuoco. I suoi occhi si abituarono all’oscurità. Nessun rumore, nessuna presenza.

Ma dov’era Sergent?

Buttò la sigaretta e decise di andare a cercarlo.