126.

«Le linee immortalizzate!»

La sala era una via di mezzo tra una biblioteca e un laboratorio polare. Scaffali in acciaio inox refrigerati e numerati. Piastrelle bianche su pavimento e soffitto. La luce fredda dei neon era perfetta per rischiarare i contenitori di azoto liquido mantenuti a meno centottanta gradi.

«Sono anni che raccogliamo cellule.»

«Cellule staminali?»

«Non sempre lo sono all’inizio, ma le resettiamo per poterle riprogrammare geneticamente.»

Parevano tutti astronauti di carta: tuta, cuffietta in testa, copriscarpe ai piedi. Ogni loro movimento era accompagnato da un gran fruscio. Indossavano una mascherina da chirurgo e occhiali per proteggersi da eventuali schizzi: l’azoto è così freddo che brucia come una fiamma.

«A chi appartengono le cellule?»

«A pazienti previdenti ai quali, quando sarà il momento, potremo salvare la vita.»

Avanzarono lungo file di scaffali scintillanti. Stranamente, quel luogo di vita eterna assomigliava a un obitorio.

«Un giorno cominceremo a conservare sistematicamente un frammento del cordone ombelicale a scopo terapeutico.» Il medico appoggiò la mano guantata su una porta cromata. «Ogni individuo disporrà di uno stock di cellule staminali con cui rigenerare il sangue, il midollo osseo e gli organi stessi.»

Erwan pensò al Mercoledì delle ceneri, un giorno di astinenza e digiuno, in cui il prete traccia una croce sulla fronte del fedele pronunciando le parole della Genesi: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai». Quell’epoca si era conclusa: l’uomo non era più polvere, ma cellule immortali.

«Mi parli di Di Greco, Lartigues, Redlich e Irisuanga.»

Schlimé non si fece pregare. «Sono venuti da me con un progetto completamente folle, che ho subito appoggiato.»

«Perché?»

«Innanzitutto per i soldi. Poi per l’esperienza. La loro idea era affascinante: diventare qualcun altro grazie a un trapianto di midollo.»

«Sapeva da dove provenivano le cellule? Quale modello avevano scelto?»

«No. E non mi importava.»

Quell’uomo aveva riprodotto un assassino in quattro esemplari e ne parlava come se si trattasse di un normale progetto di ricerca.

«Lo sa che potrei incriminarla per esercizio illecito della professione medica?»

Il chirurgo abbassò la mascherina e rise di cuore. Dalla bocca gli uscì un pennacchio di vapore. «Lei è impagabile. Non può incriminarmi e lo sa bene. E di certo non qui, dove non ha alcuna autorità.»

«Chiederò ai miei colleghi svizzeri di intervenire.»

«Chi proverà queste accuse? Lei? Potrei presentare non importa quale documento per dimostrare che questi uomini soffrivano di leucemia. La terapia radiante ha distrutto completamente le vecchie cellule e il trapianto ha rigenerato il loro organismo.» Alzò in aria le piccole mani guantate. «Nessuna traccia, e chi s’è visto s’è visto!»

Erwan cominciava a battere i denti in quel cellularium.

«Non posso credere che abbia approvato un progetto del genere.»

«Minacciavano di iniettarsi qualcosa per costringermi a prenderli in cura.»

«E lei ci ha creduto?»

«No, ma quel ricatto era la prova della loro determinazione. Tanto valeva intascare i soldi e tentare.»

«Lo sapeva che quelle cellule provenivano da un morto?»

«Non ho voluto conoscere i particolari.»

«Sono convinto che i suoi “volontari” abbiano ucciso almeno cinque persone credendosi l’assassino al quale appartiene il DNA che gli ha iniettato.»

Schlimé inarcò per un istante le sopracciglia, ma ritrovò subito la sua espressione da rossino allegro. Un po’ miserello come epitaffio di cinque vittime. Discutere con lui di morale e responsabilità non sarebbe servito a nulla: sembrava freddo tanto quanto i suoi armadi, tanto folle quanto i suoi reincarnati.

«Mi dia le date, i nomi, le circostanze.»

«Perché dovrei?»

Erwan abbassò a propria volta la mascherina. «Checché ne dica, sappia che già domani posso mandare qui una squadra di poliziotti svizzeri. Non sottostimi il mio potenziale di danno.»

Respirando Schlimé continuava a emettere sottili sbuffi di condensa, che attorno a lui sembravano diventare rosa. «Mi segua», disse alla fine. «Qui si gela.»

Lasciarono le tute di carta in un’anticamera e si infilarono in altri corridoi. Il colosso era scomparso. Si ritrovarono in un minuscolo ufficio traboccante di libri e faldoni, che ricordava quello di Lassay allo Charcot.

«Quindi aveva già incontrato questi criminali prima di ricevere i campioni?»

Schlimé si versò un tè verde. Evidentemente ne teneva un thermos pieno in ufficio. «Chiamiamoli “pazienti” se non la disturba. Tutto era stato programmato con largo anticipo, è ovvio. Non sono terapie che si possano improvvisare.»

«Le cellule dovevano arrivarle a una data precisa?»

«Avevamo sempre parlato della fine del 2009. Quando sono arrivate, sono state congelate e abbiamo iniziato a sottoporre a trattamento radioterapico i... volontari. Poi si è proceduto alla coltura.»

Dunque la morte di Pharabot era programmata. José Fernández non aveva soltanto prelevato le cellule dal cadavere, ma l’aveva anche soffocato nella notte, inscenando un ictus o una crisi cardiaca. I fanatici avevano ordinato l’assassinio del loro modello per potersi reincarnare nella sua pelle.

«A quando risale il trapianto?»

«All’ottobre del 2010.»

«Le sedute di radioterapia sono durate così tanto?»

«È un protocollo molto pesante. Si tratta di distruggere completamente il midollo osseo.»

«Tutti e quattro l’hanno subito nello stesso momento?»

Schlimé fece cenno di sì. Teneva la tazza di terracotta con due mani. I modi affettati di quell’allegro chirurgo gli davano sui nervi.

«Alla fine hanno dovuto essere ricoverati, vero?»

«Sì, l’ultima fase è quella più delicata. Il paziente è molto debole, in condizioni di salute precarie. È allora che vengono iniettate le nuove cellule. A poco a poco, il corpo si rigenera.»

Erwan immaginò quei quattro che, circondati dalle pinete svizzere, si trasformavano nell’Uomo Chiodo. Chi aveva pagato? Di sicuro Lartigues e Irisuanga, i due benestanti del clan.

«Secondo le mie informazioni, Di Greco ha cambiato gruppo sanguigno.»

«Anche gli altri. Il midollo osseo produce globuli e piastrine.»

«E il DNA

«Le due cose vanno di pari passo. Ormai possiedono tutti quello del donatore.»

«Erano compatibili con le cellule trapiantate?»

«No, è questo il problema. Li avevo avvertiti: non si può scegliere il proprio donatore. Ho dovuto prescrivere loro forti dosi di ciclosporina, che li ha indeboliti. È così che Lartigues e Redlich hanno sviluppato un’artrite settica.»

Erwan ci aveva visto giusto. Schlimé sembrava contrariato: quei trapianti erano il suo capolavoro e ora cominciavano a mostrare segni di cedimento.

«Che speranza di vita hanno?»

«Non sono ottimista. Per il momento sopravvivono tra due minacce: da un lato il rigetto, dall’altro le malattie che potrebbero contrarre.»

Erwan si ricordò dell’ispezione della spazzatura di Lartigues. «Non abbiamo trovato né ricette né medicinali a casa loro».

«Sono io a occuparmi di tutto. Assistenza postvendita, per così dire.»

«Vengono fin qui?»

«Ci arrangiamo in qualche modo.»

«Quando li ha visti l’ultima volta?»

«Un mese fa. Di Greco non c’era.»

Il Grande Corpo Malato, bloccato sulla portaerei, roso dalla malattia e dai suoi giochi crudeli.

«In che condizioni li ha trovati?»

«Molto agitati. Lartigues e Redlich consideravano il rigetto come un segno del... biasimo del loro idolo. Non facevano che ripetere che sarebbero passati allo stadio successivo, che tutto sarebbe andato a posto, che la fusione si sarebbe completata... Non ho capito niente.»

“Guarda un po’...” Nel loro delirio, dovevano aver pensare che per realizzare la grande simbiosi bisognasse sacrificare delle vittime, dei feticci. O forse era accaduto il contrario: nonostante il fallimento del trapianto, si erano comunque sentiti investiti dallo spirito dell’assassino, come se una parte della sua anima perversa, distillata dalle sue cellule, fosse penetrata in loro.

Erwan si alzò e squadrò l’omino in pile. Non riusciva a stabilire quali fossero i suoi sentimenti nei confronti di quell’apprendista stregone. Avrebbe dovuto rompergli tutti i denti, sbatterlo dentro o limitarsi a ringraziarlo per la sua onestà?

Alla fine optò per la scelta più civile. «Grazie, dottore.»

«Quindi nessun arresto? Niente interrogatorio in questura?»

«Questo lo deciderà la polizia del suo paese.»

«Come dite voi in Francia, “a ciascuno la sua merda”...»

«Proprio così.»

Attraversò l’atrio senza incontrare anima viva. Anche l’infermiera se n’era andata. Una volta uscito, mentre avanzava di sbieco per proteggersi dalle raffiche gelate, gli sembrò di fendere la notte nuotando alla marinara.

Prima di accendere il motore controllò i messaggi. Kripo, dieci minuti prima. Lo richiamò subito.

«È successa una cosa», disse l’alsaziano trafelato. «Due gendarmi sono stati uccisi questa sera verso le sei sulla N165, a pochi chilometri da Brest.»

«Cosa?»

«Un controllo di routine. Due individui a bordo di una monovolume. Il conducente ha sparato sei colpi e poi si sono dati alla fuga. Abbiamo la targa: il veicolo appartiene a Ivo Lartigues. Secondo quando riportato dai testimoni, al volante c’era Redlich. È stato lui a sparare. Lartigues era il passeggero.»

«E lo sappiamo soltanto ora?»

«È sempre la solita storia. I gendarmi hanno prima lanciato un’operazione di ricerca a livello locale e...»

«Li hanno trovati?»

«Sì. Grazie alla targa sono risaliti a un indirizzo nel Finistère: una casa di proprietà di Lartigues vicino a Locquirec.»

Il villaggio distava appena qualche chilometro da Kaerverec e ancora meno dallo Charcot. Come avevano fatto a non pensarci prima? In fondo era lì che Wissa Sawiris era stato ucciso. Probabilmente Lartigues aveva comprato quella casa per la sua prossimità con l’OPG. Lo scultore voleva stare il più vicino possibile al suo maestro.

«I gendarmi si trovano già sul posto», continuò Kripo, «e sono stati ricevuti a colpi di fucile d’assalto. Si profila un assedio in piena regola. È stata ritrovata anche una macchina con la targa diplomatica. Appartiene all’ambasciata della Nigeria. Sicuramente Irisuanga è con loro.»

Due handicappati e un gigante cornuto. Tre trapiantati posseduti dallo spirito di un serial killer. Tre disperati in trappola come topi.

«C’è anche Verny?»

«Con tutta la sua cricca. Aspettano l’arrivo del gruppo d’intervento della gendarmeria nazionale.»

Erwan non poteva credere che la faccenda si sarebbe risolta in quel modo. Un’ultima mano della partita dove i punti si sarebbero contati in morti e feriti. «Chi li ha chiamati?»

«Ordini dall’alto. Da Parigi.»

«Chi comanda l’operazione?»

Kripo tossì. «Tuo padre.»

Ancora una volta il Vecchio al posto di comando. Ma come faceva a essere già informato?

L’alsaziano indovinò i suoi pensieri. «Un cablogramma dello stato maggiore. Ha subito preso in mano la situazione. Non conosco i dettagli, ma a quanto pare è stato Valls in persona a consegnargli le chiavi dell’operazione.»

Ecco perché dal tardo pomeriggio suo padre non aveva più provato a chiamarlo. Preferiva gestire la situazione da solo, senza l’aiuto né la complicità del figlio.

«Vi ha contattati?» si informò Erwan, mosso da un’intuizione.

«Sì, immediatamente. Ha parlato con me.»

«Cosa ti ha detto?»

«Che non voleva vedere le nostre brutte facce.»

«È tutto?»

Kripo esitò. «Mi ha chiesto un resoconto dettagliato sull’inchiesta».

«E tu gliel’hai fornito?»

«Sì... Gli ho spiegato tutto. La storia del trapianto, José Fernández, la clinica della Vallée. Insomma, ogni cosa...»

Erwan scosse la testa. Quel finale obbediva a una logica profonda: l’Uomo Chiodo si era reincarnato nel corpo di quei tre folli e ancora una volta, quarant’anni dopo il primo scontro, sarebbe stato Morvan a occuparsene. «Posso essere a Chamonix tra un’ora. Mandami un elicottero alla stazione della gendarmeria.»