118.

Alle otto e mezzo Erwan piombò in commissariato e chia­mò a raccolta la sua squadra.

Aveva dormito appena due ore, si era fatto una doccia veloce e si era cambiato. All’alba aveva ricevuto le prime informazioni mediche sui sospettati. Nessuno di loro era zero negativo. Un altro buco nell’acqua. Attendeva le cartelle cliniche complete in mattinata.

Aveva detto ad Amarson di prendersela pure comoda con il verbale su Irisuanga. A ogni modo, la vera merda gli sarebbe piovuta addosso da un’altra direzione, da parte dell’avvocato del diplomatico nigeriano. Per quanto riguardava i due omicidi di quella notte, prevedeva una tempesta come raramente ne aveva viste. Fitoussi l’aveva già chiamato sei volte, la procura era in preda all’agitazione e i media avrebbero aperto la giornata con quella notizia, senza fare nessun collegamento – almeno così sperava – con le morti precedenti.

Ma Erwan aveva evitato il peggio: suo padre. L’aveva schivato all’ospedale e poi aveva staccato il telefono. Il confronto si preannunciava brutale. Il Vecchio, in completa malafede, gli avrebbe rinfacciato di non aver fatto tutto il possibile per proteggere la sorella e di essersi miseramente arenato nell’inchiesta.

Seduto alla scrivania, Erwan consultò il referto dell’autopsia di Ludovic Pernaud in attesa che arrivassero i suoi uomini. L’Uomo Chiodo aveva utilizzato le stesse tecniche, praticato le stesse mutilazioni, manifestato le medesime ossessioni. L’unica differenza era la cura con la quale aveva scuoiato la vittima. Secondo Riboise il modo in cui aveva condotto l’operazione confermava le sue competenze chirurgiche: il povero Pernaud era stato scorticato a regola d’arte.

Pensò per l’ennesima volta alla questione dello stupro anale: omosessualità che si esprimeva in un istinto di morte? Impotenza? Un collegamento con il movente della vendetta? Erwan non credeva alla pista di uno stupro passato o cose simili, e soprattutto non pensava che suo padre fosse implicato in un’aggressione a sfondo sessuale... Mise il referto nella pila dei verbali e si diresse verso la sala riunioni. Aveva le idee stranamente chiare e sentiva scorrere nel corpo un’energia febbrile, vere e proprie scariche elettriche.

Erano già tutti lì, in lutto. Il Sardina in un sobrio abito nero, Audrey con una bandana scura sui capelli color stoppia, Tonfa, mai come quel giorno boia di Londra, e Kripo in giacca di velluto verde bottiglia su un gilet di pelle scura. Il loro aspetto valeva più di mille parole: si sentivano tutti responsabili per la morte del piccolo Sergent. Nessuno avrebbe potuto prevedere l’aggressione di quella notte – il novellino avrebbe dovuto soltanto vegliare su Gaëlle e sulle sue pulsioni suicide – ma, in quanto anello debole, era compito loro inquadrarlo meglio, metterlo in guardia.

A rendere se possibile ancora più pesante l’atmosfera contribuiva anche un altro elemento: le opere di Pharabot, tornate dal laboratorio della Scientifica, se ne stavano ammonticchiate in un angolo della stanza, ciascuna nella sua busta di plastica sigillata, con l’espressione minacciosa e i corpi scolpiti rozzamente nella cartapesta.

Erwan decise di non fare commenti sulla morte di Sergent. Il modo migliore per rendere omaggio al collega era trovare l’assassino. Uno scambio di sguardi con Kripo funse da orazione funebre. Doveva un favore all’alsaziano: era stato lui a farsi carico di avvertire i genitori.

Provando a essere conciso, Erwan riepilogò i suoi sospetti. I nomi di Lartigues, Redlich e Irisuanga furono messi in cima alla lista. Senza riuscire a spiegare che ruolo quei tre perversi potessero avere in quella faccenda, chiese comunque un’indagine approfondita su ciascuno di loro entro il pomeriggio.

Da quando si era svegliato c’era un’idea che lo rodeva, ma per il momento non poteva parlarne con nessuno perché era troppo vaga. Un club di assassini. Uomini che avevano ucciso a turno, seguendo lo stesso modus operandi e ispirandosi al medesimo maestro: l’Uomo Chiodo. Il metodo era quello classico: ogni killer copriva i compagni colpendo quando gli altri non avrebbero potuto essere sospettati. A sostegno di quest’ipotesi non aveva niente, tranne un fatto: a ciascuno dei tre mancava un alibi. Lartigues avrebbe potuto uccidere Anne Simoni, Redlich Ludovic Pernaud e Irisuanga avrebbe potuto essere al Sainte-Anne. E perché no, al quadro si sarebbe potuto aggiungere anche Di Greco come assassino di Wissa. Erwan non escludeva che il suo club inizialmente fosse formato da un quartetto.

Storicamente non si erano mai verificati crimini seriali commessi da assassini diversi; l’unico precedente cui faceva riferimento era molto più che nebuloso: un vecchio film di Henri-Georges Clouzot, L’assassino abita al 21, dove tre omicidi si coprono a vicenda. Al contrario, le possibili obiezioni a questa ipotesi erano numerose: le competenze chirurgiche del killer, la sua esperienza come marinaio. Né Lartigues né Redlich né Di Greco né Irisuanga corrispondevano al profilo. Senza contare gli handicap fisici dei primi due e la malattia del terzo...

Così preferì tacere e lasciò la parola ai suoi uomini. Ma per l’ennesima volta si sentì ripetere lo stesso ritornello. Nessun risultato al Sainte-Anne (né tracce né testimoni). Nessun segno d’effrazione al padiglione Broca. Nessuna registrazione video dell’intruso. Sembrava un sortilegio.

In compenso il Sardina e Kripo avevano fatto una scoperta interessante. Uno aveva indagato su Pernaud, l’altro su Redlich. Confrontando i risultati delle loro ricerche, era emerso un inatteso collegamento fra i due sospettati.

«Pernaud era proprietario di diverse armi da fuoco», spiegò Favini. «Era iscritto al poligono di Galaney, negli Yvelines, dove anche Redlich andava ad allenarsi tutti i fine settimana.»

Erwan si ricordò che quel vecchiaccio arcigno li aveva accolti con un fucile in mano.

«Redlich è un appassionato di tiro a volo», confermò Kripo. «Possiede almeno cinque armi da fuoco. Stando a quello che raccontano i suoi colleghi, ha una pessima reputazione. Quando era giovane, in Africa, era noto per avere il grilletto facile. Ha perso perfino il diritto di soggiorno in tutto il Congo.»

«Abbiamo confrontato giorni e orari delle loro visite al circolo», proseguì Favini. «È tutto registrato su computer. I nostri due uccellini si sono incontrati diverse volte nel corso degli anni. Secondo me andavano a sparare insieme.»

Redlich avrebbe dunque potuto avvicinare Pernaud senza destare in lui nessun sospetto (e forse era per questo motivo che aveva messo a soqquadro il suo appartamento, per cancellare ogni traccia della loro relazione). Quello che era certo era che Lartigues conosceva Anne Simoni e probabilmente le aveva anche fatto da mentore. Il suo ascendente su di lei era abbastanza forte da convincerla, martedì sera, a seguirlo sul suo Zodiac? Rimanevano ancora Irisuanga, sorpreso nelle vicinanze del Sainte-Anne, e l’incursione di Di Greco nella brughiera...

I fatti sembravano delinearsi, ma restava comunque un problema decisamente ingombrante: tre dei sospettati non avrebbero potuto fisicamente compiere quegli omicidi.

Kripo tornò proprio su quell’argomento. «Ho ricevuto le cartelle cliniche dello scultore e dell’etnologo. Su quella di Lartigues non risultano trattamenti per la sclerosi a placche e su quella di Redlich non c’è traccia di infezioni. Ho stampato la lista delle cure cui si sono sottoposti negli ultimi vent’anni: Lartigues non è quasi mai stato malato mentre Redlich ha assunto farmaci per le sue vecchie febbri africane. O il loro handicap è finto o non ricorrono al sistema sanitario nazionale e non chiedono rimborsi alle assicurazioni. La cosa non ha senso.»

Erwan era d’accordo: in Francia nessun malato si sarebbe mai dimenticato di battere cassa. A meno che l’artista e l’etnologo si facessero curare da un nganga... o si fingessero invalidi. Per avere un alibi? Non lo credeva. Quei due erano molto più furbi di così. «Continua a indagare», disse a Kripo. «Cerca di scoprire se sono davvero malati e che medicinali prendono.»

«Chiediamo un mandato di perquisizione?»

«No. Dobbiamo muoverci in punta di piedi.»

L’alsaziano fece una smorfia. Significava che gli sarebbe toccato tornare a rovistare tra i rifiuti dello scultore e dell’etnologo e perquisire le loro abitazioni di nascosto. «Sei sicuro che ci sia tempo per una cosa del genere?»

«Non mi pare che abbiamo molto altro di cui occuparci...»

«Non potremmo far mettere i loro telefoni sotto controllo?» propose Favini.

«Troppo complicato. E se anche avessero qualcosa da raccontarsi, non ne parlerebbero al telefono.»

«Li facciamo pedinare? Entriamo nei loro computer?»

«Non voglio né appostamenti né sorveglianza informatica. Mettiamogli alle costole soltanto un uomo, il più discretamente possibile. Sono già all’erta e possiedono un’intelligenza fuori dal comune. Cosa mi dici di Irisuanga?»

Tonfa aprì il fascicolo: pagine stampate da Internet, presentazioni di esposizioni recenti curate dal nigeriano, immagini di ciò che l’arte contemporanea è in grado di produrre di più oscuro e grottesco. «Sulla Onyx niente di sospetto. Secondo questi articoli, si tratta di una galleria molto in voga. Sono in attesa di un riscontro del suo alibi, ma la compagnia aerea ha confermato date e orari del volo a Lagos.»

Il Sardina alzò la mano. «Un’altra cosa: mi avevi chiesto di trovare le minute del processo di Thierry Pharabot. Ci sarebbe un fascicolo, ma è scomparso.»

«Com’è possibile?»

«Non si sa. In archivio mi hanno detto che capita spesso che si perdano interi faldoni.»

Pensò a suo padre. Una volta lo chiamavano il Ripulitore. Era stato lui a farlo sparire? «E in Congo?»

«Ho contattato la Corte d’appello di Lubumbashi. Mi hanno assicurato di avere ancora tutti gli atti. Dicono che ce li manderanno “quanto prima”.»

«Ci credi?»

«Neanche un po’.»

«E in Belgio?»

«Il nostro ufficiale di collegamento mi ha promesso che avrebbe cercato.»

«Ti sembra affidabile?»

«Un pelo di più dei congolesi.»

Erano solo le nove del mattino. Erwan sapeva molto bene che cosa lo attendeva quel giorno: sfuriate da incassare, giustificazioni da dare e vuoti impossibili da colmare. Quello che aveva erano solo ipotesi, fantasmi e un enorme spazio bianco alla voce «prove». «E i corpi del Sainte-Anne?»

«Le autopsie sono in corso ma...»

«Levantin?»

«Nessuna notizia.»

«Al lavoro», concluse alzandosi in piedi. «Il punto a mezzogiorno.»

I poliziotti si guardarono: al lavoro su cosa, di preciso? Li salutò con un cenno del capo e tornò nel suo ufficio.

Si sentiva male. Nausea, fame, capogiri... Ma sapeva che non sarebbe riuscito a buttare giù niente. Aprì il frigo, afferrò una Coca-Cola Zero e si immerse nelle cartelle cliniche di Lartigues e Redlich. Appassionanti come un prontuario farmaceutico.

Bussarono alla porta. Apparve Levantin, con il suo atteggiamento da allegro contadino, circondato da un alone di luce degno dell’Angelus di Millet.

«Lo sai che possiamo anche sentirci al telefono, vero?» gli disse Erwan, irritato. «Non sei obbligato a venire qui ogni volta.»

Il coordinatore gettò sulla scrivania un fascicolo. «Il DNA del campione di sangue estraneo sul corpo di Anne Simoni appartiene a Thierry Pharabot.»