Nonostante il passamontagna riconobbe subito Philippe Gallois. Lo aveva incontrato durante una dimostrazione del gruppo d’intervento a Versailles e lo ricordava come un bifolco campione di tiro e fanatico di Sarkozy. Infilato nel giubbotto antiproiettile, auricolare all’orecchio e pistola in mano, il colonnello aveva dalla sua una qualità fondamentale: la calma.
Presentazioni. Una curiosa miscela di rispetto e disprezzo reciproci.
«Come vede la situazione?» chiese Morvan per cortesia.
«Non è favorevole. Non ho nessun punto sopraelevato dove posizionare i cecchini né la possibilità di avanzare restando al coperto.»
«Non parlavo del posto. Come pensa di intervenire?»
«Bisogna prima negoziare.»
«Sono d’accordo», mentì Morvan.
«I nostri psicologi...»
«Lasci perdere gli psicologi. Conosco questi stronzi e l’assassino al quale si ispirano. Si credono protetti da forze magiche. Dobbiamo parlare la lingua che anche loro...»
«Il nostro negoziatore sta arrivando.»
«Sono io il negoziatore.»
«Sta scherzando? Lei è qui come inviato del ministro degli Interni. Non dovrà intervenire sul campo...»
«Conosco il caso. Conosco la loro psicologia. Posso...»
Gallois guardò l’orologio. «Aspettiamo il nostro uomo.»
Il passamontagna gli conferiva un’aria se possibile ancora più ottusa. A Morvan sembrava di stare a discutere con Fantômas in una trincea di Verdun. Fantastico.
«Secondo il mio rapporto», ricominciò l’altro, «da diverse ore non viene registrato nessun movimento, nessun rumore. Forse si sono fatti saltare le cervella.»
«Non hanno messo in piedi tutto questo per ammazzarsi così.»
«Cosa vogliono allora?»
«Lasci che mi metta in contatto con loro.»
«È fuori questione. Non siamo pagati per far sparare ai civili.»
«Ci vado io», si offrì Verny. «Sono a capo dell’inchiesta. Sarò più credibile. Voi copritemi le spalle.»
Gallois lo squadrò per un istante. Anche Morvan lo osservò: un tipo ben piazzato e dall’aria determinata che non parlava alla leggera. Quegli squilibrati gli avrebbero sparato come a un coniglio. Sarebbe stato ordinato l’assalto. A quel punto lui avrebbe potuto fare ciò che doveva.
Ma era davvero il caso di rischiare in quel modo la vita del gendarme?
«Se si avvicina, da solo e disarmato», chiese Morvan al colonnello, «come potrà coprirlo?»
«Il retro della casa è a picco sulla scogliera. Impossibile prenderli alle spalle. Possiamo soltanto accerchiarli dai lati. Dopodiché lanceremo fumogeni, lacrimogeni e granate multibang per neutralizzarli.»
Quella del rumore era l’ultima novità in fatto di armi d’attacco: le granate, oltre alle scintille e ai gas, producevano anche detonazioni di più di centottanta decibel, quanto bastava per paralizzare il nemico.
Gallois lanciò un’occhiata in direzione dell’edificio. Il giorno che stava sorgendo rendeva sempre più evidente la difficoltà dell’obiettivo, piazzato su un terreno completamente aperto.
«Poi c’è il problema del muretto.»
La casa era circondata da una cinta alta circa un metro. Dopo averla superata, Verny sarebbe sparito dal loro campo visivo. Impossibile proteggerlo.
«È sicuro?» insistette il capo del gruppo.
Il tenente colonnello depose la propria arma e si accovacciò sulle ginocchia, pronto a uscire dalla trincea.
«Tengo il giubbotto sotto la giacca.»
«Avverto i miei uomini. Le do l’okay via radio.»
Senza attendere risposta, Gallois si issò e raggiunse di corsa la trincea successiva.
«Possiamo trovare un’altra soluzione», tentò ancora Morvan mentre Verny si chiudeva la giacca a vento.
«No, lo sa bene anche lei.»
Grégoire si voltò verso Le Guen e Archambault. Visi tesi, muscoli e ossa che guizzavano sotto pelle. Dietro di loro, gli uomini in assetto da combattimento si moltiplicavano lungo la piana, dilagando sul terreno come una pioggia nera.
Verny fece un gesto che avrebbe voluto essere rassicurante. «Al minimo segnale di ostilità, faccio dietrofront.»
Il gendarme si chinò per ascoltare meglio dall’auricolare: l’operazione cominciava. Si alzò in piedi e uscì. Nel medesimo istante due ombre sbucarono da un’altra trincea e scivolarono in mezzo all’erba. Morvan si decise a infilarsi l’auricolare e ascoltò le direttive del numero uno: ormai tutti quelli che avanzavano verso la casa con le imposte azzurre erano sotto i suoi ordini.
Verny era arrivato a cento metri dall’edificio quando il primo sparo lo fece cadere a terra. Il secondo colpo sibilò nell’aria come una freccia di cristallo, subito seguito da una raffica. Gli stronzi avevano fucili mitragliatori.
Morvan stava per lanciarsi fuori dalla trincea per recuperare l’ufficiale quando vide che gli uomini del GIGN si erano già precipitati. Nuove detonazioni. Pregò che i tre psicopatici non utilizzassero cartucce in carburo di tungsteno, capaci di penetrare nel kevlar.
A testa bassa, i gendarmi trascinavano Verny per le cinghie del giubbotto antiproiettile. Dalla sua postazione, Morvan notò che era ancora cosciente. Nessuna traccia di sangue. Avevano mirato al petto, protetto dal giubbotto. Un segno di buona volontà?
La squadra di soccorso si buttò nella trincea. Verny stava soffocando. Gli strapparono le cinghie di velcro. Morvan aveva visto male: il gendarme era stato colpito, il sangue gli colava dalla gola. Osservò la ferita. Sembrava che il proiettile avesse soltanto sfiorato la carne del collo, sul lato sinistro. Qualche millimetro più in là c’era la carotide: Verny aveva avuto fortuna. La guerra era stata dichiarata.
Quasi a conferma nell’auricolare gli giunse l’ordine di Gallois: «Lanciamo l’assalto».
La sua voce soffiava nel ricevitore come una turbina.
«Mi mandi un medico, piuttosto», ruggì Morvan mentre Le Guen prestava i primi soccorsi a Verny.
I gendarmi sarebbero morti come mosche. Vittime, provvedimenti disciplinari, settimane di critiche sui media. Si prospettava una valanga di merda senza uguali.
Si alzò e vide Gallois – o almeno sembrava lui – che faceva ruotare il braccio in aria. Le ombre si misero in movimento ai quattro angoli del campo. Almeno una ventina di uomini che avanzavano a coppie, i primi con uno scudo antiproiettile, i secondi armati con un fucile d’assalto.
Morvan non sentiva più niente. Erano passati al linguaggio dei segni. Una volta conosceva il significato di quei codici ma ormai aveva dimenticato tutto. Era condannato a seguire l’operazione come un comune spettatore.
Nuovi colpi furono esplosi. Breve fermo immagine. Poi tutto si rimise in moto, con i gendarmi che cominciavano a rispondere al fuoco. Le raffiche crepitavano nell’aria. Frammenti di materiali vari esplodevano volando dappertutto: zolle di terra dalla parte del commando; granito, legno e ardesia intorno alla casa.
Morvan si arrischiò a dare un’altra occhiata: stavano portando via Verny. I colpi piovevano da ogni direzione. Archambault e Le Guen sparavano con la sicurezza tipica dei militari ben addestrati. L’esperto di sette se ne stava paralizzato sul fondo della trincea, le mani strette intorno alla 9 mm. Anche Grégoire si sentiva sopraffatto: l’ultima volta che aveva partecipato a un’operazione simile era stato negli anni Ottanta. Che cazzo ci faceva lì?
“No. Il cadavere si muove ancora, mio generale.” Si raddrizzò, si strappò l’auricolare, caricò un colpo in canna nel suo fucile a pompa e cominciò a sparare. Gli bastò un istante per sentirsi parte dello scontro. Avrebbe ucciso o sarebbe stato ucciso: la decisione ormai era presa.
La sparatoria continuò. L’aria era attraversata dai fischi dei proiettili. L’odore di polvere da sparo riempiva le narici. Ricaricò. Stava per esplodere un altro colpo quando si accorse che gli assalitori erano arrivati all’altezza del muretto di cinta. Due coppie erano disposte sui due lati del passaggio d’ingresso, un ginocchio a terra e il fucile appoggiato sulla guancia. Ora veniva il difficile: raggiungere la casa.
Dagli spiragli delle imposte uscivano di tanto in tanto delle fiammate, senza che si riuscisse a distinguere i tiratori. Difficile credere che avessero a che fare con un uomo in sedia a rotelle, uno zoppo e un mutante con una cresta di metallo.
Le teste di cuoio penetrarono nel giardino, due alla volta, i primi prendendo a destra, i secondi a sinistra. Un istante più tardi da dietro il muretto cominciarono a salire nuvole di fumo. Le granate lacrimogene avrebbero allontanato quei folli dalle finestre, consentendo agli artificieri di piazzare cariche esplosive sugli stipiti e sulle intelaiature.
Una detonazione improvvisa coprì ogni altro rumore. Si sollevò una gigantesca fiammata. Il muro di cinta si dissolse in una nuvola di calcinacci e polvere. Inizialmente Morvan pensò a un errore dei reparti d’assalto: il plastico doveva essere esploso loro tra le mani. Ma il boato era stato troppo forte. I detriti di pietra nera e i cocci di vetro piovevano dall’alto misti a resti umani e frammenti di kevlar.
«Cristo santo!» gridò Archambault alzandosi di scatto. Un attimo dopo un proiettile gli portò via mezza faccia. Crollò sul fondo della trincea. Al posto delle mascelle c’era ora una massa nerastra. Morvan mollò il fucile e premette con le mani sulla ferita. Le dita gli si colorarono di rosso. Gli occhi del gendarme si fecero bianchi. Era andato.
Morvan aprì i palmi imbrattati di sangue, frammenti di denti e saliva e li osservò. Lentamente, tornò ad accorgersi degli altri: Le Guen si era gettato sul corpo farfugliando qualche preghiera. Il poliziotto di Parigi stava vomitando.
Ma soprattutto, attraverso il fumo e i fili d’erba bruciata, scorse Erwan, suo figlio. In piedi sul ciglio della loro trincea con la pistola in mano, pronto a buttarsi nella fossa, si era bloccato davanti allo spettacolo di Archambault sfigurato. Ora se ne stava immobile come l’obelisco di place de la Concorde.
«STA’ GIÙ!» gridò Morvan afferrandolo per la falda della giacca.
Erwan cadde nella buca senza distogliere lo sguardo dal cadavere di Archambault. Sembrava sotto shock. Il padre gli abbassò la testa mentre le pallottole continuavano a fischiare.
Lanciò un’occhiata in direzione dell’edificio: il muro era scomparso, l’orto aveva preso fuoco, le fiamme cominciavano a divorare l’edera e le ortensie. Un uomo si trascinava in mezzo al fumo tenendosi la coscia, che terminava con un moncone. Grégoire si accorse che il figlio se n’era andato.
Afferrò il fucile a pompa, raccattò qualche caricatore e se lo infilò in tasca. Un attimo dopo accorreva in aiuto di Erwan, che stava correndo verso la casa.