111.

Gaëlle aveva cercato in tutto il reparto: nessuna traccia di Sergent. Rassegnata, era tornata ad aspettarlo in camera. Non poteva credere che il poliziotto l’avesse mollata in quel modo. Prima di tutto non era il tipo da disobbedire agli ordini, inoltre sembrava apprezzare la sua compagnia. O almeno era quello che sperava lei...

Altro giro. Percorse nuovamente il corridoio. Solo la luce soffusa dei lampioni che penetrava attraverso le finestre le permetteva di orientarsi. All’improvviso si fermò. Un rumore proveniente da una camera. Tese l’orecchio. Era uno scroscio simile a quello prodotto da una canna da giardino. La porta era socchiusa. Dalla stanza filtravano brevi lampi di luce.

Decise di arrischiarsi a dare un’occhiata, ma le ci vollero diversi secondi per capire ciò che stava vedendo. Una tenda era stata tirata attorno a un letto su cui era disteso un uomo. Un getto di sangue gli usciva dalla gola, al ritmo regolare delle pulsazioni. Una figura inguainata in una tuta nera se ne stava immobile accanto a lui. Gaëlle capì con raccapriccio che i lampi luminosi erano prodotti dal flash di un cellulare puntato in direzione del moribondo.

Riuscì a ricostruire gli elementi del quadro. La vittima era senz’altro Jacques Sergent. Il fotografo era l’assassino, vestito come uno di quei pagliacci che incontrava nei ritrovi fetish. Dai recessi della sua memoria Gaëlle recuperò anche il nome dell’indumento di origine giapponese che indossava: zentai.

In quel preciso momento l’assassino si voltò verso di lei. Senza riflettere, la ragazza cominciò a correre lungo il corridoio.

Si ritrovò davanti alla porta del reparto: chiusa, naturalmente. Si guardò alle spalle, con il cuore in gola, aspettandosi di vedere il mostro che la inseguiva: nessuno. Forse non l’aveva vista? Adocchiò una porta aperta. Entrò e si ritrovò in una camera vuota. Due letti senza materasso. Armadi di metallo. Un bagno.

Ci si infilò e si rannicchiò sul piatto della doccia, nascosta dietro la tenda di plastica. Si pentì subito di averlo fatto: sarebbe stato il primo posto in cui l’assassino avrebbe guardato. Tuttavia aveva bisogno di un rifugio dove poter riflettere. Se avesse chiamato qualcuno, avrebbe rivelato la sua posizione. Gli altri malati, intontiti dai medicinali, non avrebbero potuto aiutarla. L’ideale sarebbe stato battere sulle tubazioni o sui radiatori. Negli istituti psichiatrici qualsiasi rumore metallico faceva scattare l’allarme, anche quando gli infermieri toccavano per sbaglio qualche conduttura con le chiavi. Ma lei non aveva niente con sé: le era stato tolto tutto.

Era bloccata in una trappola in cui si era cacciata lei stessa. Nell’oscurità aveva l’impressione che i secondi si dilatassero. A scuoterla non era un semplice tremore, ma vere e proprie convulsioni. Sinistra ironia, proprio lei che solo la sera prima aveva tentato di uccidersi ora non voleva più morire.

D’un tratto ebbe un’altra intuizione. Jacques Sergent sicuramente aveva un passe-partout. Doveva uscire dal suo buco, tornare in quella camera e frugargli nelle tasche.

Alla peggio avrebbe trovato un cellulare per chiamare Erwan.

Scostò la tenda, terrorizzata all’idea che l’uomo in zentai fosse lì dietro con il coltello in mano. Nessuno. Scivolò fuori dal bagno e lanciò un’occhiata in corridoio. Nessuno.

Se n’era andato? Chi era? Un matto scappato da un altro reparto? No. La tuta e la facilità con cui era riuscito a entrare dimostravano che non era tenuto in ostaggio dall’ospedale. Anzi, era lui a tenere in ostaggio quel posto, e lei in particolare. Era Gaëlle il suo vero obiettivo. Aveva incontrato Sergent e l’aveva eliminato. Tutto lì.

Corse verso la stanza del crimine, rasentando i muri come se così facendo potesse rendersi invisibile. Il corridoio era immobile come un paesaggio minerale. Respirava a fatica. L’aria sembrava rarefatta.

Rumore di passi alle sue spalle.

Trattenne un grido e si accucciò sui talloni sperando di confondersi nella penombra. I passi si fecero più vicini. Suole di gomma sul linoleum.

D’un tratto lo vide.

Un infermiere, o forse un semplice guardiano notturno: camice bianco e torcia elettrica. La paura le scivolò addosso come cera liquefatta. Balzò in piedi e corse verso di lui. Provò a gridare ma non riuscì a emettere alcun suono.

Era a venti metri quando vide la creatura spuntare dietro di lui.

Ancor prima che il suo cervello avesse il tempo di processare quell’immagine, se ne sovrappose un’altra: un braccio nero, una mano guantata, una lama che affondava nella gola. Poi un geyser di sangue che scaturiva dalla carotide dell’infermiere.

Gaëlle si appiattì contro il muro. La vittima si accasciò e cominciò a dibattersi al suolo, scossa da violenti spasmi. L’assassino fissava lei. O almeno era questa l’impressione che aveva, dal momento che il cappuccio era privo di aperture. Un ricordo improvviso: quel tipo di maschera altera la respirazione per assicurare un piacere dieci volte più intenso al momento dell’orgasmo.

Sarebbe voluta fuggire, invece restò paralizzata per terra, incapace di muoversi. Aveva le tempie strette in una morsa, le membra bloccate, la vista annebbiata...

L’assassino continuava a fissarla. Il suo volto completamente nero ricordava un pezzo di cuoio. Gaëlle si aspettava che le si avventasse contro, invece si abbassò e con tutta calma indossò il camice macchiato di sangue del cadavere. Lei capì che stava godendo. Feticismo. Perversione. Piacere degenere di un’anima senza più nulla di umano.

Che senso aveva provare a scappare? Non c’era via d’uscita. Del resto, quando hai esaurito tutte le possibilità, ti resta solo l’impossibile. Pensò alle chiavi nelle tasche dell’infermiere che giaceva ai piedi dell’assassino.

D’istinto si lanciò contro l’uomo incappucciato. Prima che quello potesse reagire lei era già sul cadavere e frugava nelle tasche dei pantaloni. Niente chiavi. L’altro sollevò il braccio per colpirla. Gaëlle lo schivò buttandosi su un fianco e tornò alla carica. Un tintinnio alla cintura: sentì il mazzo sotto le sue dita, legato a un portachiavi estensibile.

Una mano la sollevò. Il coltello macchiato di sangue si abbatté su di lei. Con un salto all’indietro fece perdere l’equilibrio al suo aggressore. Si ritrovò seduta per terra. Niente chiavi, ma almeno si era liberata. Distese la gamba e lo colpì al ginocchio, apparentemente senza provocare danni.

La mano guantata la afferrò per i capelli. Gaëlle continuava a dibattersi e sferrò un altro calcio, che raggiunse il suo aggressore all’anca (aveva puntato alle palle). Questa volta il colosso indietreggiò dandole il tempo di alzarsi e scappare.

Era ancora in trappola e non aveva le chiavi. Attraversò la sala mensa, una stanza come tutte le altre dove al posto dei letti erano stati messi alcuni tavoli. Si precipitò alla finestra: anche quella non aveva maniglia.

Era bloccata lì. Nonostante il panico, riuscì a scorgere un passavivande con porte scorrevoli verticali alla sua sinistra. Il congegno che aveva fatto la fortuna di così tanti inseguimenti cinematografici era lì dove doveva essere. Con un gesto lo aprì e capì che avrebbe potuto raggomitolarsi all’interno.

Quando l’assassino si profilò sulla soglia – si era sbarazzato del camice –, lei si era già infilata nel compartimento e stava allungando il braccio per azionare il meccanismo.

L’ultima cosa che vide fu la mano nera tra le due ante che si chiudevano. Mentre la piattaforma piombava nell’oscurità, le venne in mente una battuta idiota: «La cena è servita!».