120.

Il volo Parigi-Brest decollava alle 13.40. Erwan aveva giusto il tempo di passare da Maggie. Impossibile rispondere alla convocazione di Fitoussi. Si era limitato a mandargli un SMS di scuse: «Un’urgenza».

Lungo il tragitto (guidava Kripo), nel caos che regnava nel suo cervello si moltiplicavano le supposizioni più assurde. Tra le più folli: Ludovic Pernaud era l’amante di Maggie. Oppure, non male nemmeno quella secondo la quale lei era complice di Morvan nell’organizzazione delle missioni segrete e delle altre manovre occulte al servizio dello stato. Ci sarebbe stato da ridere, anche se gli ci sarebbe voluto un cric per disserrarle le mascelle.

Non era facile tracciare un ritratto oggettivo della madre. Nei suoi confronti Erwan provava una sorta di esasperazione trattenuta. Le voleva bene, certo, ma in modo automatico. Quando pensava veramente a lei, sentiva montare dentro un’irritante miscela di compassione e di rancore.

Perché era rimasta con quel pazzo sadico?

Maggie viveva la propria condizione con un orgoglio mistico. Era il suo martirio, la sua crociata, sopportata in nome dei figli e dell’ordine borghese. Lei, che era stata una hippie spensierata e sfrontata, lei, che da giovane aveva sputato su tutti quei valori, ora li rispettava con una scrupolosità degna di una monaca benedettina.

Aveva lasciato il marito più volte. Aveva chiesto il divorzio. Aveva giurato che non sarebbe mai più tornata. Ma poi era bastata qualche promessa per ricondurla all’ovile. Il loro destino ricordava quello dei protagonisti delle tragedie greche o degli eroi della mitologia: qualsiasi cosa facessero, non riuscivano mai a sottrarsi al fato predetto dall’oracolo.

Avenue de Messine, domenica, ore 11.10. La tranquillità dei quartieri bene. Il sole filtrava tra le cime degli alberi. La calma di Parc Monceau rifluiva fin lì come un fiume le cui acque lambivano gli ingressi dei palazzi.

«Aspettami qui», disse Erwan a Kripo. «Non ci metterò molto.»

Rinunciò a prendere l’ascensore. Mentre saliva le scale, lo assalì un ricordo: sua madre in ospedale dopo un misterioso incidente. Lui, a nove anni, seduto nella sala d’attesa a leggere una rivista di arti marziali comprata dal padre. Sente il Vecchio spiegare al medico che sua moglie è caduta dalle scale. Capta la risposta del dottore: nonostante le fratture multiple, riusciranno a salvarle il braccio.

Erwan si concentra sulla sua lettura, stupito che nessuno evochi un’altra versione, quella che collimerebbe con i colpi e le grida che lui ha sentito e con le urla della madre quando lo stronzo l’ha buttata giù dalla tromba delle scale. Vede le parole fluttuargli davanti agli occhi. Stringe la rivista fra le mani. Ironia della sorte, si tratta di un numero speciale, dedicato alle star del cinema di kung-fu: Bruce Lee, Jackie Chan, Jet Li... Avrebbe voglia di scappare via. O di uccidere tutti quanti. Ma non riesce a muoversi. Confuso, si dice che se quel giorno non succederà nulla – se suo padre non finirà dentro e sua madre tornerà a casa –, allora la guerra sarà perduta per sempre.

Una settimana dopo Maggie era tornata con il braccio ingessato.

Suonò il campanello e si asciugò le mani sudate sulla giacca. Sua madre gli aprì dopo quasi un minuto, avvolta nel suo grembiule di stoffa riciclata. Si era sempre rifiutata di assumere qualcuno che l’aiutasse: un altro grande ideale che per lei si era risolto in una vita da sguattera.

«Erwan?» chiese in tono stupito. «Cosa succede?»

«Va tutto bene. Posso entrare? Non ci metterò molto.»

Maggie fece un passo indietro per lasciarlo passare. La bellezza le aleggiava ancora sul viso come un ricordo ormai logoro. Una radio gracchiava da qualche parte. Il salotto era un campo di battaglia: tappeti piegati, cuscini sfoderati, sedie impilate... In due giorni sua figlia si era buttata dalla finestra ed era scampata a un tentato omicidio, ma evidentemente niente poteva alterare il mandala dei lavori domestici.

«Mi serve per schiarirmi le idee», si giustificò lei. «E siccome oggi il nostro pranzo è saltato, ne approfitto per fare le pulizie di fino. Vuoi bere qualcosa?»

«Grazie. Resto solo qualche minuto. Devo prendere un aereo.» Non aveva tempo per frasi di circostanza e giri di parole. «Nel corso delle mie indagini è saltato fuori il tuo numero di telefono.»

«Come?»

«Una delle vittime ti ha chiamata tre volte il giorno prima di essere uccisa.»

Sua madre spalancò gli occhi sporgenti. A Erwan sembrò di poter distinguere ogni capillare in quel bianco vitreo. «Chi?»

«Ludovic Pernaud.»

«Mai sentito nominare.»

«Come te lo spieghi?»

«Lavorava con tuo padre?»

«Dimmelo tu.» Prese una sedia e si mise in mezzo al salone spoglio.

Maggie spostò con un piede l’aspirapolvere e si sedette su una chaise longue di velluto. «A volte usa il mio cellulare...»

«Per fare cosa?»

«I suoi uomini lo cercano sul mio numero solo per segnalargli che deve richiamarli.»

Quella confessione collimava con quanto aveva potuto constatare dai tabulati telefonici: tutte le chiamate di Pernaud erano durate appena qualche secondo. Ciò nonostante sentiva che gli stava mentendo. «Lo sai cosa fa il papà in place Beauvau?»

«È già molto tempo che ho smesso di chiedermelo.»

«Quando hai deciso di... smettere?»

Sua madre agitò il braccio, come a dire: “L’ho dimenticato”. Erwan la osservava: quella mattina non riusciva a vedere nessuna delle due Maggie, né la svaporata che sgranocchiava semi messicani sognando un mondo migliore né la creaturina impaurita che rasentava i muri non appena sentiva il marito girare la chiave nella serratura. Tutt’a un tratto si domandò se non ne esistesse una terza: un essere glaciale che dietro quell’aspetto fragile celava una forza misteriosa e chissà quali segreti.

«Cos’è successo tra voi due a Lontano?»

«Non ricominciare con queste vecchie storie.»

«Rispondi.»

«Ci siamo incontrati durante la sua inchiesta.»

«Nel 1970? Io sono nato nel 1971.»

«Nel ’69. È stato un vero colpo di fulmine.»

«Un colpo di fulmine. Tra te e il papà?»

«Ne abbiamo già parlato. I nostri... rapporti attuali non cambiano quello che è stato.»

«Mi ha detto che la vostra storia è stata segnata dalla violenza...»

«Non la nostra, quella dell’Uomo Chiodo. Le vittime si moltiplicavano. La cosa lo mandava... fuori di testa.»

Lui gli aveva propinato le stesse balle: testimonianze concertate, nel gergo della polizia giudiziaria. «A parte l’indagine, era coinvolto in qualche altro traffico?»

«Tuo padre cercava l’assassino e manteneva l’ordine a Lontano. Non si è mai occupato di nient’altro.»

«Finché non ha ereditato le miniere di manganese.»

«Questo è successo molto dopo, quando ormai aveva risolto il caso.»

«Cosa sapevi delle sue indagini?»

«Niente. Non me ne parlava. Non si fidava di nessuno.»

«Nemmeno di te?»

«Soprattutto di me. Era convinto che i bianchi proteggessero l’assassino perché era uno di loro, un colonialista sfruttatore. Per quanto possa sembrarti strano, all’epoca tuo padre era un idealista di sinistra. Voleva liberare l’Africa.»

«Durante l’inchiesta ha commesso qualcosa di illegale?»

«In Africa niente è illegale, e comunque ne aveva tutto il diritto. C’era una sola cosa che contava: trovare l’assassino.»

Erwan cercò di provocarla. «L’uomo che ti ha chiamato, la vittima del mio assassino, era anche lui un killer.»

Nessuna reazione. Si disse con ironia che Maggie aveva qualcosa in comune con Ludovic Pernaud: la passione per la pellicola da cucina.

«Qualche giorno prima di morire ha fatto un lavoretto», continuò. «Credo che abbia agito su ordine del papà.»

Non le parve sorpresa. Non aveva bisogno di quel genere di sospetti per sapere che suo marito era un assassino. Lei stessa era una sopravvissuta.

«Un lavoretto che riguardava un tizio impegnato a scrivere un libro sulle ex colonie africane», insistette Erwan.

«E tuo padre avrebbe ordinato la sua... eliminazione soltanto per questo?»

«Avrebbe potuto scoprire qualche segreto su di lui.»

«Sei diventato pazzo.»

Maggie aveva pronunciato quelle parole in tono sincero ma era chiaro che stava fingendo. Non poteva non essere al corrente delle attività segrete del marito. In quel momento Erwan pensò che magari era coinvolta.

Le undici e mezzo. Doveva andare. Si alzò e si diresse verso la porta.

«Non capisco perché mi fai tutte queste domande», disse lei seguendolo verso l’ingresso.

Si voltò bruscamente. «Da dieci giorni c’è qualcuno che crede di essere l’Uomo Chiodo. Ci sono già state tre vittime. Cinque, contando quelle del Sainte-Anne. Per la maggior parte collegate al papà. L’assassino sta vendicando Pharabot, capisci?» Le afferrò il braccio. «Sicura che non devi dirmi niente? Qualcosa che mi permetterebbe di identificarlo, di evitare altre morti?»

«No, ti giuro che...» Maggie si interruppe di colpo. Aveva gli occhi sbarrati, il collo tirato. In un attimo si era rimessa la maschera della vittima consenziente, pronta a incassare.

Erwan la lasciò andare provando un senso di disgusto: si era appena comportato come suo padre.

Scendendo le scale richiamò Audrey e le ordinò di trovare, a qualsiasi costo, qualche elemento che implicasse suo padre nel caso di Marot.

«Oltre a tutto il resto?» chiese lei, riferendosi all’inchiesta in corso sull’Uomo Chiodo.

«Oltre a tutto il resto, sì. Dobbiamo incastrarlo, porca puttana!»

Mentre usciva dal palazzo, ripensò alle parole della madre e si disse che doveva assolutamente procurarsi gli incartamenti del processo di Pharabot. “È l’unico modo per saperne di più su questa faccenda.”

Un minuto dopo era in macchina.

«Tutto bene?» si informò Kripo.

«Fila. Ne ho piene le palle di perdere tempo.»