Delle due cose l’una: o Pharabot era ancora vivo o – ipotesi più probabile – prima che morisse qualcuno aveva prelevato il suo sangue per conservarlo fino a quel momento. Erwan non era uno specialista, ma doveva essere possibile congelarlo senza alterarne la composizione.
Quell’idea lo ricondusse all’ipotesi di un fanatico che avrebbe potuto avvicinare Pharabot allo Charcot. Un medico? Un infermiere? Lassay, il direttore dell’istituto, aveva scartato quella possibilità, ma forse non ne era al corrente. Oppure aveva cercato di nascondere qualcosa di grosso.
Altra congettura: uno o più seguaci dell’Uomo Chiodo avevano pagato un secondino dell’OPG o un dipendente delle pompe funebri per prelevare il sangue dell’assassino prima della cremazione. Perché non Lartigues o un altro dei sospettati? Il club di assassini avrebbe sicuramente potuto voler conservare un souvenir del maestro. In generale, tutti i fanatici di villa du Bel-Air sarebbero stati capaci di spingersi fino a quel punto. «Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue...»
Di fronte a quell’ipotesi Levantin aveva mostrato qualche riserva. Gli aveva spiegato che normalmente il sangue non veniva mai congelato così com’era: prima dovevano essere separati i globuli rossi, il plasma e gli altri elementi corpuscolati... E il campione non aveva subito quel processo. In ogni caso, sempre secondo l’esperto, per conservare i globuli rossi bisognava aggiungere un crioprotettore, che avrebbe sicuramente lasciato qualche traccia. Sempre che non fosse stato eliminato in un secondo momento, ma un procedimento simile avrebbe richiesto un laboratorio attrezzato in piena regola. Dunque, per Levantin, Pharabot era ancora vivo. Erwan ne dubitava, e l’idea di un assassino capace di compiere operazioni così complesse non gli sembrava da escludere. Dopotutto sapevano già che il killer possedeva conoscenze in campo medico.
Comunque doveva tornare al più presto a occuparsi dell’origine del problema.
«Kripo?» disse al telefono. «Buona notizia: si torna in Bretagna.»
«Cosa? Ma...»
«Ho bisogno del mio Scriba preferito. Conto di riuscire a strappare qualche confessione circostanziata.»
«A chi?»
«Te lo spiego dopo. Tu intanto compra due biglietti sul primo volo per Brest.»
«Erwan...»
«Non voglio discussioni!»
«Non sto discutendo: volevo solo dirti che Michel Clemente, il medico legale della Cavale blanche, mi ha appena chiamato.»
«Perché non ha contattato me direttamente?»
«Sostiene che tu non rispondi mai.»
«Cosa voleva?»
«Si è rifiutato di dirmelo.»
Erwan aveva salvato il numero di Clemente sul cellulare. Chiamò subito.
«Dottore? Comandante Morvan, squadra Omicidi.»
L’altro lo salutò con cortesia. Dal tono di voce Erwan intuì che aveva ripreso il suo quotidiano trantran e ritrovato la sua dignità di medico legale di provincia. I giorni dei cadaveri fatti a pezzi dovevano essere ormai solo un ricordo.
Anche se forse un ricordo non così lontano.
«Volevo segnalarle un particolare veramente... sorprendente», disse Clemente.
«La ascolto.»
«Sto raccogliendo la documentazione relativa al caso di Kaerverec. Se non ho capito male, dobbiamo farvi pervenire tutto quanto.»
«E dunque?»
«Mi sono ritrovato fra le mani un estratto della cartella medica di Jean-Patrick di Greco. Mi era stato mandato per l’autopsia e...»
«Non aveva la sindrome di Marfan?»
«Sì, certo. Perché me lo domanda?»
«Niente. Vada avanti.»
«Ho notato una discrepanza rilevante fra i miei riscontri durante l’autopsia e quanto riportato nella cartella. Riguarda il gruppo sanguigno. Sui documenti che ho ricevuto è A positivo. Secondo le mie analisi, invece, è zero negativo.»
«Si può cambiare gruppo sanguigno?»
«Solo in un caso.»
«Ovvero?»
«È piuttosto complicato da spiegare per telefono...»
«Ne parleremo di persona. Sarò alla Cavale blanche oggi pomeriggio. Mi aspetti all’istituto medico legale.»
«Vuole tornare solo per questo? Forse non è così importante. Potrei...»
«A tra poco.»
Riappese e si accorse di essere madido di sudore. Non era la prima volta che durante un’inchiesta assisteva a una simile accelerazione degli eventi. Dopo giorni di completa immobilità i fatti si moltiplicavano all’improvviso come cellule tumorali.
Guardò l’orologio: già le dieci. Non aveva tempo di passare da casa. Controllò gli effetti personali che teneva nell’armadio dell’ufficio. Beauty, camicia di ricambio, caricatori. Il kit del piccolo poliziotto in gita.
Bussarono alla porta.
«Avanti.»
Audrey si infilò dentro, con in testa la bandana nera.
«Cosa c’è?»
«Ti volevo dire una cosa a proposito di Pernaud. Abbiamo identificato un numero.»
Erwan mise giù la borsa da viaggio e le si avvicinò. Quando si diceva Pernaud, si diceva servizi segreti. E quando si diceva servizi segreti...
«Aveva un cellulare speciale che usava per chiamare sempre lo stesso numero.»
Si infilò le mani in tasca. Aveva già capito. «Quello di mio padre?»
Audrey esitò. Non l’aveva mai vista perdere il suo sangue freddo. «No, quello di tua madre.»