141.

Gli indicò una sedia accanto a un tavolo ricoperto da una tovaglia cerata. Erwan si rivide bambino, in visita presso la fattoria che sorgeva accanto alla casa che i suoi genitori affittavano per le vacanze. Ogni cosa aveva un che di triste, di brutale, ma emanava anche un’autenticità e una concretezza sconosciute al piccolo parigino.

«Quando di preciso conobbe... Nono?» chiese per aprire le danze.

«Quando suo padre arrestò Thierry Pharabot.»

«Sa anche questo...»

La religiosa sorrise. Sul suo volto comparvero una miriade di rughe; la maschera bruna si trasformò in una ragnatela. Reggeva la tazza con le due mani, come se fosse un’offerta. «Leggo i giornali francesi. Sapevo che prima o poi lei sarebbe venuto a suonare alla mia porta.»

Erwan bevve un sorso di caffè bollente. Aveva la gola anestetizzata. Tirò fuori il registratore e lo appoggiò sul tavolo. «Posso?»

«Prego.»

Premette il pulsante. Secondo interrogatorio.

«Pharabot viveva in una baracca isolata a due chilometri da Lontano», cominciò suor Marcelle. «Lì dentro i militari zairesi trovarono tutti i suoi strumenti, gli ingredienti magici, gli appunti e anche un bambino di undici anni, in uno stato pietoso. Reagirono all’africana. Bruciarono la baracca, interdissero l’accesso alla zona e sbatterono il piccolo in una prigione schifosa. Mancò poco che bruciassero anche lui.» Parlava con un accento diverso da quello di Krauss: puro vallone che, alle orecchie di un parigino, suonava piuttosto comico.

«Credevo che tutti temessero e rispettassero Pharabot.»

«Finché non venne arrestato. Il potere bianco aveva spezzato la sua forza. In questo senso, un complice bambino era il peggio che potesse capitare. Un piccolo stregone da linciare. Cominciarono a esibirlo durante le loro messe. Organizzarono esorcismi. Quando lo vidi per la prima volta, stavano per mettergli un copertone in fiamme intorno al collo.»

«Dov’era mio padre?»

«Si stava occupando di Pharabot e del suo trasferimento a Kinshasa. Non era al corrente della situazione.»

«Ne è sicura?»

«Più che sicura. Fui io a contattarlo.»

«Come reagì?»

«Come me. Era convinto che il bambino fosse innocente. Una semplice pedina in tutta quella storia. Ci mettemmo d’accordo: lui avrebbe pensato alla burocrazia, io nel frattempo avrei preso con me il piccolo.»

«Come riuscì a farlo? Tecnicamente, intendo.»

«Lo Zaire non era né la Francia né il Belgio. E comunque non fu incriminato. Se anche aveva aiutato Pharabot ad attirare in trappola le ragazze, quelle non erano più lì per poterlo raccontare. Pharabot non disse nulla su di lui.»

Erwan abbassò lo sguardo: la spia del registratore sembrava un ferro arroventato. «Mi parli del bambino. Me lo descriva.»

«Si chiamava Arno, con la O, alla fiamminga. Arno Loyens. Era biondo e gracile. Anche lui era un orfano, veniva da Mons. Come fosse finito a Lontano non l’ho mai saputo. Pharabot lo aveva preso a vivere con sé. Tutti credevano che fosse un suo parente: un po’ si assomigliavano.»

Erwan pensò agli stupri. «Crede che Pharabot avesse abusato di lui?»

«Sono sicura di no. Nono non aveva subito sevizie sessuali. Fui io a raccogliere la sua testimonianza. Lo scopo era un altro. Pharabot voleva trasmettergli i suoi poteri prima di essere arrestato. Aveva iniziato Nono...»

«Padre Krauss me l’ha raccontato.»

La religiosa scosse la testa, come a dire: “Vale la pena parlarne ancora”. «Nono aveva vissuto da solo nella foresta per diversi mesi. Ogni giorno, o meglio ogni notte, Pharabot si recava da lui per portargli da mangiare. Lo andava a trovare nella sua tenuta da nganga

Prese una scatola di biscotti in metallo dal tavolo, la aprì e tirò fuori alcune vecchie foto in bianco e nero. Ritratti di stregoni, o di guaritori (soltanto un occhio esperto sarebbe stato in grado di distinguerli). Uomini con copricapi di piume e maschere di legno che reggevano scettri intagliati o campanacci decorati. Quelle immagini trasudavano orrore.

«Stando a quello che raccontava Nono», proseguì suor Marcelle prendendo una foto, «Pharabot indossava una maschera di questo tipo.»

Indicò un ovale di legno chiaro che riproduceva i tratti di un neonato paffuto dalla pelle coriacea. Grandi occhi neri, bocca piccola e stretta, quasi una fessura, un’espressione dalla quale traspariva un’irresistibile e palpitante crudeltà.

«Nono era traumatizzato, naturalmente, ma possedeva una forza d’animo fuori dal comune. I bambini hanno sempre una riserva d’innocenza che consente loro di superare indenni le peggiori abiezioni.»

Suor Marcelle rimise la foto nella scatola. Dietro la montatura degli occhiali, che sembrava fatta con le graffette, era leggermente strabica. “Quelli che nessuno vuole, Dio se li piglia”, si disse Erwan suo malgrado.

«Rimasi con lui a Kinshasa», continuò la religiosa. «Dopo sei mesi aveva imparato a mangiare con le posate e una volta alla settimana mi raccontava qualcosa su quegli anni tremendi. Quasi una psicoanalisi. Solo allora cominciò a tornargli in mente il peggio.»

«Il peggio?»

«Gli omicidi. Nel corso dei sacrifici era lui a passare gli attrezzi al maestro, a pulire il sangue, ad aiutarlo a deporre la vittima lungo le piste nella foresta.»

«Sugli omicidi che cosa le disse?»

«Preferisco non ricordarlo.»

Il poliziotto immaginò i due – l’uomo e il bambino – che, ricoperti di argilla bianca e polvere di legno rossa, officiavano i loro riti intorno a quei corpi martoriati. «Non ha una sua foto?»

«No. Non ha mai voluto farsi fotografare. Era...» Si interruppe per poi aggiungere in tono accorato: «Non è lui l’assassino di oggi!».

«Come fa a dirlo?»

«Quando lo lasciai, Arno era completamente guarito. Due anni di terapia, di dolcezza, di studi. Era dotato, intelligente ed estremamente gentile. Una semplice vittima delle circostanze.»

«Sorella, sono pagato per credere che simili circostanze non si cancellino mai del tutto...»

«Sono d’accordo con lei, ma noi lo allontanammo dall’Africa, dalla stregoneria, dalla violenza. Non testimoniò al processo.»

«Noi chi?»

«Suo padre e io. Grégoire aveva un amico influente a Bruxelles che si occupò di mettere Arno in una struttura di accoglienza nel Belgio francofono. Riuscì anche a fargli cambiare nome e procurargli documenti falsi.»

«Perché?»

«Non voleva che nessuno potesse più risalire a lui né collegarlo in un modo o nell’altro a quella faccenda. Diceva che ogni nuova occasione comincia sempre con la totale distruzione del passato.»

«Quindi non conosce il nuovo nome di Arno?»

«No. E nemmeno suo padre. Per lui l’importante era che ricominciasse da capo. Arno non avrebbe più dovuto tornare né contattarci. Noi stessi non avremmo dovuto essere in grado di rintracciarlo.»

Erwan non poteva credere a quella storia: un apprendista assassino lasciato andare così, e nessuno che sapeva il suo nome o il suo indirizzo? Quello non era un messaggio in bottiglia, bensì una molotov pronta a esplodere. E comunque conosceva troppo bene suo padre per bersi la storiella che aveva deciso di ignorare una simile minaccia. Il Ripulitore aveva la fama di saper fare molto bene il suo lavoro... «Grazie, sorella.»

Quando si alzò, l’anziana donna gli si aggrappò al braccio. «Non lo cerchi. Lo lasci in pace. Non c’entra niente con tutto questo. Negli ultimi tempi diceva: “Sono un nganga. Posso volarmene via su un guscio di arachide. Posso scomparire con il vento dopo la pioggia”. Sono certa che è diventato un medico, o magari un prete. Un uomo che ha fatto soltanto del bene per tutta la vita.»