135.

Erwan apprezzava una sola cosa dell’ospedale: gli orari. Colazione alle sei del mattino, sostituzione delle bende alle sette: nessun problema. Poi aveva atteso che aprisse l’ufficio amministrativo per firmare la liberatoria per la dimissione, con cui sollevava l’ospedale da qualsiasi responsabilità.

La sera prima un agente della polizia giudiziaria gli aveva portato la sua macchina e, nonostante la fasciatura che gli stringeva l’addome, era riuscito a guidare senza difficoltà. Alle otto e mezzo stava percorrendo boulevard de l’Hôpital in direzione della Gare d’Austerlitz.

Il fatto che si fosse rimesso così in fretta non era dovuto al riposo ma soltanto a Sofia. I momenti che avevano trascorso insieme la sera prima erano stati, come dicono gli intagliatori di diamanti, flawless, «privi di difetti». Avevano fatto l’amore e ogni movimento gli aveva strappato un gemito di dolore. La cosa gli aveva dato un piacere intenso che forse aspettava da tutta la vita. Quello del giansenista incapace di godere senza la sofferenza del castigo.

Dopo che Sofia se n’era andata, intorno a mezzanotte, non era più riuscito a dormire. Si era immerso negli atti del processo ed era stato sveglio tutta la notte a leggerli. Senza concludere niente, o quasi. Ma ora si sentiva purificato, percorso da una sorta di eccitazione febbrile.

Stava risalendo lungo il quai de Montebello quando Kripo lo chiamò.

«A che punto siete?» gli domandò Erwan senza lasciargli il tempo di parlare.

«Non abbiamo scoperto un bel niente. Nessun rapporto, nessun collegamento specifico fra i nostri uomini e gli omicidi.»

«Spiegati meglio.»

«In ciascun crimine, uno qualunque dei sospettati potrebbe essere stato l’assassino. Nessuno di loro ha un alibi. Ma è tutto quello che abbiamo. Di Greco sarebbe potuto scendere a terra per ammazzare Wissa Sawiris nella notte del 7 settembre ma, per quanto ne sappiamo, potrebbe benissimo anche essere andato a pescare. Lartigues era solo la sera dell’11 settembre, però non vuol dire che si trovasse sotto Pont d’Arcole. Redlich conosceva Pernaud, anche se nessuno lo ha mai visto in rue de la Voûte e così via.»

«Le prove materiali?»

«Durante la perquisizione dell’atelier di Lartigues e della casa galleggiante di Redlich non è stato trovato niente.»

Quai des Grands-Augustins. Quai de Conti. Quai Malaquais. Non aveva nemmeno dato uno sguardo al commissariato, sull’altra sponda della Senna, da dove Kripo gli stava parlando. «E tu, con Irisuanga?»

«La muraglia cinese. Appartamento e galleria sono protetti dall’immunità diplomatica. Domenica era di sicuro alla festa di Lartigues, ma a che ora se n’è andato? Mistero.»

«È tutto?»

Kripo rispose in un tono che non gli aveva mai sentito usare: «È tutto? Sto provando a spiegarti che forse ci siamo sbagliati, che tuo padre ha accoppato tre sciroccati nessuno dei quali era l’Uomo Chiodo, che il vero assassino è ancora a piede libero... e tu mi domandi se è tutto? Stai diventando davvero incontentabile in fatto di grane...».

Erwan non replicò. Quelle nuove informazioni confermavano, misteriosamente, quanto aveva appreso dalla lettura degli atti processuali. Si era sciroppato i compendi delle testimonianze, le dichiarazioni allucinate di Pharabot, le sintesi delle arringhe, tutto senza trovare niente di importante.

Non erano le righe scritte di quei documenti ad avergli parlato, bensì i loro spazi bianchi. Qualcosa non quadrava. C’era un particolare che gli sfuggiva, un dettaglio che, pur riguardando crimini commessi quarant’anni prima, avrebbe potuto aiutarlo a comprendere meglio quel caso.

«Mi ascolti? Cosa facciamo?»

«Continuate a indagare, frugate nel loro passato, trovate un cazzo di movente.»

«Ma comunque non avremo prove dirette.»

«Per questo possiamo fare ben poco. Chiuderemo il fascicolo soltanto con le indirette.»

«Non ti riconosco più.»

«Si chiama “principio di realtà”.»

«Okay. Lo comunico agli altri.»

Kripo riagganciò mentre Erwan attraversava il Pont Royal in direzione di rue des Pyramides. Quartiere dell’Opéra: cambio di scena. All’accademia di polizia insegnavano che le grandi arterie dell’epoca del secondo impero, larghe e dritte, erano state concepite per controllare le rivolte popolari, sparare cannonate e lasciar passare la cavalleria. «La dimostrazione», gli aveva confermato suo padre, «è che il ’68 è scoppiato sull’altra sponda della Senna!»

Era giunto il momento di far tremare il Vecchio.

«Sei ancora in ospedale?» gli domandò Morvan in tono preoccupato quando Erwan lo chiamò.

«Sto tornando a casa.»

«Ti hanno dimesso?»

«Mi hai fatto solo un graffio...»

«Dobbiamo parlarne. Ho dovuto...»

«Non ho più nemmeno la forza di avercela con te.»

«Vittoria per abbandono!» Morvan rise. «Ti dovresti riposare.»

«Sono in partenza.»

«Posso darti le chiavi di Bréhat.»

«Vado in Belgio.»

Breve pausa.

«Perché in Belgio?»

«Questa notte ho letto gli atti del processo di Lubumbashi. Tre raccoglitori di quattro chili ciascuno.»

Nuovo silenzio. Erwan passò accanto al Palais Garnier, sontuoso e dorato, per poi prendere una traversa in direzione di rue Lafayette, un altro vialone progettato su misura per la cavalleria leggera.

«Dove te li sei procurati?»

«A Namur: avevano in archivio le trascrizioni degli avvocati.»

«Cosa cerchi di preciso?»

«Ci sono alcuni elementi che mi sembrano poco chiari. Per non dire strani.»

«E allora? Il caso è chiuso e i colpevoli sono morti.»

«Forse no. Restano ancora molte domande senza risposta. Il fatto che quegli squilibrati si siano fatti impiantare il midollo osseo di un morto non li rende automaticamente degli assassini.»

«Hanno ammazzato due gendarmi.»

«Vero. E si sono barricati a Locquirec con un arsenale. Ma voglio essere sicuro che siano stati loro a uccidere Wissa Sawiris e gli altri.»

«Continui a non rispondere alla mia prima domanda: perché il Belgio?»

«Voglio interrogare alcuni testimoni del primo caso.»

«Quali?»

«Non lo so ancora.»

Preferiva non fare nomi.

«Non ti porterà da nessuna parte, ragazzo mio. Sta’ attento: c’è mancato poco che questa storia mi facesse diventare pazzo.»

Decise di stuzzicare un po’ il Vecchio. «Però al processo sembravi esserci perfettamente con la testa.»

«Cosa vorresti dire?»

«Leggendo le tue testimonianze ho avuto l’impressione che tu ce l’abbia fatta soprattutto grazie alle tue capacità oratorie.»

«Non credi che Pharabot fosse colpevole?»

«Non dico questo. Avevi vere prove e vere confessioni. Ma per quanto riguarda i fatti e le circostanze restano ancora diverse cose da spiegare.»

«Che cazzo vorresti insinuare? Che non ho fatto il mio lavoro?»

«Mi pongo soltanto una domanda. L’Uomo Chiodo aveva colpito nove volte...»

«Se non l’avessi arrestato, sarebbe toccato a tutte le studentesse di Lontano.»

«Appunto. Nel clima di paranoia che si era creato, come ha fatto ad avvicinarle? Quando c’è un assassino a piede libero a Parigi, una città di più di due milioni di abitanti, nessuna donna esce più di casa. Lontano aveva soltanto qualche decina di migliaia di anime...»

«Hai visto la sua foto?»

«No. Non ho trovato nessun documento antropometrico.»

«Pharabot aveva il terrore delle macchine fotografiche. Una superstizione africana. Era un ragazzo biondo, con i capelli tirati all’indietro e una faccia d’angelo. Un’espressione che era un misto di dolcezza e sgomento. Perché avrebbero dovuto diffidare di lui?»

Quella risposta non aveva senso. Erwan immaginò il panico delle studentesse e delle segretarie dell’epoca. Anche un vecchio con una gamba sola sarebbe riuscito a terrorizzarle.

Stava percorrendo rue Cadet. Presto sulla destra avrebbe trovato rue de Bellefond. Mentalmente stava già preparando la valigia.

«Forse in Belgio troverò qualche risposta. E, se non dovesse bastare, andrò in Africa.»

«Quali risposte? Sei impazzito?»

«No, sono solo ferito... Pharabot e i suoi omicidi sono l’albero che nasconde la foresta.»

«Quale foresta? All’epoca...»

Erwan era entrato nel parcheggio del suo palazzo. Si accorse che era caduta la linea.

Il cemento aveva i suoi lati positivi. Era l’unica cosa che riusciva a far chiudere il becco al Vecchio.